CHITARRE E ROSARI DA TUTTO IL PIANETA «NOI CI SIAMO»
RONCONE: “LE CHIESE NEL PIANETA SARANNO PURE MEZZE VUOTE, PERÒ È UN DATO CERTO CHE UN FORMIDABILE POPOLO DI RAGAZZI HA CAMMINATO SIN QUI PER ASCOLTARE LE PAROLE DI LEONE XIV E POI TROVARE UNA TRACCIA DI CRISTO. SENZA DEVIAZIONI BIGOTTE, TRAVOLTI SOLO DALLA CONTAGIOSA VOGLIA DI ESSERCI”
Il Santo Padre affronta, con una certa agilità, la scalinata del gigantesco altare. E da lassù ora ci osserva, per lunghi minuti, in silenzio, con un sorriso. Quel sorriso
Adesso, però, aspettate.
Perché l’attesa è stata piena di immagini e sensazioni che vanno raccontate. Sono appunti mentali presi tra i giovani arrivati da tutto il mondo.
I pellegrini della gioventù sono distratti dalla loro personale mistica allegria, dall’euforia di una fede senza sovrastrutture, senza deviazioni bigotte, travolti solo dalla contagiosa voglia di esserci ed è questa, in fondo, tra le tende e i sacchi a pelo, le borracce e i rosari, alla vigilia della lunga veglia di preghiera.
L’impressione più forte e clamorosa: le chiese nel pianeta saranno pure mezze vuote, però è un fatto, è un dato certo che un formidabile popolo di ragazzi, giunto da 146 Paesi diversi, ha camminato sin qui per ascoltare le parole di Leone XIV e poi trovare, in qualche modo, una traccia di Cristo.
In questo tempo di guerra. In questo tempo di TikTok.
Non è il momento di fare paragoni con quanto, proprio qui, accadde venticinque anni fa. È impietoso ripercorrere quei giorni adesso. Eravamo agli inizi di un nuovo millennio e i nostri animi erano attraversati da pensieri pieni di ottimismo, le Torri Gemelle erano ancora nel panorama felice di New York, l’Europa unita sembrava una possibilità di concreto e diffuso benessere: i Papaboys arrivarono cantando Jesus Christ you are my life e Giovanni Paolo II li accolse divertito, scherzando sul chiasso provocato, per poi distribuire parole di speranza, che davvero, come sappiamo, alimentarono la speranza (contribuendo, anche, alla costruzione del personaggio Wojtyla). Papa Prevost, l’altro giorno, nell’estemporaneo incontro avvenuto in piazza San Pietro, ha invece subito ribaltato il concetto, dicendo: «Siete voi la speranza».
Non è ovviamente semplice individuarla, decifrarla. Però ci sono delegazioni arrivate dall’Ucraina e da Gaza, dalla Siria e dal Myanmar. Si cammina tra i bivacchi, in circolo cantano accompagnati dalle chitarre. Sotto una tenda dormono tre ragazzi arrivati dall’Amazzonia. «Scherzi?», si scandalizzano Alejandro e Paloma, una coppia proveniente da Madrid, dalla parrocchia di San Jerónimo el Real. «Nessuno di noi oserebbe svegliarli… Erano stremati dalla fatica del viaggio». Santiago aggiunge che
suo fratello maggiore, Pedro, partecipò — dodici anni fa — alla veglia dei giovani sulla spiaggia di Copacabana, alla fine del Gmg di Rio de Janeiro. «Era il primo viaggio di papa Francesco
Oh, quanto ci manca…». Se manca, non sembra. Poco evocato. Poche tracce. Sebbene la sua tomba, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, sia meta di continui pellegrinaggi, qui il Papa degli ultimi sembra lontano, già distante nella memoria.
L’organizzazione sembra funzionare davvero bene. Parliamo di numeri importanti: siamo dentro un’area grande 96 ettari, con tre varchi di accesso, con 5 milioni di bottigliette che, da ore, vengono distribuite dai 3 mila volontari della Protezione civile. Gli steward sono 4.300, 500 gli addetti della Santa Sede, 6 mila gli uomini delle forze dell’ordine, che vigilano anche grazie all’aiuto di una sala operativa di 500 metri quadrati e 122 telecamere di videosorveglianza. Poco fa è comparso il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Accolto, come ormai accade di frequente, da applausi e richieste di selfie (è molto popolare sui social). E dice una cosa vera: «Questi ragazzi sono il popolo della pace, della solidarietà e della fraternità».
Guardate: in situazioni come questa, il rischio di scivolare nella pozzanghera della retorica è molto alto. Però, sul serio, stando insieme a questi giovani si subisce una straordinaria trasfusione di valori rari, di emozioni preziose. È qualcosa di inatteso. Ed è un segnale che non tutto — forse — per la loro generazione è andato perduto nelle ottuse autostrade del web, della rete percorsa con lo sguardo inchiodato sui cellulari. Perché questi ragazzi (aiutati anche dai missionari digitali) hanno deciso di partecipare fisicamente. Di esserci. Come se la loro spiritualità
avesse bisogno di concretezza, di simboli, della confessione — tutti già confessati in massa, poche ore fa, al Circo Massimo — e di ascoltare, dal vivo, il Papa.
L’attesa è elettrica perché appare chiaro a tutti che le parole di un Papa rivolte ai giovani sono destinate a segnarne il pontificato. Non solo: a questa folla — che sembra avere un livello di istruzione medio alto, tra loro ci sono numerosi universitari — non sfugge che si tratta del primo pontefice nordamericano. Né che abbia scelto un nome all’apparenza obsoleto, sperduto nel tempo, in realtà significativo: Leone, il nome del primo Papa a riconciliare, con la Rerum Novarum, la cristianità con la modernità. Un nome, quindi, che da una parte a questa gioventù militante promette una certa persistenza progressista, dall’altra lo inquadra in una prospettiva più ampia, di fatto lo incardina nella storia della Chiesa.
Fabrizio Roncone
per il “Corriere della Sera”
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