I CENTRI ITALIANI PER I MIGRANTI DI SHENGJIN E GJADER UN RISULTATO L’HANNO OTTENUTO: FAR PERDERE IL LAVORO A MOLTO ALBANESI
OLTRE 50 LAVORATORI NEL PORTO ALBANESE SONO RIMASTI SENZA OCCUPAZIONE, LE DUE CITTADINE PAGANO UN PREZZO ALTISSIMO PER L’ACCORDO TRA I DUE GOVERNI
Almeno 50 lavoratori del porto di Shëngjin avrebbero perso il lavoro in un anno. È questo il prezzo altissimo pagato dai cittadini albanesi per l’attuazione del protocollo sui migranti siglato tra Roma e Tirana: un’informazione imbarazzante e per questo taciuta ma che tre diverse fonti hanno confermato ad Altreconomia.
“I motivi sono banali -racconta una di queste- l’apertura della struttura italiana ha ridotto di molto lo spazio disponibile e l’arrivo delle navi militari italiane in un simile porto complica di molto la logistica”. Tutti lo sanno, nessuno però ne vuole
parlare: a metà luglio 2025 l’ingresso al porto è vietato, i lavoratori sono sfuggenti e il direttore dello scalo albanese irraggiungibile. Il dato numerico resta così solo una stima che, però, basta a fotografare l’impatto sul tessuto sociale locale di centri italiani.
Nella cittadina costiera albanese, affollata di turisti, la società Rafaelo resort hotel Spa sembra essere l’unica ad averci guadagnato davvero. Per l’ospitalità degli operatori di polizia italiani ha ricevuto in totale, dal giugno 2024 a oggi, 8,9 milioni di euro dal Viminale.
Un importo che potrebbe ancora crescere: a metà luglio 2025, infatti, la Direzione centrale immigrazione e polizia delle frontiere ha pubblicato un nuovo bando richiedendo alle due partecipanti (oltre alla Rafaelo è in corsa anche la Xenia Spa, colosso del settore ricettivo con sede legale a Chiasso, in Svizzera) un preventivo biennale per l’accoglienza di 300 unità, che possono aumentare fino a 400 nei “periodi di avvicendamento del personale”. Numeri impressionanti se si pensa che al 27 luglio erano trattenute 29 persone nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) albanese. Non solo. “Sinceramente tutte queste divise non so quanto facciano bene al turismo, le auto che fanno avanti e indietro verso il centro si notano”, racconta un residente.
Sono circa 20 i chilometri che separano Shëngjin da Gjadër, dove sorge la seconda struttura prevista dal protocollo Italia-Albania: la più imponente, con una capienza di quasi 1.100 posti (sulla carta) tra quelli riservati alle persone straniere trattenute e quelli di servizio per il personale dell’ente gestore Medihospes e
degli operatori di polizia. Muovendosi verso il centro, quando dalla strada principale che collega la capitale Tirana a Scutari si svolta a destra per immettersi sulla secondaria che porta alla cittadina albanese, si incontra già un po’ di Italia. Dall’ottobre 2009 nel Comune di Gocaj, infatti, è attivo uno stabilimento della Colacem Spa, una delle principali società italiane attive nella produzione di cemento. Superando il sito produttivo, dopo poco meno di dieci chilometri, dietro una curva a sinistra spicca l’ingresso della struttura su cui sventolano la bandiera italiana e quella dell’Unione europea.
Il cancello, grigio e imponente, segna una linea di confine: i poliziotti albanesi bivaccano nel gabbiotto appena fuori. Si muovono, di fatto, solo se attivati dai “colleghi” italiani che al nostro arrivo non tardano a chiamarli per le foto che cominciamo a scattare dall’esterno della struttura. “Fermateli”, grida un poliziotto italiano. Quello albanese, però, una volta avvicinatosi, spiega infastidito che fuori dal centro la competenza è loro e i “colleghi” non hanno alcun motivo di intromettersi. “Ho visto che eravate sufficientemente lontani a fare le vostre riprese”, sottolinea.
Tutto è molto labile, confuso, a tratti paradossale. Così mentre Arben, uomo sulla quarantina che abita nei pressi del centro, racconta quello che sa sulla struttura, due macchine della polizia penitenziaria italiana sfrecciano dietro di lui. “Dicono che dentro ci sono ‘criminali’, persone che hanno commesso gravi reati -spiega dubbioso mentre scarica la spesa dal baule della macchina-. Sinceramente so davvero poco. Anche perché dentro non si vede nulla”.
In un piccolo paese di circa 800 abitanti l’ignoto spesso lascia spazio a voci e informazioni non verificate. A Gjadër ne girano tantissime.“Abbiamo sentito voci secondo cui i detenuti provenienti dal Regno Unito saranno trasferiti nella struttura carceraria per evitare che i centri rimangano vuoti. Ci sono trenta stanze lì. Abbiamo sentito che Meloni ha raggiunto un accordo con i leader britannici”, racconta una fonte interna ai Cpr che ha chiesto di rimanere anonima. Un’altra, invece, ci assicura che un cittadino albanese è attualmente presente nel Cpr. Non è così, dai dati ufficiali, ma la linea che separa la propaganda e la realtà nella cittadina albanese ormai non esiste più. E per gli abitanti non è affatto una novità la condizione in cui si ritrovano a vivere.
Dopo essere stata in passato una delle zone più floride per la coltivazione di granoturco e girasoli oltre che per il pascolo di mucche da latte, tutto cambia nel 1974. In pieno comunismo, il presidente Enver Hoxha decide di costruire a Gjadër una delle più grandi basi militari dei Balcani. Sotto la collina adiacente ai centri per migranti fu costruita una lunga pista d’atterraggio segreta e, a poche centinaia di metri di distanza, una pista “sorella” per permettere il decollo all’aperto dei velivoli. Quell’area, poi, venne utilizzata anche dalla Cia durante gli anni Novanta per poi essere dismessa. Oggi è presidiata dai militari perché non è ancora stata bonificata e sembrerebbe che diversi materiali d’armamento siano ancora presenti tanto nella galleria quanto all’esterno. Informazioni, però, da prendere con le pinze perché anche su quanto successo nel passato spesso le testimonianze dei residenti restano contraddittorie.
“Viviamo di nuovo immersi nell’incognita -spiega uno di loro,
nato nel paese e poi trasferitosi all’estero-. L’abbiamo sperimentato durante il comunismo e oggi di nuovo ma credo ci sia una grossa differenza rispetto al passato”. Per l’uomo, infatti, la presenza di militari negli anni Novanta era più silente. “Oggi non è così. Anche solo perché mentre percorri la strada che arriva al centro di Gjadër ti ritrovi all’improvviso davanti all’ingresso delle strutture con sbarre, polizia e la bandiera italiana. È tutto così anomalo e triste”.
La maggior parte dei residenti incontrati non hanno un’opinione chiara sul protocollo o comunque sono restii a condividerla. Quel che si sa, invece, è che in termini di posti di lavoro anche nella cittadina interna, così come a Shëngjin, la struttura non ha modificato le sorti degli abitanti. Sarebbero tre le persone che hanno trovato un lavoro all’interno, con un compenso mensile non superiore ai 500 euro e comunque più basso rispetto ai colleghi italiani che svolgono la stessa mansione. In totale, si stima che l’ente gestore abbia assunto circa il 20% di personale di origine albanese, molti dei quali provenienti da fuori Gjadër.
“Stanno cercando nuovi operatori legali da inserire nella struttura -racconta una fonte interna ai centri la mattina del 23 luglio-. Stanno offrendo contratti a partire dal primo agosto perché dicono che il tribunale europeo darà ragione al governo italiano”. Così non è stato.
La mattina del primo agosto, infatti, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la definizione di “Paese di origine sicuro” non può essere applicata qualora uno Stato non garantisca a tutta la popolazione una protezione sufficiente. Un tassello fondamentale per l’impalcatura dell’iniziale progetto di
funzionamenti dei centri in Albania. “Sorprende la decisione della Corte”, ha fatto sapere il governo. L’aria che tirava a Gjadër e forse anche a Palazzo Chigi era diversa. Probabilmente, quindi, nessun lavoratore in più verrà assunto. Quelli già contrattualizzati che continuano a vivere in un “clima di terrore”, invece, nei giorni scorsi hanno rinnovato l’accordo per altri tre mesi.
(da AltraEconomia)
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