LO ZAR E IL FILO ROSSO CHE RIPORTA ALL’URSS
DALLA GRANDEUR STALINIANA ALLE PARATE VINTAGE, LA SANTA RUSSIA VIVE UN ETERNO RITORNO
Che cosa vede Vladimir Putin da venticinque anni nella sua vita, nella sua vita di padrone-recluso del Cremlino? Cosa occupa la sua mente dentro quelle mura secolari, sotto le luci della gloria, all’ombra spessa del sangue e di ostinati faccia a faccia con la spietatezza, seduto su quelle poltrone a rimirare le stesse stanze degli zar e dei segretari generali del Pcus, ad attraversare corridoi a cui come per una magia soldati spalancano le porte, a presieder riunioni sulle “operazioni speciali” dove a capotavola un tempo furono Lenin geniale teorico del partito barricata, Kruscev il simpatico mugiko, Breznev l’ubriacone e Gorbaciov il goffo liquidatore?
Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, verrebbe da dire un secolo dopo l’altro. Vede e contempla perennemente se stesso come in un gioco di specchi che riflette all’infinito sempre la stessa immagine: quella dell’Unione Sovietica, la grande potenza proletaria, lo scudo e la lancia di una rivoluzione mondiale che non venne mai. C’è da diventare pazzi. Oppure strumenti primi e massimi di tale sistema e della sua possibile restaurazione.
La storia sovietica, il prima di quell’ottantanove del disastro in Russia in fondo non è mai stata negata o scavalcata se non da piccole e illuminate minoranze decise a imboccare i sentieri di un libero sviluppo, una grande zona di ombra che non si deve illuminare per le sue miserie e le sue piaghe ma solo percorrere avvertendone le immense dimensioni; che danno piaceri tanto più intensi quanto più l’ombra si fa intensa e rifugge la luce. La restaurazione putiniana di cui siamo spettatori da ottusi trionfalisti della guerra fredda – da venticinque anni! – è questo soddisfatto cammino di ciechi. Nella volontà di salvaguardare i
dogmi defunti del passato in realtà ci sono interessi concreti.
È bastata una felpa con quattro caratteri in cirillico “Cccp”, non esposta nei negozietti per turisti nostalgici ma indossata dal ministro degli Esteri Lavrov alla vigilia del vertice in Alaska. Contemporaneamente un’allusione minacciosa e una soddisfatta constatazione di un successo politico. Il personaggio non a caso incarna la continuità antropologica di quel passato non solo per la biografia ma soprattutto per lo “stile”, il consumato mestiere e l’astuzia nelle bufere della storia. E siamo già al ritorno dell’Urss, al bric-à-brac dei tempi in cui i bolscevichi volevano «preparare il terreno per la gentilezza» ma purtroppo a Mosca non si poteva esser gentili, e il popolo russo era solo legna per accendere il fuoco della rivoluzione mondiale.
Eppure non siamo alla restaurazione di una illusione prometeica (una delle tante fallite nei secoli) e di un inesorabile determinismo storico, anch’esso illusorio. Non avevamo fatto abbastanza attenzione al “vintage” delle bandiere rosse con falce e martello dei reggimenti che sfilavano nelle parate della vittoria. Alle disinvolte addizioni di una Storia totale che lascia spazio a non troppo sottili revisionismi staliniani: un continuum dalla Santa Russia ai bolscevichi a Putin.
Si scavalcavano gli anni della stagnazione sovietica e ci si ricollegava alla grandeur del Padre dei popoli e ai suoi efficaci svaghi liquidatori. In fondo la scenografia di Anchorage allestita in cooperazione con Trump che cosa è stato se non un meticoloso spettacolare revival degli anni della Guerra Fredda? Ecco di nuovo i contrasti e i disgeli, le manovre psicologiche
attinte dal forziere degli anni Cinquanta, ecco di nuovo le lotte per le sfere di influenza, il confronto tra capitalismo e comunismo che si svelava come complicata partita tra due arroganti e voraci imperialismi allora orfani di avversari.
Che impressione produce questa ripetizione di oggetti e gesti a cui non eravamo più abituati? Tra i russi intendo, non i testimoni dell’Urss ma tra le generazioni eltsiniane e putiniane. Credo un’eccitazione molto simile a quella che si provava a scuola quando il professore iniziava la lezione di geometria con le parole: “Prendiamo un punto nell’infinito…”.
Quel punto nell’infinito è una memoria storica (manipolata) senza la quale non si può nemmeno cominciare a capire la Russia di Putin come non si può capire la geometria. Quel punto è il concetto di potenza. Ma non nel senso in cui la interpretiamo noi accomodati stoltamente nella idolatria economica del Mercato risolvi-tutto, del surplus e della Borsa. È un concetto di potenza elementare, eterno nella sua semplicità, brutale, indiscutibile: nel caso cinquemila bombe atomiche, undici fusi orari di territorio, risorse naturali infinite, centocinquanta milioni di sudditi che si possono fisicamente spendere con centralismo e disciplina senza neppure un inarcare di ciglia. Non c’è più il Partito che spiega e camuffa, restano gli Onnipotenti Apparati. Ed esser potenza come destino manifesto, in sé e per sé. Si possono gettar nell’immondizia le ideologie ma non la geografia e la storia. Un’idea in fondo non zarista o comunista: un millenarismo bizantino, da terza Roma.
Quello di Putin non è uno riuscito ritorno all’Urss. Non se ne è
mai allontanato, biograficamente e politicamente. Perché avrebbe dovuto farlo? Era un modello perfetto di ideologia malleabile per il Capo e spietata per tutti gli altri. È lì che ha imparato il classico stile staliniano: semplicistico e minaccioso. È un costruttore di piramidi che non ha neppur bisogno di fingersi sacerdote di felicità promesse come l’utopista dispensatore di guai Kruscev. È un duro pragmatico che, soddisfatto, ha notato come il mondo che lo circonda comprenda e si conformi, dietro a chiacchiere ipocrite, alla sua matematica della potenza e della prepotenza. In questo senso Putin è semplicemente uno di noi.
Domenico Quirico
(da lastampa.it)
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