Febbraio 14th, 2013 Riccardo Fucile
INIZIA IL PROCESSO A FIORITO…PARTITA APERTA E CAMPAGNA PORTA A PORTA
L’appuntamento è per domani davanti al giudice per le udienze preliminari, processo con rito abbreviato.
Franco Fiorito, ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, è accusato di essersi intascato circa un milione e 400 mila euro dei fondi destinati al suo gruppo consiliare.
E’ da qui che bisogna iniziare, dalle gesta di «Er Batman», dai suoi pasti pantagruelici, ostriche e champagne, dalla suite di cinquecento metri quadri alle Maldive divisa con Samantha per la modica cifra di 50 mila euro, dalle ville, i terreni, i regali e i favori, per capire che aria politica tira nel Lazio.
La cassaforte del consenso della destra è saltata, la strada, per quel mondo, è tutta in salita dopo la performance amministrativa di Polverini cui si aggiunge quella del sindaco Alemanno.
Il centrosinistra intende approfittarne. Posta in gioco altissima.
Nel Lazio votano circa quattro milioni di persone, nel Lazio insiste la più grande area metropolitana del Paese, Roma.
28 i seggi assegnati al Senato, 16 a chi vince e prende il premio di maggioranza (15 andrebbero, al caso, al Pd, uno a Sel) 12 all’opposizione.
Numeri che pesano.
I manifesti parlano dei veri protagonisti di questa campagna.
La sfida più sentita — decisiva anche per le politiche — è quella tra Nicola Zingaretti e Francesco Storace, già governatore del Lazio, deciso a tornare sul luogo del delitto, nonostante il soprannome che i detrattori gli affibbiano, ovvero “Mister 10 miliardi”, per via del drammatico buco della sanità (ovviamente lui declina responsabilità e dà numeri diversi).
Chi metterà piede alla Pisana (il palazzo della Regione) si porterà dietro anche il voto nazionale.
Effetto traino più effetto Batman.
Che ci sia un potenziale vincitore e un potenziale perdente, parliamo di centrosinistra e centrodestra, lo sanno tutti.
Il Lazio non è come la Lombardia.
Però, come dice Enrico Gasbarra, segretario regionale del Pd, «il sorriso non deve fermarci le gambe».
Non a caso ieri riunione di tutti i candidati Pd di ogni ordine e grado, dalle regionali al Parlamento, per serrare le fila in questi ultimi 10 giorni: «Non dobbiamo essere tranquilli, non dobbiamo dare nulla per scontato, guai ad abbassare la guardia, battete il territorio, guardate i cittadini negli occhi».
Ugo Sposetti, candidato al Senato, esegue alla lettera.
Lo si può incontrare ogni giorno tra il Tiburtino e il Quadraro, non proprio quartieri da gauche-caviar, con il suo furgone Doblò, a distribuire santini e istruzioni per il voto.
La sinistra sembra aver capito la lezione dopo le tranvate prese in passato.
Nicola Zingaretti: «Non vogliamo solo vincere ma ricostruire la speranza, al di là delle appartenenze politiche ».
Lo slogan della sua campagna è «Un nuovo inizio», stampato persino su un inedito gadget-kit da giardinaggio.
Un nuovo inizio all’insegna della legalità , un appello alla riscossa aperto anche a grillini rabbiosi, pidiellini pentiti, astensionisti (con i radicali pessimi rapporti siamo alle querele).
Non è un caso che il Pd abbia scelto, come capolista al Senato, il magistrato Pietro Grasso e che Futuro e Libertà presenti, come aspirante governatore e candidata al Senato, Giulia Bongiorno con lo slogan «Facciamo giustizia».
Campagna dura, di svolta.
La destra ha un radicamento storico nel Lazio, a suo tempo il Msi da queste parti faceva l’11 per cento.
Adesso a Rieti c’è un sindaco di Sel e Gasbarra sente odore di inversione di tendenza: «Abbiamo lavorato molto in questi anni. Speriamo di far cambiare colore a questa regione». Frosinone, Latina, feudi della destra con percentuali bulgare di consenso.
Flavia Perina, in testa alla lista di Fli per la Camera, riassume amara: «La destra ha governato e ha fatto casino».
Cinque anni fa Gianni Alemanno prese per il Campidoglio 170 mila voti in più della sua Lista, e la Polverini fu eletta addirittura senza le liste del Pdl. Anni di vacche grasse. Finiti.
Fli si sente «Davide contro Golia»: «Non abbiamo soldi per i manifesti, possiamo solo contare sulla nostra reputazione di persone perbene».
Il Pdl deve far dimenticare le gesta dei suoi a livello locale (anche se li ha in gran parte ripresentati) ma anche nazionale. Maurizio Gasparri, secondo dopo Berlusconi nella Lista Pdl al Senato, ha un linguaggio realistico: «Nel Lazio dobbiamo recuperare, la battaglia è difficile ma aperta».
«Cabala e logica», evocate dall’ex colonnello di An, suggeriscono che vada come è sempre andato in questa regione: «Da sempre qui valgono le fasi alterne, ora di qua, ora di là ».
Toccherebbe dunque a Zingaretti, la cui probabile vittoria dovrebbe energizzare anche il voto per il centrosinistra alle politiche.
Lui va comprensibilmente cautissimo: «Do una mano alla ditta».
Basso profilo in una regione che può riservare sorprese. Sempre Zingaretti: «E’ una mela spaccata in due e noi siamo un po’ meno della metà ».
Con questa legge elettorale — ricorda Gasbarra — il centrosinistra non ha mai preso la maggioranza al Senato. Questa volta ci provano, forti di un «clima favorevole».
Per le primarie Bersani/Renzi si son mosse trecentomila persone e, a Roma, centodiecimila elettori hanno fatto la fila lo scorso dicembre per scegliere i parlamentari. Da allora i 3000 volontari dei gazebo sono rimasti «spalmati sul territorio » e sono operativi anche in queste ore per la doppia sfida politiche/regionali. Francesco Storace vede naturalmente il mondo dal suo versante: «Io dico che a sinistra hanno terrore di me. Ogni giorno mi attaccano su tutto, si sono anche aggrappati ad una croce celtica messa su un tavolino da un militante che io manco conosco. Questa si chiama fifa blu».
Stoffa di camerata combattente, voglia di rivincita, lo slogan è perentorio: “Ora credici”. Esibisce il curriculum e provoca: «Ci sono dodici candidati governatori. Solo io so come funziona la macchina della Regione».
Zingaretti, massimo della perfidia, lo ignora.
E Grillo? Nessuno si permette più di archiviarlo con il sorriso. Difficile quantificare il suo successo nel Lazio.
Perina fa notare la scelta non casuale del comico: «Chiuderà la campagna elettorale a Roma in piazza San Giovanni». La piazza storica della sinistra, già “violata” nel 2007 da Berlusconi con un raduno anti-Prodi. Chissà quanti romani conquisterà .
Le liste presentate al Senato sono 28, anche parecchio di nicchia come «No alla chiusura degli ospedali» o «Dimezziamo lo stipendio ai politici».
Il Lazio: specchio del Paese imploso.
L’imputato Fiorito, per nulla dimagrito, affronta il processo, il centrosinistra spera nel «Nuovo Inizio».
E, a maggio, si vota anche per il Campidoglio.
Alessandra Longo
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Febbraio 14th, 2013 Riccardo Fucile
IL “MEGAFONO” DEL GOVERNATORE PUO’ VALERE DIECI SENATORI
«Più uno», mormora soddisfatto Salvo Alicata attraversando lentamente il mercato
di Partanna con il suo mazzo di volantini in mano, mentre un vento gelido diffonde nell’aria il profumo delle bancarelle di mandarini.
Più uno: un altro voto conquistato per la sfida decisiva, una pensionata che voterà Cinque Stelle alla Camera e Pd al Senato, “perchè non ne può più di questi politici, ma vuole essere sicura che non torni Berlusconi”.
Salvo ha 41 anni e s’è fatto le ultime cinque campagne elettorali sulla strada, tra i mercatini e il porta a porta.
Vede poco la tv, ma di gente ne incontra tanta.
“La rabbia è forte e il malumore è alto” avverte. Eppure oggi, per la prima volta dopo tanti anni, è ottimista.
“Ex democristiani, berlusconiani delusi, seguaci di Ingroia: hanno capito che la partita si vince o si perde al Senato, e non getteranno via il loro voto. I più duri sono i grillini, incavolatissimi, per loro Pd e Pdl sono la stessa cosa, ma ogni tanto qualcuno riusciamo a convincerlo. Eravamo già a otto. Più uno: nove”.
Mai come stavolta è scattata la caccia al singolo voto, in Sicilia.
Perchè questa è una delle regioni in bilico, tra centrosinistra e berlusconiani, e chi dei due prenderà anche un solo voto più dell’altro si aggiudicherà il premio, anzi il superpremio. Giuseppe Lupo, il segretario regionale dei democratici, fa i conti su un foglio a quadretti: «Se vincono loro, noi prendiamo al massimo quattro senatori su venticinque.
Se vinciamo noi, ce ne toccano quattordici. E sarà una manciata di voti, a stabilire a chi andranno quei dieci seggi che a Palazzo Madama faranno la differenza».
La stagione del sessantuno a zero, quando nel 2001 Berlusconi si aggiudicò tutti i collegi dell’isola, senza lasciarne neanche uno a Rutelli e ai suoi, oggi sembra lontana quanto il paleolitico.
Divisi da una insanabile rivalità che si è rapidamente trasformata in odio viscerale, i vicerè berlusconiani hanno ormai dilapidato il patrimonio elettorale di dodici anni fa, e l’uscita del Cavaliere da tutti i palazzi del potere ha dato il via alla Grande Fuga, un esodo tanto massiccio quanto imbarazzante.
Dopo Francesco Musotto, icona forzista dell’errore giudiziario, non si contano più i parlamentari, i deputati regionali, gli ex assessori regionali, i sindaci e i grandi elettori che hanno lasciato il centrodestra.
Solo negli ultimi tre mesi sono stati in sedici a mollare Alfano o i suoi alleati di ritorno, Miccichè e Lombardo.
Il penultimo è stato l’ex vicepresidente della Regione Michele Cimino, potente signore delle preferenze dell’agrigentino, fino a ieri numero due di Grande Sud: «Voto e faccio votare il Pd alla Camera e il Megafono di Crocetta al Senato» ha annunciato.
L’ultimo è stato Franco Mineo, candidato alle regionali nonostante un processo in corso, che se n’è andato sbattendo la porta: «Miccichè è una pallina da flipper impazzita, ormai non ha più nemmeno un voto».
L’ex viceministro, furibondo, finge sollievo per mascherare l’ira: «Sono solo rincalzi, abituati a rovinare lo spogliatoio».
Ancora più spettacolare, per la sua fulminea velocità , è stata la transumanza delle truppe di Raffaele Lombardo, l’ex governatore che aveva costruito la sua piramide del potere strappando a suon di nomine i portatori di voti agli alleati.
Il primo ad andarsene è stato il suo numero due, Lino Leanza.
Poi uno dopo l’altro gli hanno detto addio il segretario del movimento, Pistorio, il capogruppo all’Assemblea regionale, D’Agostino, e persino il fratello Angelo («Il mio dovere personale verso l’Mpa può considerarsi nullo, già a partire da oggi»), e anche se adesso l’ex governatore giura pubblicamente che «la polemica è strarisolta» l’uomo che appena cinque anni fa confidava spavaldamente di puntare «al 51 per cento dei voti dei siciliani» non sa neanche se riuscirà a superare la soglia minima del 3 per cento che gli permetterà di assicurarsi uno scranno a Palazzo Madama.
E siccome i siciliani hanno sempre avuto un fiuto imbattibile per il potere, chi lascia Berlusconi, Micchichè o Lombardo punta direttamente su Crocetta, e pazienza se è un ex comunista, pazienza se è un gay orgoglioso di esserlo, pazienza se dice che vuole castigare chi ha sfasciato la Sicilia: è lui il nuovo uomo forte, ed è alla sua porta che bisogna bussare. Crocetta, che ha capito tutto questo prima degli altri, ha steso un tappeto rosso davanti alla sua porta e ogni volta che l’Assemblea regionale si riunisce vede crescere la sua coalizione: era partito in minoranza, 39 seggi su 90, e adesso ha appena conquistato il deputato numero 46 che gli garantirà , almeno sulla carta, la maggioranza in aula. E ogni deputato regionale, ogni sindaco, ogni assessore che arriva sulla sua sponda si porta dietro – come Cimino – il suo pacchetto di voti. Suscitando l’ira del luogotenente di Lombardo, Rino Piscitello (ex Pdup, ex Dp, ex Rete, ex Margherita, ex Ulivo: al momento Mpa) che minaccia di andare in Procura per denunciare, dice, «questo mercato delle vacche».
I traghettatori sono due.
Il primo è l’ex presidente dell’Antimafia Beppe Lumia, che è poi il grande suggeritore di Crocetta, oltre che il numero uno della sua lista al Senato, «Il Megafono».
E’ proprio su questa lista, collegata con il Pd, che Bersani conta per conquistare quei preziosissimi dieci seggi in più. E nella vittoria dell’alleato, Crocetta cerca il suo successo personale: «Saremo il più grande movimento autonomista dell’isola, la prima forza politica in Sicilia».
Il secondo è l’ex ministro Salvatore Cardinale, inventore del gruppo-omnibus «Democratici popolari e riformisti» dove confluiscono i transfughi, e che confida agli amici di ricevere ogni mattina una telefonata da Roma: «Oggi quanti ne abbiamo conquistati?».
Nella terra dei gattopardi, la politica è sempre stata alimentata da questi fiumi carsici di voti controllati uno per uno dai signori delle preferenze, anche se oggi il segretario del Pd Lupo non crede ai miracoli: «Chiunque può spostare un voto ben venga.
Ma il voto organizzato che si sposta da una parte all’altra all’ultimo momento è solo una chimera».
E allora, chi e cosa deciderà la vittoria?
Tra Bersani e Berlusconi qui c’è soprattutto Grillo, che è l’unico a riempire le piazze anche quando piove perchè riesce a intercettare perfettamente la rabbia dei siciliani contro la politica.
Poi c’è l’incognita Monti, che candida l’imprenditrice Gea Schirò Planeta e il costruttore antiracket Andrea Vecchio ma non ha un partito alle spalle.
Alla fine, quasi sicuramente, risulterà determinante il voto disgiunto.
Come quelli che Salvo Alicata conquista al mercato di Partanna.
O come quelli che il leader della Fiom di Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, suggerisce ai suoi compagni del sindacato: «Ingroia alla Camera e Pd al Senato: non possiamo consegnare la Sicilia a Berlusconi».
Quanto a lui, a “Belluscone” come lo chiamano alla Vucciria, il suo mito è stato schiacciato dalla crisi e frantumato dagli scandali, anche se la senatrice Simona Vicari assicura che «da quando lui è tornato in campo, nei mercati e nei quartieri popolari lo invocano in tanti». Sarà .
Nel dubbio, il Pdl ha adottato la tecnica delle liste a grappolo: più voti portano, più il premio si avvicina.
Il capolavoro è stata la lista della Lega Nord depositata dal sindaco di Alimena, Giuseppe Scrivano, già sicilianista, già nazionalista.
A corto di proseliti leghisti, il sindaco ha messo in lista la moglie Mirella, il cugino Giacomo, la cognata Liboria e la zia Maria. Non bastavano.
Così il suo assessore Gaspare D’Amico ha portato la moglie Maria Rosa, il padre Calogero, la madre Carmela e la sorella Giuseppina.
In tutto, tra congiunti, consanguinei e imparentati, alla fine tra Camera e Senato ne hanno contati 18.
«Tanti parenti – ha ammesso il sindaco, serafico – ma nessuna amante».
Sebastiano Messina
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