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ABOLIZIONE DELLE PROVINCE, IL PD SALVA PDL E LEGA: COSA VUOL DIRE PREDICARE BENE E RAZZOLARE MALE

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

VELTRONI ATTACCA BERSANI: “LA GENTE VUOLE ABBATTERE I COSTI DELLA POLITICA E NOI SALVIAMO IL GOVERNO?”..IDV E TERZO POLO SCHIERATI INSIEME PER ELIMINARE LE PROVINCE…FLI VUOLE LANCIARE UNA PROPOSTA DI INIZIATIVA POPOLARE PER ABOLIRLE

E infine le Province non si toccano.
Ci ha provato Di Pietro ad abolirle con una norma costituzionale che si è affacciata ieri nell’aula della Camera ma che subito uno schieramento ampio di parlamentari – 225 no di Pdl e Lega e 240 astensioni di tutto il Pd e di 43 dissidenti del Pdl, tra cui Lupi e Paniz – ha archiviato.
Eppure gli 83 favorevoli (oltre all’Idv, il Terzo Polo di Casini, Fini e Rutelli), avevano un formidabile argomento al loro arco: battere un colpo contro la casta e gli sprechi politico-istituzionali.
È proprio su questo che Di Pietro si scatena e parla di “traditori”: «Oggi si è verificato il tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali da sinistra e da destra. Tutti hanno fatto a gara nel fare sognare in campagna elettorale gli italiani sul fatto che si sarebbe tagliata la casta eliminando le Province e poi non hanno mantenuto gli impegni».
Ha buon gioco il leader Idv ad accusare: «In aula si è verificata una maggioranza trasversale, la maggioranza della casta».
Usa parole pesanti contro il Pd: «È stato patetico che anche nella coalizione di centrosinistra si sia chiesto un rinvio dopo che da 51 anni si rinvia. La verità  è che c’è una enorme differenza tra le chiacchiere elettorali e i fatti».
Del resto, è sul nodo politico – al di là  delle ragioni di merito – che si spaccano i Democratici.
Dura quattro ore l’assemblea del gruppo Pd per decidere cosa fare. I Democratici hanno un’altra proposta che Gianclaudio Bressa, capogruppo in commissione Affari costituzionali, chiede di fare valere, senza seguire la demagogia dipietrista.
Dario Franceschini, il capogruppo, condivide rischiando di restare in minoranza.
Però il messaggio politico è devastante: a farlo notare è Walter Veltroni. «Non si può in un momento come questo così drammatico per il paese dal punto di vista sociale, in cui i privilegi in primo luogo dei politici, sono insopportabili, non dare un segnale concreto di abbattere i costi della politica, non stare dalla parte del vento che cambia, non essere innovativi», si sfoga l’ex segretario Pd. Poi, aggiunge, di votare con la maggioranza – ovvero un “no” con Pdl e Lega – non se ne parla, è improponibile.
I toni si alzano. «Io non lo farò per nessuna ragione», s’inalbera Sandra Zampa.
Lo schieramento democratico che voterebbe con Di Pietro è ampio: va dal vice capogruppo Michele Ventura a Pier Luigi Castagnetti passando per Ugo Sposetti fino a Paola Concia («Bisognava lavorare con Di Pietro»), Pier Paolo Beretta («Non si può parlare alla pancia sui costi della politica e poi diventare razionali sulle Province») e Beppe Fioroni.
Walter Verini, veltroniano, sostiene che «si è sottovalutato il danno».
Pure Rosy Bindi preferirebbe nettezza, poi comunque apprezza l’astensione sofferta. Enrico Letta loda Veltroni: «Bravo, bel discorso».
Bersani il segretario Pd, a cose fatte, cerca di riprendere il filo concreto delle cose: «Vanno ridotte ma va detto come si fa». Perchè la decostituzionalizzazione di Di Pietro creerebbe il caos.
Stesso sentire di Franceschini che nell’astensione vede il modo di non spaccare il partito.
Che spaccato però è.
Casini e i centristi rincarano: «Avevamo un’occasione d’oro per tagliare le Province. Invece è stata sprecata per colpa della maggioranza e anche del Pd».
A rilanciare sono i finiani con una legge di iniziativa popolare.
Italo Bocchino il vice presidente di Fli, lancia l’appello online (www. aboliamole. it) sul sito del partito.
La Lega annaspa e Reguzzoni, il capogruppo lumbà rd, sposta la mira: «Aboliamo i prefetti».

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LA STORIA SEGRETA DEL COMMA 23 SALVA FININVEST, IL RUOLO DEGLI AVVOCATI DEL PREMIER TRA SOSPETTI E VELENI

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

IL COLLOQUIO   E IL DURO SCONTRO TRA BERLUSCONI E TREMONTI….LA SCONFITTA AD PERSONAM DEL PREMIER….TREMONTI E LA LEGA SAPEVANO, LETTA TENUTO ALL’OSCURO FINO ALL’ULTIMO

La verità  sulla norma «salva Fininvest» non esiste, è un intrigo che si basa su alcuni indizi e moltissimi sospetti, rivela la durezza dello scontro tra il premier e il ministro dell’Economia.
La storia segreta del «comma 23» è l’ennesima sconfitta «ad personam» di Berlusconi, offre la plastica rappresentazione di come i nodi politici, giudiziari e ora anche finanziari si sono intrecciati, trasformandosi in un cappio che rischia di asfissiare il Cavaliere.
E non c’è dubbio che sia stato lui a mettere il collo in questa corda, è lui infatti che alla vigilia della sentenza sul Lodo Mondadori ha chiesto uno scudo giuridico da inserire nella manovra per evitare di pagare subito il conto a De Benedetti, nel caso fosse condannato in appello dal Tribunale di Milano.
È Berlusconi al centro della vicenda, ma in pochi nel governo possono realmente dire di non averne mai saputo nulla.
Molti hanno solo girato la testa.
In principio è l’avvocato Ghedini a spingere perchè il premier ottenga dal ministero della Giustizia, dunque da Alfano, un rimedio tecnico al problema.
Da un anno se ne discuteva nelle riunioni riservate a Palazzo Grazioli, per un anno la questione era stata accantonata. A tempo scaduto si cerca una soluzione d’emergenza, e sebbene il Guardasigilli si mostri titubante, viene individuato un «gancio legislativo» nella modifica di alcuni articoli del codice civile, con cui si mira a velocizzare i processi.
Non è vero però che la norma «salva Fininvest» viene inserita all’ultimo momento, «non è stata certo aggiunta di soppiatto», racconta un ministro: sta infatti nelle pieghe di questo capitolo della manovra, nell’articolo 37.
E c’è un indizio che lo dimostra: il tema viene discusso alla riunione di martedì 28 giugno del pre-Consiglio, e già  in quella sede i tecnici ravvisano problemi di costituzionalità .
Già  in quelle ore scatta l’allarme al Colle. Nel corso dei rituali contatti tra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e dei ministeri con il Quirinale, la presidenza della Repubblica anticipa la propria contrarietà  a una simile norma: è un altolà  preventivo, il preavviso di un possibile scontro.
E si capisce come mai il Guardasigilli ieri spiegava che non c’era nè ci poteva essere «alcun sotterfugio»: d’altronde non era pensabile che un provvedimento di tale portata sfuggisse allo staff di Napolitano.
Se così stanno le cose, non si comprende perchè il premier decida di insistere, e con quali garanzie.
Regna ancora l’incertezza quando giovedì 30 giugno si arriva al Consiglio dei ministri convocato per la manovra.
La riunione viene a un certo punto sospesa in modo da trovare un compromesso sulla norma per i tagli ai costi della politica.
Trovata l’intesa, però, il Consiglio non riprende subito, perchè nel salone di palazzo Chigi mancano all’appello Berlusconi e Tremonti.
Ricorda un ministro come «in quel momento tutti abbiamo avuto la netta percezione che qualcosa non andasse».
Dopo mezz’ora i due rientrano nel salone di Palazzo Chigi.
È a quel colloquio che viene fatta risalire l’intesa sulla norma «salva Fininvest». Un indizio, a cui si aggiunge un interrogativo che porta a verità  contrastanti: il titolare dell’Economia ha solo accettato quell’articolato o – come sostengono i fedelissimi del Cavaliere – è stato lui a riscrivere il testo, inserendo quel tetto di venti milioni che l’ha resa una evidente norma «ad aziendam».
Una cosa è certa, Tremonti sapeva.
Il resto sono accuse che Berlusconi gli rivolge contro, intingendo l’ira nel sospetto. «Chiedetevi chi ci guadagna da questo disastro», urlava ieri sera, puntando l’indice contro il padre di una manovra che «ci ha fatto perdere il gradimento del 65% del nostro elettorato»:
«Se pensa di arrivare così a Palazzo Chigi può scordarselo».
Il premier – a proposito del provvedimento – sostiene di aver chiesto al superministro di «avvisare la Lega sui dettagli», come a dire che sulle linee generali i rappresentanti del Carroccio erano a conoscenza dell’operazione.
Ecco come si giunge alla stesura definitiva della manovra, ed è in questo passaggio che compare sulla scena Gianni Letta, fino ad ora rimasto formalmente ai margini della trattativa sulla «norma salva Fininvest».
Ma è possibile che il braccio destro di Berlusconi, l’uomo che conosce tutti i risvolti del Lodo Mondadori, non sapesse della mossa disperata del Cavaliere?
Anche se così fosse, è stato l’ultimo a leggere il testo della manovra prima di inviarla al Colle.
E se è vero che ieri il sottosegretario alla Presidenza rimarcava come la vicenda fosse stata gestita «malissimo», dato che «non si presenta una simile norma senza averla concordata con il Quirinale», come mai non ha bloccato anzitempo il premier?
A Letta è toccato gestire l’ultima trattativa con Napolitano, quando ormai si trattava solo di recuperare i cocci.
A Letta è toccato informare Berlusconi che per il capo dello Stato non c’era altra soluzione che ritirare la norma.
A Letta è toccato sentire lo sfogo del Cavaliere, che si sente vittima del «banditismo politico-giudiziario» dei magistrati milanesi, che sente approssimarsi una «sentenza di condanna già  scritta», e che – in un moto di sfida – ha commentato: «E se ora io non firmassi la manovra?».
La storia segreta del «comma 23» è l’ennesima sconfitta «ad personam» del premier, una sconfitta che ha molti padri ma alla fine un solo colpevole: Berlusconi.

Francesco Verderami
(da “Il Corriere della Sera“)

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IL CAVALIERE IN TRINCEA: “IO SOLO CONTRO IL COLLE”

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

DUBBI PDL SUL PREMIER….IL TESORO E LA SPONDA A NAPOLITANO….I RILIEVI SCRITTI DEL CAPO DELLO STATO AL PREMIER

A dare retta ai fedelissimi, l’uomo stavolta è davvero provato, tentato dal mollare tutto e dimettersi.
“Mi hanno lasciato da solo”, ripete demoralizzato. Da solo «a combattere contro il Quirinale». E da solo a rintuzzare il niet di Umberto Bossi.
Una manovra a tenaglia, quella del Colle e del Carroccio, che alla fine l’ha costretto ad alzare bandiera bianca sulla contestatissima norma salva-Fininvest.
«E adesso, se mi condannano, sarò costretto a vendere le mie aziende. Ma se la Cassazione ribalterà  il verdetto, chi mi assicura che De Benedetti mi restituirà  i miei soldi?».
Stavolta intorno al leader si è fatto il vuoto, come dimostra lo scaricabarile dentro il governo.
Nessuno si è assunto la responsabilità  politica di quanto è accaduto, nessuno ha rivendicato la paternità  della legge pro-Mondadori.
Non l’ha fatto Angelino Alfano, dai cui uffici, a detta di molti, sarebbe uscito il codicillo incriminato.
Non l’ha fatto l’autore della manovra, Giulio Tremonti, che anzi è parso a dir poco imbarazzato ieri pomeriggio per quanto accaduto.
Fino a offrire una sponda al Colle per cancellare l’articolo contestato dal «suo» decreto.
In verità  nessuno nel governo, con l’eccezione di Sacconi, ha preso a caldo le difese del Cavaliere, nemmeno quelli del suo stesso partito.
Persino Niccolò Ghedini ha fatto sapere in giro di non saperne nulla. Un gioco degli specchi che ha coperto la prima, vera, battaglia del dopo-Berlusconi, con ciascuno dei pretendenti alla successione in gara per incastrare il rivale.
Da titolo di merito, la difesa dell’ennesima norma ad personam stavolta è diventata motivo di vergogna. E ciascuno dei “sospettati” ha fatto in modo che la responsabilità  del blitz venisse attribuita ad altri.
Di fronte al caos della maggioranza e alla mancanza di guida politica del premier, a far da supplente è arrivato ancora una volta il Quirinale.
Ormai è direttamente a Napolitano che si rivolgono i singoli ministri, nell’assenza di una cabina di regia a palazzo Chigi.
«Il presidente della Repubblica – osserva un ministro di primo piano del Pdl – di fatto ha assunto il ruolo politico che in Francia ha l’Eliseo». Un ruolo che relega in secondo piano il premier e mette in evidenza la cura con cui il Colle segue passo passo ogni provvedimento del governo, in primis la manovra finanziaria, per evitare possibili errori.
Oltre al caso della norma salva-Fininvest, nel passaggio al Quirinale è saltata la leggina sugli imputati «irreperibili».
Il ministero della Giustizia aveva infatti inserito nella manovra una riscrittura dell’articolo 420 bis del codice di procedura penale, con la sospensione del processo per gli imputati irreperibili, in presenza di determinate condizioni, ma Napolitano l’ha fatta cancellare.
Una rigidità  dettata dal fondato timore che la maggioranza, in sede di conversione del decreto alle Camere, ne volesse approfittare per inserire una “poison pill”, un emendamento «eversivo», al solo scopo di scardinare qualche processo del Cavaliere. Insomma Berlusconi, al volgere della legislatura, è sorvegliato a vista dal capo dello Stato.
Che si tiene lontano dalle scelte di merito, ma non esita a far sentire forte la sua voce quando sono in gioco profili giuridici e costituzionali.
Nella trattativa sul “salva-Fininvest” tutte le obiezioni della presidenza della Repubblica sono state comunicate verbalmente a palazzo Chigi, attraverso il consueto canale di Gianni Letta.
Con l’avvertenza che, se il governo non avesse proceduto immediatamente a cambiare la norma, dai suggerimenti “orali” si sarebbe passati a un avviso scritto.
Una lettera firmata dal presidente della Repubblica, impossibile da aggirare.
Ma non ce n’è stato bisogno. Per lettera sono stati invece comunicati altri rilievi minori, più tecnici, e al Quirinale nutrono la ragionevole convinzione che tutti i dubbi sollevati troveranno risposta positiva. In modo da consentire già  oggi a Napolitano di controfirmare il decreto, autorizzandone la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la trasmissione alle Camere.
Non ci sarà  bisogno di un nuovo Consiglio dei ministri, anche perchè la manovra giovedì è stata approvata «salvo intese», la formula che sta a indicare la trattativa con il Colle.
Francesco Bei   .

(da “La Repubblica“)

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TAV: LA TRATTA CHE HA SENSO PER PARIGI (E COSTA MENO)

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

LA FRANCIA AVRà€ PIÙ OPERE REALIZZATE, L’ITALIA SPENDERà€ DI PIÙ. PER QUESTO NON PROTESTA NESSUNO

In Francia la Lione-Torino procede liscia come l’olio, niente contestazioni nè ribellioni popolari. Nel 2001 il governo italiano chiese quasi in ginocchio ai cugini francesi di presentare il progetto all’Ue: solo una linea transfrontaliera poteva aver accesso ai finanziamenti.
Ma la Francia non era molto interessata al Corridoio 5 avendo già  altre efficienti ramificazioni verso Est, e accettò le avances del ministro Castelli a condizione di spalmare più costi sull’Italia. “Il Tgv fu ben visto fin dal principio – spiega Eric Jozsef, corrispondente in Italia di Liberation -. Erano anni di grande fiducia nelle tecnologie, nel web. L’idea della velocità  piaceva a tutti: destra e sinistra. I Verdi spiegarono che passare dalla gomma alla rotaia era salutare. Così i lavori sono partiti, funziona tutto bene anche se in qualche caso i Tgv tra città  minori sono stati ridotti: i treni normali vanno già  veloci. Comunque queste contestazioni italiane da noi proprio non si capiscono. La gente dice: ma perchè tutto questo baccano per un tunnel nella montagna?”.
Gli amministratori francesi sanno perchè.
Sanno che l’Ue concederà  i fondi in parti uguali, ma il costo della galleria principale sarà  caricato per il 63% sull’Italia, mentre la distribuzione geografica dei costi per i lavori sull’intera Lione-Torino si concentrerà  per il 63% sulla parte francese: noi spendiamo di più, loro avranno più opere realizzate.
Oltretutto la popolazione interessata in Francia è meno di un quarto di quella residente nella stretta Val di Susa, e i contratti dei due Paesi sono sfalsati sin dall’origine: l’Italia deve ultimare l’accesso al tunnel principale entro il 2023, la Francia solo nel 2035.
Per questo Parigi finora ha messo mano soprattutto al tragitto di suo reale interesse, i 109 chilometri tra Lione e Chambèry.
Da lì il Tgv dovrebbe arrivare a Saint Jean de Maurienne, 74 chilometri piuttosto semplici, per poi tuffarsi dentro il tunnel che sbuca a Chiusa San Michele.
Insomma l’opera, vista da lì, ha senso e costa il giusto, anche se non mancano comitati no Tav che, insieme a quelli italiani e baschi, hanno dichiarato guerra alle opere inutili e si ritroveranno a Venaus l’11 agosto.
Intanto i francesi hanno già  scavato le tre “discenderie” di loro competenza, cioè tre gallerie che sbucano sul tracciato del (futuro) tunnel per accelerare l’opera aggredendola in più punti, e trasformandosi in uscite di sicurezza a lavori conclusi.
Quando? Come? Per ora il nodo si chiama Siim Kallas, il commissario europeo per i trasporti che chiede non solo il – simbolico – avvio dei lavori anche sul fronte italiano e il – tuttora latitante – ok paesaggistico del ministero per l’Ambiente, ma anche un risolutivo vertice italo-francese sulla ridefinizione dei costi.
Il tragitto nostrano ha visto quadruplicare il preventivo, e di certo Sarkozy non intende sopportare la lievitazione dei costi italiani.
Perchè anche i francesi, col loro 37% di tunnel da pagare, potrebbero cominciare ad arrabbiarsi se il conto diventasse troppo salato.

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MANOVRA, STOP ALLE ENERGIE RINNOVABILI: COSA RISCHIA L’ITALIA

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

SANZIONI SE ENTRO IL 2020 NON SI RAGGIUNGE IL 17% DELLA PRODUZIONE ALTERNATIVA, DIPENDENZA DALL’ESTERO, CREDIBILITA’, RIDUZIONE DELL’OCCUPAZIONE NEL SETTORE, AUMENTI DI RISCHIO CLIMATICO

Il governo Berlusconi aveva disegnato per il paese un futuro elettrico composto per un quarto da nucleare, per un quarto da fonti rinnovabili, per la metà  da combustibili fossili. Il referendum ha cancellato l’opzione nucleare, che del resto era già  in ritirata a livello globale prima di Fukushima.
Adesso Palazzo Chigi si autoaffonda un altro 25 per cento del progetto mandando a picco le fonti rinnovabili grazie a un taglio del 30 per cento sugli incentivi appena approvati.
A tutto ciò va aggiunto il freno alle misure di efficienza energetica con lo stop and go sugli sgravi fiscali per le ristrutturazione ecologiche degli appartamenti.
Il risultato di questo assieme di misure è che il paese si trova esposto a una serie di rischi gravissimi.
Primo: le sanzioni.
L’Italia si è impegnata a raggiungere entro il 2020 una produzione energetica composta per almeno il 17 per cento da fonti rinnovabili. Abbiamo 9 anni per triplicare la nostra capacità  di energia pulita ma il governo si sta dando da fare per ridurla. Fallire l’obiettivo europeo significherebbe pagare sanzioni consistenti appesantendo ulteriormente il nostro precario equilibrio economico.
Secondo: la dipendenza dall’estero.
L’Italia ha una dipendenza energetica dall’estero dell’85 per cento. E’ una bolletta da 63 miliardi di euro che tenderà  a salire per effetto della progressiva instabilità  del prezzo del petrolio. Le fonti rinnovabili invece sono alimentate da una materia prima – sole, vento, calore terrestre, biomasse –   che abbiamo in casa e che, se sfruttata, ci permetterebbe di guadagnare una maggiore sicurezza energetica.
Consegnare il futuro all’incerto andamento dei combustibili fossili è un azzardo che può costare caro.
Terzo: il rating dell’Italia.
La credibilità  del sistema Italia è visibilmente scossa dal ripetersi delle violazioni degli impegni governativi. Nel gennaio 2010 era entrato in vigore il terzo conto energia: doveva durare anni, è stato cancellato a marzo. A maggio si è provato a rimediare con il quarto conto energia: doveva durare anni, è stato rimesso in discussione a giugno. L’accordo di giugno non è arrivato a fine mese. Pochi giorni fa il Consiglio dei ministri, dopo la sollevazione di tutte le associazioni di categoria interessate, aveva infatti ritirato l’ennesimo taglio del 30 per cento, ma oggi questo taglio (secondo le notizie di agenzia) figura nel testo inviato al Quirinale.
Già  a marzo il sistema di credito internazionale aveva diffidato il governo, ipotizzando un blocco dei finanziamenti all’Italia determinato dalla mancanza di credibilità : la situazione rischia di aggravarsi ulteriormente.
Quarto: l’occupazione.
Lo smantellamento del settore delle rinnovabili costerebbe oltre 200 mila posti di lavoro. Mentre puntando sulla green economy, secondo i calcoli del Kyoto Club, si potrebbe avere un milione di nuovi occupati nei prossimi 5 anni.
Quinto: il mercato internazionale.
La crescita delle rinnovabili è costante e progressiva: dal 2008, a livello globale, gli investimenti sulle rinnovabili hanno superato quelli sui combustibili fossili. Il 26 % della nuova potenza elettrica installata nello scorso decennio è costituito da impianti di rinnovabili. Ora si rischia di restare esclusi da questo settore trainante dell’economia mondiale.
Sesto: il clima.
Paralizzando le rinnovabili l’Italia aumenterebbe le emissioni serra violando un altro impegno europeo, quello del contenimento della produzione dei gas che minacciano la stabilità  del clima. Si profilano altre sanzioni e un aumento dei rischi legati alla pressione degli eventi estremi: dalle alluvioni alla siccità .

Antonio Cianciullo
(da “La Repubblica“)

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SUPER-STANGATA AGLI STATALI: 215 EURO IN MENO AL MESE

Luglio 6th, 2011 Riccardo Fucile

TAGLIO DI 256.000 POSTI ENTRO IL 2014, MOBILITA’ OBBLIGATORIA…VIA DALLA SCUOLA 1.000 VICEPRESIDI, INSEGNANTI NON IDONEI TRASFORMATI IN SEGRETARI… STRETTA SUI GIORNI DI MALATTIA ANCHE PER FORZE DELL’ORDINE E FORZE ARMATE

Gli statali vengono pesantemente schiacciati dalla manovra di Tremonti, più del previsto: declassamento di professori a bidelli, occhiute visite fiscali anche per poliziotti e carabinieri, mobilità  territoriale obbligatoria e blocco degli stipendi.
Il mito dell’impiegato statale sembra duramente colpito.
L’articolo 16 della manovra d’estate, reso disponibile ieri, prepara tempi duri per i circa 2 milioni di dipendenti della pubblica amministrazione coinvolti: l’allungamento al 2014 del blocco della contrattazione, dell’adeguamento all’inflazione dei salari e della retribuzione accessoria dei dipendenti pubblici comporterà , la rinuncia a regime a 200 euro al mese lordi e di 15 euro al mese di salario accessorio.
Tutto ciò non sarà  compensato neppure dalla indennità  di vacanza contrattuale, corrisposta per l’ultimo anno nel 2010 e pari ad 8 euro al mese lordi, ora congelata.
La stretta sul potere d’acquisto, sul tenore di vita e sui consumi degli statali vale 1,5 miliardi e comporta, dopo la rinuncia per il triennio 2011-2013 a 5,9 punti di recupero dell’inflazione, una ulteriore penalizzazione per il carovita che si registrerà  nel 2014.
Il taglio effettivo dei salari sarà  accompagnato da altre due misure dal sapore biblico: in totale dal 2011 al 2014 la pubblica amministrazione perderà  256 mila dipendenti, che andranno in pensione, di cui solo uno su cinque sarà  rimpiazzato a causa del blocco del turn over.
Nel solo 2014, anno nel quale il blocco viene esteso, usciranno in 80 mila ma ne saranno rimpiazzati solo in 16 mila.
Perdita netta: 64 mila.
L’altra misura che potrebbe cambiare ancora di più la vita degli statali è quella sulla mobilità  territoriale, che richiama la sortita leghista sui ministeri al Nord.
Il decretone stabilisce che la mobilità  è obbligatoria, mentre fino ad oggi era su base volontaria e compensata economicamente.
Infine gli statali pagheranno anche un nuovo prezzo alla strategia anti-assenteismo che viene potenziata inserendo la visita fiscale nel giorno precedente o successivo alle festività .
Ma soprattutto la norma estende il trattamento anti-assenteismo anche alle forze di polizia e alla forze armate: poliziotti, carabinieri e militari nei primi dieci giorni di malattia avranno il salario tagliato dagli accessori e dalle indennità  (in questi casi la parte più rilevante dello stipendio) e dovranno sottostare, se non hanno compiti definiti ambiguamente «operativi», alla visita medica post-festività .
Mentre ai travet si chiedono sacrifici e l’Ice viene soppressa, rispuntano tuttavia posti apicali: è il caso dell’articolo 18, comma 21, che prevede dopo la soppressione dell’ente di ricerca dell’Inail, l’Ispesl, il recupero del suo direttore generale con conseguente insediamento nell’ente controllante.
Sorprese amare nel mondo della scuola dove spariranno dai piccoli istituti circa mille vicepresidi, ma soprattutto suscita proteste la norma che declassa a bidello, o ad addetto alla segreteria, il docente dichiarato inidoneo per motivi di salute.
Infatti gli insegnanti della scuola reputati dalle commissioni mediche non più idonei all’insegnamento verranno trasformati, entro 30 giorni dall’accertamento delle Asl, in impiegati della scuola: qualora non vi siano posti liberi come assistenti amministrativi o tecnici, oppure non dovessero presentare domanda di ricollocamento, verranno assorbiti d’ufficio da un’altra amministrazione pubblica.
Rispetto all’attuale normativa, il giro di vite introdotto dal governo è decisamente forte perchè abbrevia i tempi ed introduce il trasferimento coatto: questo riguarderà  coloro che non presenteranno «l’istanza ivi prevista o la cui istanza non sia stata accolta per carenza di posti disponibili» e si concretizzerà  nel transito nei ruoli del personale amministrativo delle amministrazioni dello stato.

Roberto Petrini
(da “La Repubblica“)

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