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IMMIGRAZIONE, LA DENUNCIA DI HUMAN RIGHT WATCH: “DAL 1998 MORTI 13.500 MIGRANTI IN MARE”

Agosto 21st, 2012 Riccardo Fucile

ALLO STUDIO UN NUOVO SISTEMA DI SORVEGLIANZA DELLE FRONTIERE, EUROSUR, CON MONITORAGGIO SATELLITARE E L’UTILIZZO DI DRONI PER SCRUTARE IL MEDITERRANEO… MA PER HRW OCCORRE ANDARE OLTRE IL CONCETTO DI SICUREZZA

Salvare le vite dei migranti che affrontano il Mediterraneo a bordo di gommoni e barconi fatiscenti dovrebbe essere prioritario nella strategia europea sull’immigrazione.
Le operazioni di salvataggio sono tuttavia messe a rischio dalla carenza di coordinamento tra i Paesi coinvolti; dalle dispute su quale Paese sia responsabile per le operazioni di recupero e messa in sicurezza; dall’enfasi sulla necessità  di maggior controllo delle frontiere e dalle possibili ripercussioni sia economiche sia legali che corrono gli equipaggi delle navi che prestano soccorso ai migranti, con il rischio di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Errori che l’organizzazione statunitense Human Rights Watch analizza in Hidden Emergency, l’ultimo studio sull’emergenza dimenticata tra le sponde del Mediterraneo: la morte in mare di migliaia di migranti.
Dall’inizio dell’anno almeno 170 migranti hanno perso la vita nel corso della traversata, in fuga dalle persecuzioni nei loro Paesi d’origine o con la speranza di migliorare la propria condizione. Dal 1998 le vittime sono state circa 13,500, di cui 1.500 soltanto l’anno scorso, l’anno nero secondo le cifre riportate dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, (Unhcr).
Per l’osservatorio online “Fortress Europe”, i cui dati si basa sulle cifre censite dalla stampa internazionale, nel 2011 i morti sono stati invece oltre 2.000.
Ma il bilancio potrebbe essere ancora più grave perchè non tiene conto delle ipotetiche vittime di cui non si è avuta notizia.
Scomparsi nel mare.
Il caso che meglio racconta quanto denunciato da HRW fu, nell’aprile dell’anno scorso, il mancato soccorso a un gommone con 72 migranti a bordo, alla deriva per quindici giorni le cui richieste di aiuto furono inascoltate.
Si era all’inizio dei raid internazionali sulla Libia.
Come emerso da un’inchiesta del Consiglio d’Europa, una serie di errori e rimpalli di responsabilità  portò alla morte in mare di 61 passeggeri. Altri due morirono una volta ricondotti in Libia, da dove erano salpati, in fuga dal conflitto, il 26 marzo.
Trascorse appena 18 ore di viaggio il motore del gommone era in panne.
L’allarme lanciato dai naufraghi fu raccolto don Mussie Zerai, sacerdote eritreo residente a Roma che avvertì la Guardia costiera che a sua volta diramò l’allerta. Almeno due navi militari — una fregata spagnola sotto comando Nato e un’altra nave sotto comando della Marina militare italiana — non risposero agli sos.
Un elicottero francese lanciò ai naufraghi biscotti e acqua, ma la richiesta di soccorso restò inascoltata. Il 10 aprile gli undici superstiti riuscirono a raggiungere nuovamente la Libia.
Fu un “fallimento collettivo”, dice il documento finale dell’inchiesta presentato dall’olandese Tineke Strink, nel quale l’Italia ebbe gravi responsabilità  e che mise a nudo la mancanza di un piano Nato, Onu e dei Paesi coinvolti nel conflitto in risposta all’inevitabile aumento dei profughi in fuga dalle violenze.
Tra i problemi messi in luce da HRW c’è inoltre la confusione nelle norme che dovrebbero chiarire dove i naufraghi tratti in salvo debbano essere sbarcati. Lo dimostrano le continue diatribe tra l’Italia e Malta al riguardo.
L’isola non accetta il principio, codificato nel 2004 nell’ambito della Convenzione Solas del 1974 e della Convenzione di Amburgo del 1979, secondo cui il posto sicuro in cui sbarcare i migranti deve essere uno dei porti del Paese titolare sulla zona marittima di ricerca e soccorso (Ras) in cui sono stati salvati.
Quella maltese è molto ampia, si estende da Creta fin quasi alle coste tunisine, comprendendo anche acque vicino a Lampedusa.
Proprio sull’isola La Valletta vorrebbe fossero sbarcati i migranti soccorsi nella propria Ras, ma in acque più vicine a Lampedusa che alla stessa Malta, trovando in questo l’opposizione italiana che a settembre del 2011 ha complicato il quadro dichiarando l’isola porto non sicuro.
Un esempio della sorta che spetta a chi è recuperato in mare è il caso degli oltre cento migranti salvati ad agosto del 2011 da una fregata spagnola. La Valleta e Madrid si accordarono per far sbarcare alcuni dei passeggeri più a rischio, gli altri furono costretti a restare sulla nave spagnola per cinque giorni, mentre i Paesi europei discutevano su chi dovesse dare loro assistenza.
Alla fine fu la Tunisia ad accoglierli, sebbene avesse già  dato rifugio a centinaia di profughi fuggiti dalla Libia e il Paese fosse alle prese con le conseguenze della propria primavera araba.
Per il futuro l’Unione europea ha allo studio un nuovo sistema di sorveglianza delle frontiere, Eurosur, che tra le altre soluzioni prevede un sistema di monitoraggio satellitare e l’utilizzo dei droni per scrutare il Mediterraneo e le coste del Nord Africa.
Il sistema ha tre obiettivi: combattere l’immigrazione irregolare, battere il crimine lungo le frontiere e proteggere vite umane.
Scrive tuttavia HRW che sebbene la tutela delle persone in difficoltà  sia una delle priorità  del progetto, mancano nella bozza di legge procedure e linee guida affinchè questa sia realmente garantita.
Al contrario così come è pensato, il progetto sembra riproporre nuovamente la logica della sicurezza alle frontiere per impedire gli arrivi.
Occorre pertanto studiare meccanismi che permettano di tutelare la vita dei migranti, spiega l’organizzazione statunitense, ribattendo alle critiche di chi considera quest’ultimo punto un via libera per i migranti a imbarcarsi e partire , ossia quella che più o meno è la logica italiana dei respingimenti bocciata dalla Corte europea per i Diritti Umani.
La storia, conclude HRW, dimostra che non sono i fattori esteri a spingere le persone a lasciare il proprio Paese, ma motivi economici e politici.

Andrea Pira
(da “Lettera 22“)

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RIPARTE IL CALCIO, RESTANO I DEBITI

Agosto 21st, 2012 Riccardo Fucile

IL CALCIO SPAGNOLO DEVE ALLO STATO 750 MILIONI, QUELLO ITALIANO HA PASSIVI PER 2,6 MILIARDI E NELLA PRIMA DIVISIONE INGLESE CI SONO SETTE CLUB IN ROSSO PER OLTRE 100 MILIONI… UNICA ECCEZIONE IL CALCIO TEDESCO

Sono scattata la Ligue, la Premier League e la Liga, domenica sarà  la volta della Bundesliga e della nostra Serie A.
Ripartono i campionati di tutta Europa.
Ma mai come oggi è un calcio malato, segnato da debiti sempre più difficili da gestire. L’ultima ad essere esplosa, in ordine di tempo, è la crisi del calcio spagnolo.
Che deve allo Stato circa 750 milioni di euro, secondo gli ultimi dati forniti dal Governo.
E altri quattro ne deve a banche o istituti creditizi (che poi si rivolgono allo Stato per non fallire, il giochetto è sempre quello).
Sono numeri che fanno scalpore, di questi tempi: e infatti si è parlato molto di come gli aiuti dell’Unione Europea siano serviti indirettamente anche a finanziare gli acquisti da parte del Real di Cristiano Ronaldo e Kakà .
Ma il problema dei conti in rosso non riguarda solo i grandi club.
Dietro è un generale si salvi chi può: oltre 20 squadre sono tecnicamente o concretamente fallite; e dei club della Liga ce ne sono otto che non hanno speso neanche un centesimo quest’estate.
Ebbene sì: la recessione è arrivata anche nel calcio.
E anche nel calcio spagnolo, quello milionario e delle agevolazioni fiscali (che infatti non ci sono più, sacrificate sull’altare della crisi dal premier Rajoy).
Ma non è solo il sistema iberico a tremare.
Il calcio italiano è indebitato per 2,6 miliardi di euro.
In Francia, escluso il Psg, si naviga a vista: il Montpellier campione in carica ha venduto la stella Giroud per esigenze di bilancio; mentre l’Olympique Lyonnais, dopo aver dominato per un quinquennio il campionato, è sprofondato in una crisi che è prima economica e poi sportiva.
Passando all’Inghilterra, in Premier League ci sono almeno sette club con debiti superiori ai 100 milioni di euro a testa. Nel 2003 è fallito il glorioso Leeds, l’anno scorso è toccato al Portsmouth.
Ai Rangers di Glasgow, nella vicina Scozia, è andata anche peggio: bancarotta e retrocessione in quarta divisione per la squadra di calcio più titolata del Paese.
Non è un caso che l’ultima sessione di calciomercato sia stata caratterizzata da un generale clima di austerity.
A parte lo shopping quasi compulsivo del Paris Saint-Germain, solo il Chelsea di Abramovich (fior di quattrini per Hazard, Oscar e Marin) e il Manchester United di Alex Ferguson hanno speso parecchio, con i Red Devils che hanno dovuto sborsare 30 milioni di sterline per Van Persie dall’Arsenal, poco meno per Kagawa dal Borussio Dortmund.
Le altre hanno combinato poco: il Barcellona ha comprato Song e Jordi Alba, Il Bayern Monaco Javi Martinez, il City solo Rodwell; mentre il Real forse prenderà  Modric ma per adesso è ancora fermo a quota zero. Un acquisto per club, seppure.
Che potrebbe anche essere considerato troppo, a guardare i numeri dei passivi.
Ma se il Barcellona, il Real e lo United possono permettersi di “dimenticare” i propri debiti (di oltre 500 milioni a testa) e continuare ad operare sul mercato è merito dei loro fatturati “monstre”: 480 milioni annui per il Real Madrid, 450 per il Barà§a, 370 per il Manchester.
E’ qui che fanno la differenza con le “big” italiane: Milan e Inter si fermano intorno ai 200 milioni (con i nerazzurri che peraltro l’anno prossimo dovranno fare a meno dei preziosi introiti della Champions League), più indietro la Juventus (che però dovrebbe beneficiare appunto dei soldi della prossima Champions e dei ricavi dello stadio). Nessuna sorpresa, allora, se le nostre squadre vendono i loro pezzi pregiati, hanno come unico obiettivo quello di snellire il monte ingaggi o inseguono invano i “top player”.
Il panorama del calcio europeo è sconfortante.
Ma un’eccezione c’è e si chiama Bayern Monaco: entrate per circa 300 milioni di euro l’anno, soprattutto un bilancio chiuso in attivo.
Per la ventesima volta di fila, nonostante in rosa ci siano stelle assolute come Robben e Ribery.
E non è certo l’unica squadra “virtuosa”, in Germania: loro ce l’hanno fatta, l’eden calcistico dei prossimi anni potrebbe essere proprio la Bundesliga.
La ricetta è semplice: costi del personale contenuti, investimenti mirati sui giovani, gestione societaria rigorosa, azionariato popolare, stadi di proprietà  redditizi.
La strada è tracciata, per tutti; a prescindere dal fattore cogente (fittizio o reale, si vedrà  presto) del Fair play finanziario.
La soluzione per far fronte alla crisi del calcio europeo è solo questa.
Oppure l’epifania di qualche magnate o sceicco della provvidenza. Ma attenzione: i petrodollari come arrivano spariscono.
Ne sa qualcosa il Malaga, sedotto e abbandonato dallo sceicco Al-Thani: potenza milionaria un anno fa di questi tempi, quarto nell’ultima Liga dopo anni di anonimato. Adesso la capitale della Costa del Sol torna ad essere meta solo di turisti e non di grandi giocatori: lo sceicco si è stancato presto del suo giocattolino, la società  è di nuovo sul mercato.
E così addio a Cazorla (emigrato a Londra, sponda Arsenal) e a tutti i pezzi pregiati della squadra.
Comete che bruciano troppo in fretta: City e Psg sono avvisati. Intanto ricominciano i campionati. In attesa della Champions League, dove le squadre da battere saranno sempre le stesse.
Real Madrid, Barcellona, Manchester United: campioni sul campo, campioni di debiti.

Lorenzo Vendemiale
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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