Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
MASSIMO FRANCO: “LA SITUAZIONE RIMANE IN BILICO. LA PREOCCUPAZIONE È CHE LE ELEZIONI PRECEDENTI A QUELLA IN VENETO ABBIANO UN ESITO NEGATIVO PER LA COALIZIONE… “LA COALIZIONE CONTINUA A ESSERE FRENATA DALLA COMPETIZIONE INTERNA, CHE ACCENTUA L’ANTICA DIFFICOLTÀ DI ESPRIMERE UNA CLASSE DIRIGENTE”
Saranno elezioni regionali a tappe, spalmate su due mesi. Sia per evitare un impatto
troppo traumatico in caso di sconfitta multipla in un solo giorno, sia per calibrare candidature e rapporti di forza in base ai risultati.
È un ragionamento che vale per la maggioranza di governo come per le opposizioni, che stavolta tendono a presentarsi più unite grazie a una spregiudicata distribuzione delle aspirazioni tra Pd e 5 Stelle. A ammettere un possibile «effetto domino» a partire dal voto del 28 e 29 settembre nelle Marche è la Lega di Matteo Salvini.
«L’esito avrà un valore anche per le altre regioni dove sono in programma le elezioni», ha spiegato il suo alter ego Andrea Crippa. La sottolineatura, in apparenza inutile, è un segnale agli alleati. Il candidato della destra nelle Marche è Francesco Acquaroli, di FdI. E una sua affermazione faciliterebbe la soluzione del rebus in Veneto, dove la Lega insiste per avere un suo esponente al posto di Luca Zaia: anche se niente è ancora deciso.
La riunione dei leader di governo in programma in settimana dovrebbe dire una parola definitiva. In realtà, è tutto bloccato da mesi. Il partito di Giorgia Meloni ha rinunciato a rivendicare la carica di governatore per non irritare un alleato già nervoso. A FdI e a FI basta avere sventato l’ipotesi di una lista personale del presidente uscente Zaia. Ma la situazione rimane in bilico. Pesano le diffidenze reciproche, e non solo.
La preoccupazione è che le elezioni precedenti a quella in Veneto di fine novembre abbiano un esito negativo per la coalizione; e dunque possano acuire le tensioni e ritardare la definizione delle candidature.
Significherebbe rivelare un affanno paradossale, per una maggioranza di certo più coesa e omogenea rispetto alle sinistre più il M5S. Eppure, la coalizione continua a essere frenata dalla competizione interna, che accentua l’antica difficoltà di esprimere una classe dirigente in grado di prevalere almeno a livello locale.
La parola d’ordine non detta del partito della premier è discontinuità. Significa riequilibrare i rapporti di forza negli enti locali dopo la vittoria alle Politiche del 2022.
Quella leghista è opposta. Salvini sottolinea «la giusta continuità» della coalizione in Calabria e Marche per rivendicarla nel Veneto. «Abbiamo le idee chiare, votano 7 regioni. Quindi c’è spazio per tutti i partiti del centrodestra». In realtà, è uno spazio che si rivelerà largo o angusto a seconda di come andranno le prime Regionali.
Massimo Franco
per il “Corriere della Sera”
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
IL GOVERNO HA ALIMENTATO LA FORBICE TRA SENIOR E GIOVANI, DISINCENTIVANDO TUTTI I CANALI DI PENSIONE ANTICIPATA, SENZA NEL FRATTEMPO METTERE IN CAMPO POLITICHE ATTIVE PER LE NUOVE GENERAZIONI
Ha ragione la premier Giorgia Meloni: il suo governo può festeggiare un milione di occupati in più in quasi tre anni. Ma sono tutti over 50: proseguimento del lavoro più che nuove assunzioni. Lo conferma l’Istat con le sue serie storiche pubblicate ieri assieme al dato di luglio.
Il sorpasso dei senior sui più giovani matura nel tempo, ma parte proprio dall’autunno del 2022. Quando la destra va al potere, le curve si invertono: “vecchi” sopra, giovani sotto.
E l’esecutivo nulla ha fatto per chiudere la forbice. Anzi l’ha alimentata, rendendo ancora più rigida la legge Fornero. Di fatto disincentivando tutti i canali di pensione anticipata. Senza nel frattempo mettere in campo politiche attive per i giovani.
Il Paese invecchia, ma non è solo questo. Troppi inattivi: un terzo della forza lavoro, dice Istat. Un quarto tra in ventenni. Italia al record del tasso di occupazione, ma distante quasi dieci punti dalla media Ue. E in coda per giovani, donne e Sud.
Il dato di luglio conferma tutte queste tendenze. Ma la premier festeggia: «Rispetto a luglio 2024 si registrano 218mila occupati in più, soprattutto con contratti stabili. Numeri incoraggianti che confermano l’efficacia delle misure messe in campo».
Dice la verità quanto al record. Il mercato del lavoro italiano è ai massimi: 24,217 milioni di occupati, 13mila in più su giugno e 218mila in più sul 2024. Il tasso di occupazione sale al 62,8%, quello di disoccupazione scende al 6%, sotto la media della zona euro per la prima volta dal 2007. Con un miglioramento tra i giovani under 25: dal 20,1% al 18,7% in un mese, quando crescono i contrattini estivi. Tornano a salire infatti i tempi determinati.
Se andiamo a guardare dentro i 218mila occupati aggiuntivi scopriamo come solo una fascia d’età sia cresciuta in modo impetuoso. Quella degli over 50: +408mila. Le altre fasce calano o crescono pochissimo: -36mila tra 15 e 24 anni, +6mila tra 25 e 34 anni, addirittura -160mila tra 35 e 49 anni.
Gli over 50 ancora una volta trainano tutto. E tra questi forse anche moltissimi pensionati lavoratori. Gli over 64 sono ben 119mila su 408mila, il 29%. Vette sconosciute persino per un Paese anziano come il nostro.
Nel mese di ottobre del 2022, con la destra appena uscita vittoriosa dalle urne, i senior occupati con più di cinquant’anni erano 9 milioni. Ora sono 10 milioni: 998mila in più. Eccolo il milione decantato da Meloni. Vent’anni fa gli occupati tra 35 e 49 anni superavano di quasi 5 milioni gli over 50. Oggi sono 1,5 milioni in meno.
Dal sorpasso dell’autunno 2022 se ne sono persi per strada 132mila. E l’erosione continua. La bassa disoccupazione al 6%,
celebrata dalla premier, pare un pannicello caldo. Perché gli inattivi tra 15 e 24 anni a luglio erano 4,5 milioni, cresciuti di 117mila in un anno. E se in questa fascia molti studiano, quella seguente tra 25 e 34 anni fa spavento: 1,5 milioni di inattivi, 23mila in più in un anno.
Anche depurato dal fattore demografico (la forza lavoro che invecchia), il dato Istat di luglio conferma che l’occupazione under 35 è in calo, mentre quella degli over 50 cresce del 2,3%. Di questo, la premier Meloni esulta.
(da Repubblica)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“IL CONFLITTO È FALLIMENTARE E CONTRARIO ALLA DOTTRINA MILITARE DI ISRAELE. LA DISTRIBUZIONE DEL CIBO È STATA PIANIFICATA ED ESEGUITA IN MODO MOLTO SCARSO E CIÒ HA PERMESSO A HAMAS DI CONDURRE UNA CAMPAGNA MEDIATICA DESCRIVENDO GAZA COME UN LUOGO DI FAME”… IL MORALE DELLE TRUPPE È BASSO E C’E’ IL RISCHIO DI ALTRE FUGHE DI NOTIZIE IMBARAZZANTI
La tesissima riunione notturna del Gabinetto di sicurezza israeliano, conclusasi a
insulti tra i ministri più estremisti e il Capo di stato maggiore Eyal Zamir, un falco che al cospetto dei messianici Ben-Gvir e Smotrich sembra una colomba, racconta quanto profonda sia la spaccatura interna allo Stato ebraico.
Zamir ha detto ai ministri che l’esercito non è disposto a diventare il futuro governo militare della Striscia, neppure se dopo Gaza City gli venisse chiesto di occupare anche i campi profughi nella zona centrale.
«Ci volete trascinare lì, cercate di capire quali saranno le conseguenze». La presa dell’intera Striscia porterebbe i generali ad assumerne il controllo, lasciando poi spazio all’amministrazione americana di mettere in pratica l’idea di trasformare la terra palestinese nella “Riviera del Medio Oriente”, come suggeriscono il progetto GREAT trust e gli altri presentati a Donald Trump.
A partire da oggi Israele inizierà a richiamare 60mila riservisti e il governo resta sordo agli avvertimenti del comandante delle forze armate, il quale percepisce il morale basso dei soldati (ieri altro suicidio in una base vicino a Tiberiade: dall’inizio dell’anno sono 18 i militari che si sono tolti la vita). Come conseguenza, dai cassetti dei comandi delle Idf stanno uscendo sempre più spesso documenti confidenziali imbarazzanti.
Channel 12 ha svelato il contenuto di un report interno di valutazione dei risultati dell’operazione Carri di Gedeone, lanciata da Netanyahu dopo aver rotto la tregua a primavera. «Israele ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare nella Striscia» riprendendo il conflitto, che il report definisce
«fallimentare» e «contrario alla dottrina militare di Israele». Secondo la relazione, la distribuzione del cibo è stata pianificata ed eseguita in modo «molto scarso» e ciò «ha permesso a Hamas di condurre una campagna mediatica descrivendo Gaza come un luogo di fame».
(da Repubblica)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
“IL FOGLIO” RIPERCORRE LA GUERRA TRA IL DIRETTORE DEL TG1, IL “DURO”, E IL “MITE” AD, GIAMPAOLO ROSSI: “IL DURO NON SOPPORTA CHE IL SUO TG POSSA ESSERE SUPERATO DAL TG5. NON PUÒ TOLLERARE CHE NON GLI VENGA DATA L’ATTENZIONE CHE MERITA, AL SUO TG, LUI CHE È VICINO AL SOLE, LUI CHE È NEL CUORE DI MELONI. QUANDO IL MITE SPROFONDAVA, DICONO CHE MELONI INDICASSE LUI, CHIOCCI: ‘ECCO COME BISOGNEREBBE FARE. COME FA LUI’”
Questa non è una notizia. E’ solo una storia. La più banale. E’ la storia di una rivalità, quella fra Gian Marco Chiocci e Giampaolo Rossi, e di come finirà. Finirà con il trionfo del più forte, di chi ha il coraggio di andare “fino al fondo di se stesso”.
Vincerà Chiocci, il direttore del Tg1, probabile portavoce di Giorgia Meloni, possibile candidato con FdI alle prossime elezioni. Un giorno Chiocci avrà tutto. Gli basterà?
Raccontano, ma la fonte è bassissima, miserabile, che già l’estate scorsa Meloni lo avesse convocato e chiesto: “Vuoi fare tu l’ad Rai al posto di Rossi?”. Venne scelto Rossi, ma aveva vinto l’altro. Era passata l’idea che Chiocci fosse il duro e l’altro solo un debole.
Da allora il “debole” imparò a leggere sui quotidiani cosa pensava Meloni della Rai. Una mattina si alzò e scoprì che la premier avrebbe voluto “privatizzare la Rai”, informazione mai smentita (la Rai è ancora pubblica). Anche allora Rossi rimase zitto. Non si erano mai incontrati prima di quel giorno.
Sono passati più di due anni. Li presentò Meloni. E fu una faccenda spiccia. Meloni disse a Rossi, allora dg Rai, che voleva Chiocci, il direttore dell’Adnkronos, come direttore del Tg1, perché di “lui mi fido”, e Rossi le rispose che certo, si poteva fare, ma con un contratto a tempo determinato.
E’ stato il suo primo errore. Non aveva capito che la risposta giusta da dare, con Chiocci, con la destra di Chiocci, è la seguente: “In Rai non si può fare, ma una soluzione per te, caro Gian Marco, la troverò” perché a Chiocci queste cose non si fanno, perché, come ripete Chiocci, “se io ti posso fare male, prima o poi ti farò male. Io so come farlo”.
Lo sa. Chiocci conosce il gioco della penna e del poker. Conosce la forza virtuosa del bluff e della notizia. Rossi conosce le leggi della tv e tutti i libri di Jünger. Conosce l’educazione antica del “Padre nostro”, il segno della croce prima di spezzare il pane.
Uno, Chiocci, affitta una villa sull’Appia per festeggiare il suo compleanno, con Conte, Salvini, Piantedosi, l’altro, Rossi (che era il grande assente di quel compleanno) quando va a cena, se proprio deve andare a cena, sceglie il tavolo più nascosto.
Uno ha scoperto il fenomeno tv Stefano De Martino, che ha salvato la Rai, l’altro ha scoperto la casa di Montecarlo di Gianfranco Fini. Basta solo decidere: cosa è meglio, il sorriso o il dolore?
Chiocci vuole fare sapere a tutti che è “pronto a tutto” per difendersi, mentre all’altro, a Rossi, si può fare di tutto, tanto, si dice, “è solo un pensatore, ottimo per fare il ministro della Cultura”. Lo si può insultare. Non è debole. E’ solo mite. E ci ha fatto l’abitudine. E’ da almeno tre anni che Rossi prende sputi e calci perché Rossi, questo superbo esercizio, a volte necessario, sapere fare male, purtroppo, non lo ha mai imparato.
Da ad Rai non ha mai rilasciato una vera intervista ma ha autorizzato quella di Chiocci al Messaggero, quella dove il direttore del Tg1 si definiva “un marziano in Rai”, quella dove il duro faceva intendere che un’intera Rai sabotasse il suo Tg1. Anche allora, Rossi rimase zitto.
Non si detestavano, no. All’inizio, no. Era ancora presto. Non si detestano, no. Neppure oggi. Rossi direbbe, come dice adesso, che Meloni aveva da sempre pensato a Chiocci come suo portavoce (ed è vero) e Chiocci risponde che di fronte a una chiamata così importante è difficile resistere. Non si detestano, no. La storia è più sottile. Chiocci si insedia al Tg1 e inizia a pensare di Rossi che con quella testa, per carità, colta, non si fa un buon servizio alla causa, a Meloni, al governo; Rossi inizia a credere, ma non lo dice, che con i metodi di Chiocci, per carità, affascinanti, ruvidi, si possa governare, tutt’al più, un giornale, ma non la Rai.
Iniziarono a parlarsi attraverso mail. Chiocci chiede a Rossi perché il suo Tg1 non abbia un giusto traino, perché il grande sport, il tennis, sia trasmesso su Rai 2, e non su Rai 1, Rossi gli risponde, e tutti in copia, con Angelo Mellone, direttore del day time, che Rai 2 era da sempre la rete dello sport.
Vince Chiocci. Ma non basta. Il duro non sopporta che il suo tg possa essere superato dal Tg 5. Il duro non può tollerare […] che non gli venga data dalla Rai (di destra) l’attenzione che merita, al suo Tg, lui che è vicino al Sole, lui che è nel cuore di Meloni. Quando il mite sprofondava, per il caso Scurati, e venivano convocate riunioni d’urgenza (ospiti Mellone, Rossi, Nicola Rao, Chiocci) quando Meloni, come nella Cina di Mao, li rieducava, a turno, dicono che Meloni indicasse lui, Chiocci: “Ecco come bisognerebbe fare. Come fa lui”.
Come il duro. Iniziò a circolare in Rai che il mite, Rossi, neppure rispondesse al telefono, che il mite avesse consegnato pieni poteri a Monica Maggioni. Ma il mite doveva pensare a evacuare la Rai da Viale Mazzini. […] Le mail fra Chiocci e Rossi cominciarono a farsi sempre più aspre
In mezzo c’è il ritorno in Italia di Stefania Battistini, l’inviata del Tg1, autrice dello scoop in Russia, rientrata su consiglio della Farnesina ma anche di Maggioni. Chiocci chiede se sia vero che Maggioni abbia poteri di nomina sugli inviati da spedire all’estero. Il mite si difende con la complessità, con le regole di un’azienda da oltre 13 mila dipendenti.
Ma a Chiocci non si risponde in questo modo. Può fare male. Lui parla con Meloni, la premier con cui ha concordato tutte le sue ultime uscite, dopo la notizia del Foglio, il suo prossimo passaggio a Palazzo Chigi.
Nel 2024 Rossi commette un altro errore e lo ripete quest’anno. Non si premura di allontanare dalla fascia preserale estiva di Rai 1, Pino Insegno, anche perché Insegno è il dazio della destra. Il debole pensa che non sia un problema, che ci sta andare sotto il Tg5, può capitare, una volta, tanto poi si recupera, ma il duro pretende che quella fascia debba servire come vassoio del suo Tg, un tg strepitoso, pieno di notizie e scoop. E’ certo che queste siano le vere dimissioni di Chiocci, le più sofferte, come almeno altre tre. Quelle erano buone per i deboli.
(da il Foglio)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
IN CALABRIA CIRCOLANO VOCI DI UN PASSO INDIETRO DEL GOVERNATORE USCENTE ROBERTO OCCHIUTO, CHE HA FATTO LA MOSSA DEL CAVALLO DELLE ELEZIONI ANTICIPATE DOPO L’INCHIESTA PER CORRUZIONE IN CUI È INDAGATO … IL FORZISTA SMENTISCE, MA FDI HA GIÀ PRONTI DUE NOMI: I SOTTOSEGRETARI WANDA FERRO E LUIGI SBARRA… IN CAMPANIA È BUIO TOTALE: LO SFIDANTE DI ROBERTO FICO NON C’È. IL VICEMINISTRO MELIONIANO EDMONDO CIRIELLI HA DATO FORFAIT
Doveva chiudersi tutto a metà agosto, invece lo schema dei candidati di centrodestra
per le regionali è più aperto che mai.
Si fa prima a elencare le poche certezze: unica piazza in cui il candidato è stato deciso è la Toscana, dove correrà il sindaco di Pistoia di FdI Alessandro Tomasi è stato confermato, insieme alla riconferma nelle Marche dell’uscente Francesco Acquaroli, dato però molto in difficoltà davanti al concorrente dem Matteo Ricci, tanto da aver chiesto e ottenuto che la premier Giorgia Meloni arrivi per la chiusura della campagna elettorale.
La Calabria
Le ultime sirene dall’arme arrivano dalla Calabria, dove il candidato sembrava essere l’uscente forzista Roberto Occhiuto, che ha fatto la mossa del cavallo delle elezioni anticipate dopo l’inchiesta per corruzione in cui è indagato.
Proprio questa ulteriore regione al voto ha fatto inceppare i calcoli dentro il centrodestra, che si era dato lo schema di massima per cui Marche, Toscana e Campania andavano a un candidato di FdI, la Puglia a Forza Italia e il Veneto alla Lega. Con l’aggiunta del voto in Calabria, alcuni vertici di FdI si erano lamentati di uno sbilanciamento di candidati in favore degli
azzurri.
Da Reggio Calabria arrivano voci che potrebbero far saltare il banco. Fonti interne al centrodestra parlano insistentemente di un possibile e clamoroso passo indietro di Occhiuto e la notizia è rimbalzata anche sui giornali locali.
Parallelamente, si è registrata un’impennata di lavoro in procura negli ultimi giorni di agosto, nonostante la pausa estiva. Non solo: a incidere sulle preoccupazioni dello stato maggiore del centro destra sarebbero arrivati sondaggi che indicano una forte risalita del candidato di centrosinistra, Pasquale Tridico.
Al suo posto ci sarebbero già due nomi in pole e tutti di peso in quanto membri di sottogoverno: la sottosegretaria agli Interni, Wanda Ferro e il neo-sottosegretario al Sud, Luigi Sbarra. Dettaglio non trascurabile: entrambi di Fratelli d’Italia.
Al netto delle voci che pure si rincorrono, però, dal quartier generale di Occhiuto arriva una secca smentita: «Fake news», è l’unico commento, con l’assicurazione che il presidente è al lavoro per chiudere le liste, che andranno depositate il 5 settembre.
La Campania
Anche in Campania il candidato dato quasi per certo ormai è tramontato. Il viceministro Edmondo Cirielli di FdI avrebbe ormai dato forfait.
Dopo la chiusura dell’accordo a sinistra su Roberto Fico, infatti, la Campania è difficilmente contendibile, dunque meglio rinunciare anche per preservare il governo, in favore di un candidato civico che avrebbe forse più margine, è il ragionamento.
Potrebbe spuntarla il potente segretario regionale forzista, Fulvio Martusciello, il quale ha ribadito che «per i civici i nomi sono quelli del rettore della Federico II Matteo Lorito, del presidente dell’Unione industriali di Napoli Costanzo Jannotti Pecci e di Giusy Romano».
In realtà, il principale indiziato è quest’ultimo: il coordinatore della struttura Zes unica del Mezzogiorno è infatti uomo vicino anche al mondo di Vincenzo De Luca e che dunque potrebbe drenare voti dallo squadrone dell’ex governatore a sostegno di Fico. Inoltre a non guastare è il placet sul suo nome anche di Azione, che potrebbe decidere di schierarsi a destra.
Alla finestra rimane sempre il nome di Mara Carfagna, spuntato nell’ultima settimana con un mezzo sì della diretta interessata. Pronta a una corsa difficile, magari con l’assicurazione di una ricandidatura in parlamento. Contro di lei c’è Forza Italia, che mai le ha perdonato lo sdegnoso addio di qualche anno fa, ma potrebbe piacere a FdI.
Risultato: se la Calabria passasse davvero a FdI, la Campania potrebbe avere un candidato d’area Forza Italia. E lo stesso gioco di scambi potrebbe avvenire anche in Puglia, dove il candidato azzurro, Maurizio D’Attis, è stato nei fatti bruciato da un sondaggio che lo dà per perdente contro tutti i candidati di centrosinistra.
Per tacitare il tumultuoso partito pugliese, il coordinatore regionale di FdI Maurizio Gemmato ha detto di essere pronto a correre se Meloni glielo chiedesse. Difficile che succeda, ma intanto il gesto è fatto. Qualora FdI dovesse esprimere un candidato, il più quotato sarebbe il deputato Francesco Ventola, vicino al commissario europeo Fitto.
La paura di sbagliare candidato però è forte, come la paura del famoso 5 (6 considerando anche la Calabria) a 1 evocato da Elly Schlein. L’unica certezza è che giovedì è previsto un incontro tra i leader di centrodestra Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi.
Tireranno le somme dei sondaggi, faranno le ultime valutazioni, con l’obiettivo di chiudere. «Siamo alle battute finali», ha assicurato pubblicamente Martusciello. Doveva essere così anche a metà agosto, però.
(da agenzie)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
TUTTI PER UNO, UNO PER TUTTI?
Farli salire sullo stesso palco, Elly Schlein e Giuseppe Conte, è sempre stata un’impresa. Le rivalità politiche, la corsa futura alla leadership dell’intero centrosinistra, la gara a chi guida il partito più grande dell’area, ci sono molte ragioni alla base di questo fastidio reciproco (più del leader cinque stelle, per la verità) a farsi vedere insieme, a discutere davanti agli stessi militanti, nonostante i proclami “testardamente unitari”.
Nella settimana in corso i magnifici quattro del centrosinistra – Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni – si ritroveranno infatti insieme, fianco a fianco, quasi ogni giorno. Si comincia domani, 3 settembre, negli spazi del Monk di Roma, per la festa nazionale di Alleanza Verdi Sinistra, con un dibattito coordinato da Massimo Giannini e un titolo – “Terra comune” – tanto largo quanto aperto a qualsiasi strambata.
Sarà la prova generale per altre due puntate, entrambe in riva al lago di Como. La prima per l’Altra Cernobbio, il forum del pacifismo che tradizionalmente tenta di fare il controcanto al forum “ufficiale”. E la domenica gran finale all’Ambrosetti a villa d’Este, per provare a conquistare una platea (per loro) ostica come quella degli imprenditori e banchieri.
Tutti per uno, uno per tutti? Visti i precedenti, un pizzico di sana diffidenza è d’obbligo. Sgambetti e pizzicotti Conte e Schlein se li sono sempre dati, ma l’annus horribilis è stato il 2024. Che vide il leader 5s proclamare la morte del centrosinistra: “Il campo largo non esiste più”.
E la segretaria del Pd rispondere duramente agli attacchi dell’ex premier contro il Pd barese: “Capisco che chi ha iniziato a far politica direttamente da palazzo Chigi forse non ha tanta dimestichezza con la militanza di base”.
Adesso tutto sembra dimenticato. Miracoli delle regionali alle porte.
(da Repubblica)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
AVEVANO RIFIUTATO L’ASSURDO ORDINE DI SBARCARE A GENOVA A MILLE MIGLIA DI DISTANZA PROVOCANDO ULTERIORI SOFFERENZE AI NAUFRAGHI A BORDO E SI ERANO DIRETTI A TRAPANI… UN GIORNO QUALCUNO SARA’ CHIAMATO A RISPONDERE DI QUESTE ATROCITA’, LA RUOTA GIRA E NULLA RESTA IMPUNITO A LUNGO
Sessanta giorni di fermo e una multa da diecimila euro. Il Viminale ha usato la mano
durissima contro Mediterranea, la nave dell’omonima ong italiana, sbarcata a Trapani il 24 agosto,
disobbedendo all’ordine di raggiungere Genova. Nonostante sia alla prima missione, si è deciso di imporre la sanzione più dura prima della confisca, ipotesi che secondo indiscrezioni i tecnici del ministero avrebbero seriamente vagliato. Da quando il decreto Piantedosi è entrato in vigore, è uno dei fermi più lunghi imposti alle imbarcazioni della flotta civile.
L’appiglio per punire così duramente una nave nuova, alla sua prima missione nel Mediterraneo, è tecnico. Il comandante Pavel Botica – si sostiene – in passato guidava la Sea Eye4 e in quella veste ha già ricevuto un fermo, contestato dall’ong tedesca e su cui ancora pende ricorso. Per il ministero, che tramite la prefettura di Trapani ha notificato ieri il provvedimento, che la nave abbia cambiato nome e armatore non rileva, rimane la stessa.
Hanno fatto valere le modifiche al decreto Piantedosi inserite nell’ultimo decreto flussi che rendono ancora più semplice il fermo prolungato delle navi. Per provare la reiterazione adesso non è necessario che a commettere una violazione siano lo stesso comandante o la stessa nave, ma basta che a inciampare in un nuovo provvedimento siano la medesima imbarcazione, capitano o armatore.
Profili su cui i legali Lucia Gennari e Cristina Cecchini di Mediterranea stanno lavorando anche sulla base di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella recente sentenza con cui ha stabilito che sì, il fermo delle navi è legittimo, ma deve essere proporzionato.
“Ci viene contestata la ‘grave, premeditata e reiterata’ disobbedienza all’ordine del Viminale di raggiungere il lontano porto di Genova con naufraghi a bordo soccorsi a centinaia di miglia di distanza, traumatizzati e provati non solo dalla detenzione libica, ma anche dal tentato omicidio di cui sono stati vittime in mare. Secondo il governo Mediterranea è colpevole di aver invece agito per garantire al più presto possibile le necessarie cure mediche e psicologiche a terra per queste 10 persone”, tuonano dall’ong, che annuncia immediato ricorso.
Nel corso della sua prima missione, i team hanno soccorso dieci ragazzini, fra i 14 e i poco più di 20 anni, lanciati in acqua con violenza in piena notte fra onde alte un metro e mezzo. Una situazione di estremo pericolo – di notte è facile essere trascinati via dalle onde o nascosti – che solo grazie ai team, già in acqua, non si è trasformata nell’ennesima strage.
“Quello che non si tiene assolutamente in considerazione è la non lesività della condotta di nave ed equipaggio e che le persone portate a Trapani fossero vittime del reato”, spiega l’avvocata Cecchini. La motivazione del provvedimento, osserva, è quanto meno lacunosa. “Sostanzialmente si contesta solo di non aver seguito gli ordini”. E priva di logica: se la ratio della prassi dei porti lontani è non saturare gli approdi del Sud, in che modo dieci persone avrebbero potuto costituire un problema a Trapani?
Ma per il Viminale “dai report e dalle interlocuzioni avvenute tra gli enti competenti in relazione ai profili sanitari, non è emersa in alcun momento la sussistenza di condizioni di pericolo per la salute e la vita tali da imporre un’evacuazione d’urgenza delle persone a bordo”. Qualora ci fosse stata la necessità, aggiungono, si sarebbe predisposto un medevac, un trasporto sanitario urgente e neanche le condizioni meteo imponevano un cambiamento di destinazione.
Nessun riferimento però viene fatto né alla relazione tecnica del Cir, centro internazionale radiomedico, consultato su indicazione del centro di coordinamento e soccorso della Guardia costiera, che con una formale comunicazione aveva consigliato lo sbarco immediato, tanto meno la certificazione Rina che impone a Mediterranea di non superare le 200 miglia dal punto di soccorso.
“Mediterranea, il suo comandante, il suo capomissione, il suo equipaggio di mare e di terra, hanno agito secondo il diritto marittimo, nazionale ed internazionale, e secondo i principi di umanità e giustizia che dovrebbero caratterizzare ogni atto pubblico delle istituzioni, che al contrario usano invece i loro poteri per una continua ed odiosa propaganda elettorale permanente”, tuonano dall’ong italiana.
“Disobbedire ad un ordine illegittimo ed illegale è questione di dignità – sottolineano – la nostra azione, che oggi causa le catene e l’arresto di una nave che potrebbe soccorrere per sessanta giorni, ha prodotto ‘qui ed ora’ l’immediato sbarco in un porto sicuro di dieci naufraghi, il porto più vicino possibile non il più lontano immaginabile, e questo era quello che ci interessava”. E promettono: “A Piantedosi, alle sue catene, continueremo a rispondere “SignorNO!” perché non siamo sudditi”. Adesso la parola passa al tribunale.
(da agenzie)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
VOLEVA LIMITARE L’INFLUENZA DELLA CINA NEL MONDO, SEPRARE MOSCA DA PECHINO, CHE L’INDIA NON COMPRASSE PIU’ PETROLIO RUSSO A PREZZI SCONTATI: NESSUNO DEI SUOI DESIDERI SI E’ REALIZZATO
Non solo: gli è stato anche mostrato che il Paese da vent’anni baluardo delle strategie americane per contenere l’espandersi dell’egemonia cinese in Asia, cioè l’India, piuttosto di inchinarsi agli ordini di Washington si accomoda, tra sorrisi e strette di mano, nello show organizzato da Xi Jinping.
Non è che dall’incontro della Shanghai Cooperation Organization siano uscite grandi decisioni. Si è trattato in buona parte di incontri bilaterali tra leader che vedono gli Stati Uniti come il fumo negli occhi e, soprattutto, di una passerella di abbracci per dire esplicitamente a Trump e alla sua amministrazione che un bel pezzo di mondo si sta organizzando per mettere fine all’ordine internazionale imperniato sulla Pax Americana.
Parole di Xi in persona. Il punto forte della rappresentazione cinese è stata proprio la presenza nella recita, con ruolo d’onore, del primo ministro indiano Narendra Modi.
Non che Delhi non abbia qualcosa di cui rispondere a livello internazionale. Il fatto che, da quando Vladimir Putin ha aggredito l’Ucraina, acquisti greggio a mani basse e così aiuti di fatto a finanziare l’invasione è qualcosa che non può essere semplicemente spiegato come interesse nazionale, senza considerare le conseguenze diplomatiche che ciò avrebbe
comportato.
Ciò nonostante, nei confronti dell’India il presidente americano ha dimostrato di non essere nemmeno lontanamente quel mago del deal, degli accordi, che si vanta di essere. Chi sceglie di entrare in una disputa con qualcuno, deve sapere fin dall’inizio fin dove quel qualcuno può arrivare.
Trump ha invece prima imposto agli indiani dazi del 25% per ritorsione alle barriere che Delhi impone a sua volta sul commercio, citando esplicitamente i prodotti agricoli.
Il fatto è che se Modi smettesse di proteggere il settore agricolo, dal quale dipende la sussistenza del 60% degli indiani, sarebbe un politico senza più futuro. Alla stessa maniera, se obbedisse all’ordine di Washington di non comprare più petrolio russo, pena un altro 25% di dazi, Modi darebbe un segno di debolezza che per lui sarebbe devastante, in un Paese dove il nazionalismo è il tratto politico più popolare.
In altri termini, il primo ministro indiano non poteva accettare il diktat americano senza suicidarsi.
Stretto tra subire le conseguenze dei dazi al 50% e ribellarsi, ha scelto di andare a stringere la mano a quello che è considerato il primo avversario dall’establishment americano, Xi. Non andava in Cina da sette anni, lo ha fatto ora: qualcosa di più di un calcio negli stinchi a Trump.
Quello tra Delhi e Pechino è un riavvicinamento? Adesso India e Cina sono, come ha detto Xi, «partner e non avversarie»?
Di certo, l’incontro di Tianjin non è stato l’apertura di un percorso che potrebbe sfociare in un’alleanza. Innanzitutto, perché un cardine non discutibile della politica estera di Delhi è che si fanno amicizie, si stringono partnership su questioni specifiche ma di alleanze non se ne parla. Con nessuno.
L’India vuole essere una grande potenza, ritiene di essere sulla strada giusta perché il mondo lo riconosca: e una grande potenza non ha bisogno di alleanze finché non è lei a stabilirle. In secondo luogo, perché — oltre alle dispute sulla frontiera himalayana che di tanto in tanto diventano scontri violenti tra i militari dei due Paesi — Delhi e Pechino hanno interessi strutturalmente diversi in Asia e nel bacino Indo-Pacifico, dove nei prossimi anni si deciderà probabilmente chi avrà conquistato l’egemonia.
C’è anche un’altra motivazione alla base del viaggio di Modi in Cina, non secondaria. Delhi e Pechino sono in aperta competizione per la leadership del cosiddetto Sud globale, cioè dei Paesi emergenti che non si allineano agli Stati Uniti ma nemmeno del tutto a Pechino.
Il confronto avviene per lo più nell’ambito dei Brics.
Ma Modi è andato a Tianjin anche per evitare che, davanti alla ventina di leader delle nazioni del Sud presenti, lo show fosse solo di Xi Jinping. Trump vede tutto in tv.
(da Corriere della Sera)
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Settembre 2nd, 2025 Riccardo Fucile
EMILIANO SI METTE “A DISPOSIZIONE” DEL PARTITO. IN CORSA RESTERÀ INVECE NICHI VENDOLA, SUL CUI RITIRO I ROSSOVERDI DI AVS NON HANNO VOLUTO NEPPURE DISCUTERE
E sei. C’è voluto un po’, fra veti incrociati e beghe personali che peraltro hanno dato
filo da torcere in tutte le regioni, ma alla fine anche l’ultimo rebus — a sorpresa il più complicato — si avvia a soluzione. L’accordo in Puglia sarebbe pressoché raggiunto, manca solo l’ufficialità che salvo ulteriori colpi di scena arriverà venerdì, alla festa dell’Unità a Bisceglie, dove è previsto l’intervento della segretaria del Pd Elly Schlein.
Dopo tanto penare, sarà dunque Antonio Decaro a guidare la coalizione di centrosinistra nella regione governata per un decennio da Michele Emiliano. Il quale, in fondo a un lungo braccio di ferro, avrebbe deciso di mettersi «a disposizione del partito per senso di responsabilità». In corsa resterà invece Nichi Vendola, sul cui ritiro i rossoverdi non ha voluto neppure discutere.
Lo ha ribadito ieri Nicola Fratoianni al Tg3: «Noi abbiamo lavorato sin dall’inizio per l’unità delle opposizioni, ma al tempo stesso Avs non è comparsa, è protagonista di questa coalizione»
Nelle Marche, dove si voterà il 28 e 29 settembre, il meloniano Francesco Acquaroli cercherà il bis contro il dem Matteo Ricci, sostenuto da tutti i partiti di centrosinistra con la sola eccezione di Azione, che si è sfilata ovunque a causa del veto di Calenda sul M5S. I sondaggi registrano un testa a testa: se si dovesse verificare un ribaltone, per la maggioranza, e in particolare per Meloni, sarebbe una débâcle.
Stesso scenario in Calabria, dove l’uscente, il forzista Roberto Occhiuto, ha convocato le urne per il 5 e 6 ottobre con un anno d’anticipo nella speranza di spiazzare gli avversari.
Non aveva fatto i conti con la reazione del campo largo che si è subito coagulato intorno all’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico: una convergenza rapida e corale che segna il passo forse più importante nella costruzione dell’alleanza progressista.
(da agenzie)
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