Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
AMBROSOLI RECUPERA 10 PUNTI MA NON BASTANO: FINISCE 43% A 38%, 5 ANNI FA FORMIGONI VINSE 65% A 35%… E L’EX GOVERNATORE SOTTOLINEA: “E’ STATO IL PDL A TRASCINARE LA LEGA CHE HA AVUTO UN RISULTATO MODESTO”
«Missione compiuta». Maroni è da questa sera il nuovo presidente della Regione che mancava nella
geografia nordista, dopo Piemonte e Veneto, e ha messo a disposizione il suo mandato al Consiglio federale convocato per l’inizio della prossima settimana. «Abbiamo aperto una pagina nuova», ha detto con al fianco Umberto Bossi e Matteo Salvini nella sede di via Bellerio.
“Questo era ciò che la Lega voleva, era il nostro obiettivo strategico. Sapevamo che per realizzare il nostro progetto – ha spiegato Maroni a risultato elettorale in tasca – dovevamo fare l’accordo con il Pdl e sapevamo che ci avrebbe penalizzato, era tutto in conto. Ma abbiamo salvato la Lega e aperto una fase nuova».
In realtà più che salvarla, Maroni in questi mesi l’ha distrutta: in Veneto il Carroccio è passato in tre anni dal 35,15% all’11%, in Lombardia dal 26.2% al 14,6%, in Piemonte dal 12,5% al 5%, in Liguria è crollata al 2%.
Ma l’importante è aver fatto l’accordo con il Pdl che gli ha permesso di occupare la poltrona tanto ambita.
Mentre il Cavaliere per sopravvivere si è venduto il Nord a un partito ormai elettoralmente irrilevante.
«In Lombardia – ha esultato Formigoni via Twitter – vince il buon governo del centrodestra, 18 anni che sono piaciuti ai cittadini»
Ma la vittoria politica, Formigoni l’ha di fatto intestata al suo partito, affermando che è stato il Pdl a «trascinare la Lega, che non ha avuto un grande risultato».
È proprio quest’ultimo che non farà dormire sonni tranquilli ai vertici della Lega. Tutto è stato puntato sulla Lombardia, ma nel Veneto si minaccia la rivolta.
«Io non sono così negativo» sulle percentuali, ha comunque concluso Maroni, lasciando via Bellerio.
Sai che gli importa, lui per cinque anni un’occupazione l’ha trovata.
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
SE OGGI BERLUSCONI NON E’ PIU’ PREMIER LO SI DEVE ALLA CORAGGIOSA PATTUGLIA DI FUTURO E LIBERTA’… E DA PARTE DI CHI NON E’ MAI STATO UN SUO FAN E’ GIUSTO IN QUESTO MOMENTO DISTINGUERSI DALLA MUTA DI SCIACALLI E DI INGRATI
C’è chi a destra a Gianfranco Fini deve molto, in termini di affermazione politica e di carriera personale.
Alla sua corte di “miracolati” hanno in passato messo radici personaggi di bassa cucina, ducetti di periferia, colonnelli che amavano guidare le truppe dalle retrovie, ma sempre pronti ad appuntarsi medaglie in caso di vittoria.
Venti anni di militanza nel Msi non sono pochi, tanti congressi combattuti o scontati, mai una volta che ho votato per te o per la tua mozione.
Sono al di sopra di ogni sospetto.
Dall’altra parte, dalla tua parte, ho visto passare una pletora di caporali di giornata: quelli che oggi gioiscono per la tua mancata rielezione in Parlamento.
Personaggi senza dignità e pudore che hai allevato e promosso, pensando che potessero costituire il ricambio generazionale della destra italiana.
Piccoli uomini che dopo aver ricevuto immeritate gratificazioni e prebende oggi fanno a gara a conquistare la prima fila degli aspiranti boia, tuonando volgarità dalle cucine dove pulivano fino a ieri le stoviglie.
Sono coloro che, anche grazie ai tuoi silenzi, hanno portato la destra italiana allo sfascio, che parlano di etica e coltivano solo clientele, che recitano a memoria valori che non applicano mai, che invocano criteri di meritocrazia purchè non si applichino a loro.
Sono quei cortigiani che per troppi anni ti sei tenuto accanto pensando che fossero sinceri, che hai difeso anche qundo erano indifendibili, sacrificando realtà locali a vantaggio dei capibastone.
Fino all’esperienza di Futuro e Libertà , il partito “diverso” che tale non hai saputo rendere, demandando a personaggi sbagliati e atti al compromesso incarichi che avrebbero dovuto essere affidati solo in base al tanto decantato merito.
Fino a disamorarti di questa creatura, a impostare una campagna elettorale spenta, quasi per dovere, in attesa di una rendita minimale che invece non è arrivata.
E’ mancato l’atto di coraggio di fare un passo indietro al momento giusto, subito dopo l’esito della votazione sulla fiducia al governo Berlusconi, affidando il partito ad altri e sottraendolo e sottraendoti alla quotidiana macchina del fango.
Troppi errori seriali, troppa incorenza tra principi enunciati e prassi politica per essere politicamente assolto.
Ma anche un gesto che non si può dimenticare: quel dito alzato contro l’arroganza del potere, contro chi si crede ingiudicabile, contro chi ha reso l’Italia la barzelletta del mondo, contro chi impedisce da venti anni che anche il nostro Paese possa avere una destra moderna, sociale e legalitaria.
Un gesto che rimarrà d’esempio alle giovani generazioni, perchè a destra non devono esistere servi e padroni, principi e sudditi, ma solo una grande comunità umana di persone oneste e pensanti.
Molti oggi dimenticano che senza quel tuo gesto Berlusconi sarebbe ancora ben saldo al suo posto di esecutore testamentario della destra italiana.
Hai pagato, tra tanti tuoi errori, anche quell’atto di coraggio e di dignità .
Che ha impedito, tra l’altro, vale la pena ricordarlo, assassini di profughi inermi e immunità speciali di fronte alla giustizia.
Oggi si chiude un ciclo, anche tuo personale, ma una vera destra sociale non potrà dimenticare e prescindere dal significato di quel dito alzato contro l’arroganza del potere.
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
DEI 90 DEPUTATI DELLA EX AN NE RIMANGONO IN PARLAMENTO UNA VENTINA TRA “FRATELLI ORFANI” E “SORELLE SOLE”
Nel segreto dell’urna un italiano su quattro ha confermato di far finta di credere che Ruby fosse la
nipote la Mubarak: per vedersi restituire 220 euro di media di Imu ne valeva la pena.
D’altronde se in passato sono riusciti in poche settimane a passare dagli applausi sotto Palazzo Venezia a quelli ai soldati americani che lanciavano Camel dalle jeep al popolo “liberato”, non c’è da meravigliarsi.
La capacità di galleggiare ha permesso agli italiani più che di conquistare medaglie olimpiche nel nuoto, di sopravvivere a Prima e Seconda Repubblica.
Un discorso a parte merita una certa destra politica italiana che, sempre in attesa dell’apparizione di una madonna laica da venerare, in essa ripongono poi fideisticamente il proprio grido di battaglia: un volta contro i comunisti, un’altra con i culattoni, una terza contro gli immigrati che portano via i posti di lavoro o la cacca dei cani sui marciapiedi.
Dai tempi del Msi a quelli di An, chiunque abbia cercato di proporre un’analisi diversa, attenta al sociale, ai diritti civili, alla metapolitica, alla geopolitica, all’universo femminile, all’ecologia è stato sempre tacciato di traditore.
Da Beppe Niccolai a Pino Rauti, osteggiati in vita e celebrati per interesse da defunti.
E’ cosi che venti anni fa questa destra ha trovato il vate sdoganatore, dimenticando che era la stessa persona che aveva sovvenzionato la scissione di democrazia nazionale con un assegnino di 100 milioni.
Ma l’entrare a corte, per gente abituata a dormire sulla scrivania del “Secolo d’Italia” e a far asciugare la canottiera sullo stendino, è stato traumatizzante, come chi, costretto a frequentare gli alcolisti anonimi, improvvisamente si trovi a disposizione una cassa di bottiglia di Chivas.
Ma a corte occorre venerare il principe e assecondarne le follie, giustificarne gli affari e i festini, se si vuole conservare il pass a lungo.
E degli ex 90 An presenti in Parlamento da un lato qualcuno alla lunga ha avuto un soprassalto di dignità e ha cominciare ad alzare il dito del riscatto degli schiavi, dall’altro di molti altri soggetti il principe si era annoiato per il loro servilismo e ha espresso il desiderio di rinnovare la scuderia degli olgettini.
Ieri si è consumato l’ultimo atto, di quei 90 sono rimasti meno di venti: fatti fuori i finiani, niente ripescaggio per il partito di Storace, nove appena i seguaci di Nosferatu e Sorella “sola”, una decina i posti riservati in galleria a Gasparri, Alemanno e Matteoli.
Il principe ha chiuso Destraland, il parco dei divertimenti e degli approvigionamneti della destra italiana.
In attesa del loro trasferimento al Museo delle Cere.
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
GRILLO VUOLE VOTARE DI NUOVO NEL GIRO DI SEI MESI….E PD E PDL SI SCAMBIANO I PRIMI SEGNALI
Sanno che, quando la polvere dello scontro elettorale si sarà posata, dovranno fare i conti con l’unica formula che potrebbe garantire oggi la governabilità al Paese.
Sanno che, quando gli slogan pronunciati ai comizi andranno sostituiti dai ragionamenti per le consultazioni al Quirinale, dovranno prendere in esame l’unico scenario parlamentare possibile.
Insomma, Pd e Pdl sanno che per calcolo numerico e politico si troveranno costretti a discutere di Grande coalizione.
È vero che alla vigilia del voto i Democratici consideravano un «suicidio» una simile prospettiva, ma valutavano come un «suicidio» anche un ritorno immediato alle urne. Ed è altrettanto vero che – al pari di Bersani – anche Berlusconi diceva «mai più con i nostri avversari».
Ma il responso delle urne pone i due partiti dinnanzi a una scelta: suicidarsi o assumersi quelle responsabilità che hanno delegato per un anno e mezzo ai tecnici. L’inseguimento dei Cinquestelle per formare una maggioranza in Parlamento è tempo perso, o meglio è un modo di Pd e Pdl per prender tempo, in attesa di far metabolizzare la larga coalizione.
Anche perchè il vero obiettivo di Grillo – che è stato capace di un exploit non riuscito nemmeno a Berlusconi nel ’94 – è proprio quello di tornare al voto «nel giro di sei mesi », per capitalizzare il successo in una nuova tornata elettorale e sbaragliare ciò che resta delle forze nate nella Seconda Repubblica.
Certo, mettere insieme due progetti alternativi è a dir poco complicato, perciò il passaggio si preannuncia drammatico.
E non sarà a costo zero.
L’unica variabile è quella profetizzata alcune settimane fa dal ministro Fabrizio Barca, che in un’intervista al Corriere disse come «senza una maggioranza stabile potrebbe accadere, una volta eletto il capo dello Stato, di tornare alle urne», magari con un cambio della legge elettorale.
Una opzione da mettere in preventivo, dato che il governo Monti non si è formalmente dimesso, e dunque potrebbe andare avanti per il disbrigo degli affari correnti e di una nuova sfida elettorale.
Ma tanto il Pd quanto il Pdl sono consci che in quel caso il «vaffa voto» li sommergerebbe.
Ecco perchè, per calcolo politico e numerico, devono prendere in esame le larghe intese, un’alleanza che vedrebbe il centro montiano ininfluente.
E chissà se il Professore, dinnanzi a una sconfitta senza appello, avrà pensato al ruolo che avrebbe potuto avere adesso se non fosse «salito in politica».
La dèbà¢cle centrista è uno dei risvolti che fanno di Berlusconi un «perdente di successo».
L’emorragia di voti subita nelle urne è stata compensata dalla maggioranza relativa conquistata al Senato, che consente al Cavaliere di sedere al tavolo delle trattative per la formazione del governo e per la scelta del futuro presidente della Repubblica. Bersani farebbe volentieri a meno di una simile intesa, ma se il Pd optasse per le elezioni anticipate, l’attuale leader dei Democrat dovrebbe passar subito la mano, lasciando a Renzi un partito «rottamato» dal risultato.
E con Bersani verrebbe fatta fuori l’intera classe dirigente attuale, che certo non ha interesse a capitolare.
Ecco allora che, dopo le prime dichiarazioni a caldo – tutte incentrate sulla necessità di «tornare a votare » – lo stato maggiore del Pd ha assunto una linea meno intransigente, Enrico Letta ha rettificato il tiro, la Finocchiaro ha spiegato che «serve un governo pienamente politico».
Una posizione certamente condivisa da D’Alema. Non a caso, in modo speculare, dal fronte berlusconiano sono giunti i primi segnali di apertura: «Se nessuna delle coalizioni avrà la maggioranza – ha detto il pdl Palma – andrà trovata una soluzione per garantire la governabilità ».
Persino la Lega con Tosi si predispone all’evenienza, pur prospettando una «opposizione costruttiva » a un eventuale gabinetto di larghe intese.
Condannati a governare, per espiare le colpe commesse ancora nel recente passato, Pd e Pdl sanno che dovrebbero fare le riforme – anche quelle istituzionali – prima di tornare al voto, per evitare il «suicidio».
È una missione (quasi) impossibile, non solo per l’incompatibilità delle ricette economiche ma anche per le difficoltà di comporre il governo: a chi, per esempio, spetterebbe indicare il premier?
Potrebbe rivendicarlo il partito che vincesse alla Camera, ma sarebbe necessaria una figura «terza».
Uno schema che andrà comunque applicato per la corsa al Colle, dove i candidati di «parte» come Prodi perdono terreno.
Perchè il Cavaliere – «perdente di successo» – sarà seduto al tavolo che conta.
Ma lì ci sarà anche il convitato di pietra: Grillo, l’uomo dello tsunami.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
“VUOI VEDERE CHE MI SPETTA LA PRESIDENZA DEL SENATO?”…”NON ABBIAMO ALTERNATIVE, NON SI PUO’ TORNARE SUBITO AL VOTO”
«Vuoi vedere che adesso mi tocca fare il presidente del Senato?» È incredulo, ancor più che
soddisfatto per l’insperato boom.
Silvio Berlusconi non si concede l’ubriacatura promessa ma è incontenibile quando in nottata sono più chiari anche i numeri della Camera, dove il distacco con gli avversari è minimo.
Chiama Alfano, gli ordina di andare davanti le tv a chiedere la riconta, un’altra volta. Sogna il governissimo, un suo uomo al Colle, l’agognato salvacondotto per sè.
Sa bene che il quadro è da caos, da ingovernabilità totale, appesantito dalla tempesta perfetta di oggi, tra borse, cancellerie europee, media internazionali.
Ma è tutto un regalo insperato per lui alla vigilia.
Ecco perchè già da stamattina – nella prima uscita dopo il voto, nella telefonata a Mattino5 con Belpietro – si prepara a lanciare la proposta-choc, quella post voto. «Non abbiamo alternative, non si può tornare alle urne, non subito: ci aspetta un governo di larghe intese col Pd per le riforme, quella elettorale soprattutto, per eleggere il capo dello Stato e poi vedremo» ha preannunciato ai tanti che lo hanno chiamato fino a sera.
Salotto di Villa San Martino, Arcore, interno giorno.
Con lui, solo Nicolò Ghedini e la figlia Marina, raccontano. Pranzo coi figli, grande soddisfazione a urne ancora aperte: «Ho fatto tutto quel che potevo, non ho nulla da rimproverarmi».
Il mezzo trionfo da lì a qualche ora, proprio non l’avevano messo nel conto. Berlusconi va a riposare nel primo pomeriggio, lo fa sempre, quasi come un rito scaramantico, mentre escono i primi, inattendibili instant-pool, poi le prime proiezioni.
Quando torna in contatto col resto del mondo, nel secondo pomeriggio, il dato del Senato è già da terremoto.
È a quel punto – quando da via dell’Umiltà prima Verdini, poi Bonaiuti e infine Alfano gli comunicano il successo al Senato in Lombardia, Calabria, Sicilia, Puglia, poi Veneto, Friuli – che il capo si lascia andare all’unica battuta della giornata: «Vuoi vedere che mi tocca fare la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato?»
Ironica fino a un certo punto, tuttavia.
Ma lì il capo si prepara comunque a dettare le condizioni.
«È chiaro che le carte a questo giro le do io» ripete il Cavaliere ai tanti parlamentari e dirigenti che lo chiamano senza sosta, loro sì, entusiasti.
È lui a calmarli, a frenare: «La linea deve essere quella della cautela, in tutte le dichiarazioni ».
Ma Silvio Berlusconi sa di avere il jolly in tasca, come dirà ai più intimi. «Con la sinistra eleggeremo il nuovo capo dello Stato ma dovrà essere a noi gradito, una figura terza, neutra» è il profilo che inizia a tracciare.
Soprattutto, quel che non dirà mai apertamente, un capo dello Stato che lo tiri finalmente dai guai giudiziari di queste anni, che lo salvi dalla «persecuzione della magistratura » come la chiama lui.
Il leader Pdl sa di non poter ambire al Colle, che Bersani e i suoi non lo eleggerebbero mai, tantomeno i grillini.
Ma il presidente che contribuirà in maniera determinante ad eleggere, ecco, dovrà garantirgli almeno quel “salvacondotto” finora invano inseguito.
Che altra forma non potrebbe avere, al momento, se non quella della carica di senatore a vita.
D’altronde, se la ricopre un leader politico come Monti, è il ragionamento rivelato dai suoi, «non si vedrebbe perchè non possa ricoprirlo lui».
Solo una provocazione la sortita di un’amazzone come la Biancofiore che già azzarda un «Bersani premier e Berlusconi al Colle».
Ma sono troppe le variabili, in questo frullatore ormai impazzito.
Quel che conta, nel fortino di Arcore, è che la rimonta sia stata compiuta, «ed è stata straordinaria: anche in Lombardia, se non fosse stato per me, Maroni e i suoi non andavano lontani» è un altro degli sfoghi del leader Pdl.
Il Carroccio non l’ha aiutato più di tanto, a conti fatti.
Mentre su Monti, Fini e Casini dice invece di aver previsto tutto, «sapevo che era un centrino, senza di loro i moderati sarebbero rimasti uniti e avrebbero vinto contro la sinistra» è il rammarico di fine giornata.
«Ma che soddisfazione con quei Soloni del Ppe che hanno fatto di tutto per far vincere il Professore: il Ppe in Italia sono io».
L’unico punto fermo per Berlusconi è che questo voto non potrà far precipitare il Paese in nuove elezioni.
I suoi, a cominciare dal moderato Maurizio Lupi, si fanno ambasciatori del pensiero del capo e lo mandano a dire a Bersani e ai suoi: «Non si può pensare di tornare alle urne, i democratici siano più responsabili» dice quando da quel fronte iniziano a filtrare i primi annunci di un forfait, piuttosto che tornare al governo col Cavaliere. «Chi credeva di smacchiare il giaguaro deve ricredersi, ma l’avanzata di Grillo è allarmante, rende il quadro estremamente instabile» mette le mani avanti Paolo Bonaiuti.
Come dire, bisogna fare fronte.
Le urne per il momento aprirebbero a un nuovo baratro. Certo che in un nuovo esecutivo di larghe intese Pd-Pdl Berlusconi un suo punto fermo già lo porrebbe.
«La restituzione dell’Imu è un impegno che abbiamo assunto con gli elettori, difficile prescinderne» per dirla con lo stesso portavoce del Cavaliere.
Ma fino a che punto, soprattutto facendo fronte con quali risorse il Pd accetterebbe di rimborsare agli italiani, per giunta entro un mese, i 4 milardi di imposta sulla casa versata nel 2012?
Di questo e tutto altro si comincerà a parlare nelle prossime ore, dopo la proposta di governo per le riforme.
«Intanto siamo felici, storditi da questa vittoria che vuol dire che c’è solo un leader: il nostro Berlusconi, tutto merito suo» racconta una Mariastella Gelmini quasi incredula anche per i risultati nella sua Lombardia
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
DOPO CINQUE ANNI DI BANCAROTTA BERLUSCONIANA, NON ANDANDO A VOTARE SUBITO, I VERTICI PD HANNO DATO RAGIONE A MORETTI: “CON QUESTI DIRIGENTI NON VINCEREMO MAI”
La domanda era: riusciranno i nostri eroi a non vincere le elezioni nemmeno contro un Caimano fallito e bollito?
La risposta è arrivata ieri: ce l’han fatta un’altra volta.
Come diceva Nanni Moretti 11 anni fa, prima di smettere di dirlo e di illudersi del contrario, “con questi dirigenti non vinceremo mai”.
Del resto, a rivedere la storia del ventennio orribile, era impossibile che gli amici del giaguaro smacchiassero il giaguaro.
L’abbiamo scritto fino alla noia: nel novembre 2011, quando B. si dimise fra le urla e gli sputi della gente dopo quattro anni di disastri, era dato al 7%: bastava votare subito, con la memoria fresca del suo fallimento, e gli elettori l’avrebbero spianato, asfaltato, polverizzato.
Invece un’astuta manovra di palazzo coordinata dai geniali Napolitano, Bersani, Casini e Fini, pensò bene di regalarci il governo tecnico e soprattutto di regalare a B. 16 mesi preziosi per far dimenticare il disastro in cui ci aveva cacciati.
Il risultato è quello uscito ieri dalle urne.
Che non è la rimonta di B: è la retromarcia del centrosinistra.
Che pretende di aver vinto con meno voti di quando aveva perso nel 2008.
Il Pdl intanto ha incenerito metà dei voti di cinque anni fa, la Lega idem.
E meno male che c’era Grillo a intercettarli, altrimenti oggi il Caimano salirebbe per la quarta volta al Quirinale per formare il nuovo governo.
Il che la dice lunga sulla demenza di chi colloca M5S all’estrema destra o lo paragona ad Alba Dorata.
Il centrodestra è al minimo storico, sotto il 30%, che però è il massimo del suo minimo: perchè B. s’è alleato con tutto l’alleabile, mentre gli strateghi del Pd con la puzza sotto il naso han buttato fuori Di Pietro e quel che restava di Verdi, Pdci, Prc e hanno schifato Ingroia: altrimenti oggi avrebbero almeno 2 punti e diversi parlamentari in più, forse addirittura la maggioranza al Senato.
Ma credevano di avere già vinto, con lo “squadrone” annunciato da Bersani dopo le primarie: l’ennesima occasione mancata (oggi, col pur discutibile Renzi, sarebbe tutta un’altra storia). Erano troppo occupati a spartirsi le poltrone della nuova gioiosa macchina da guerra per avere il tempo di fare campagna elettorale.
I voti dovevano arrivare da sè, per grazia ricevuta e diritto divino, perchè loro sono i migliori e con gli elettori non parlano.
Qualcuno ricorda una sola proposta chiara e comprensibile di Bersani?
Tutti hanno bene impresse quelle magari sgangherate di Grillo e quelle farlocche di B. (soprattutto la restituzione dell’Imu, tutt’altro che impossibile, anche se pagliaccesca visto che B. l’Imu l’aveva votata).
Di Bersani nessuno ricorda nulla, a parte che voleva smacchiare il giaguaro.
Anche questo l’abbiamo scritto e riscritto: nulla di particolarmente brillante, tant’è che ci era arrivato persino D’Alema.
Ma non c’è stato verso: la campagna elettorale del Pd non è mai cominciata, a parte i gargarismi sulle alleanze con SuperMario (da ieri MiniMario) e i formidabili “moderati” di Casini (tre o quattro in tutto).
Col risultato di uccidere Vendola, mangiarsi l’enorme vantaggio conquistato con le primarie e regalare altri voti a Grillo, non bastando l’emorragia degli ultimi anni.
Ora è ridicolo prendersela col Porcellum (peraltro gelosamente conservato): chi, dopo 5 anni di bancarotta berlusconiana, non riesce a convincere più di un terzo degli elettori non può pretendere di governare contro gli altri due terzi.
Anzi, dovrebbe dimettersi seduta stante per manifesta incapacità , ponendo fine al lungo fallimento di un’intera generazione: quella degli ex comunisti che non ne hanno mai azzeccata una.
Ma dalle reazioni fischiettanti di ieri sera non pare questa l’intenzione: tutti resteranno al loro posto e, lungi dallo smacchiare il giaguaro, proveranno ad allearsi col giaguaro in una bella ammucchiata per smacchiare il Grillo e soprattutto evitare altre elezioni.
Auguri.
Quos Deus vult perdere, dementat prius.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
I RIPESCAGGI SALVANO LA RUSSA E MELONI, TABACCI E DONADI
È lunghissima la fila degli esclusi dal Parlamento. 
Innanzitutto il presidente della Camera uscente, Gianfranco Fini, che si era presentato con il Fli che è molto lontano dalla soglia minima del 2%, necessaria ad ottenere dei seggi per i partiti facenti parte di una coalizione: a spoglio praticamente concluso ha ottenuto lo 0,46%, con circa 160.000 voti.
Non sarà possibile il recupero come miglior perdente sotto alla soglia di sbarramento perchè nello stesso raggruppamento l’Udc ha ottenuto per la Camera solo l’1,78% .
A far compagnia a Fini anche Italo Bocchino e Giulia Bongiorno.
Fuori anche Francesco Storace (La Destra) e soprattutto Raffaele Lombardo (Movimento per le Autonomie)
I «RIPESCAGGI» –
In attesa della conferma del repàªchage, però, rimangono lontani dal Parlamento, tra gli altri, i capolista Paola Binetti, Lorenzo Cesa , Rocco Buttiglione e l’ex ministro dell’agricoltura Mario Catania, oltre a Giuseppe De Mita , Ferdinando Adornato e Marco Calgaro.
Usufruiscono della clausola del «miglior perdente» anche i Fratelli d’Italia (1,95%, terzo partito della coalizione), quindi Giorgia Meloni e Ignazio La Russa rientrano: in Lazio il partito è al 2,59, oltre la soglia.
Idem, nel centrosinistra, per il Centro Democratico, in termini numerici l’ago della bilancia con lo 0,49% (oltre 167 mila voti, più del divario con il centrodestra): beneficiano degli ultimi sei seggi Bruno Tabacci e Massimo Donadi.
ESCLUSI –
Fuori, invece, La Destra, il Mir di Gianpiero Samorì e Gianfranco Miccichè del Grande Sud (che però trova l’exploit al Senato di Gianni Bilardi, eletto in Calabria).
Fuori dai giochi anche Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, che presentandosi da sola doveva alla Camera doveva raggiunge il 4% ma si è fermata al 2,24%: esclusi, quindi, oltre allo stesso Ingroia, Antonio Di Pietro, l’ex grillino Giovanni Favia e Ilaria Cucchi.
Non entra in Parlamento nemmeno la Lista amnistia, giustizia e libertà : restano fuori Giacinto Pannella ed Emma Bonino.
IL SENATO SALVA CASINI E TREMONTI –
Passando al Senato, si salva nell’Udc Pierferdinando Casini, capolista in ben 5 regioni con Scelta Civica: il gruppo montiano infatti raccoglie 18 seggi.
In ben 5 regioni il raggruppamento che fa capo al presidente del Consiglio uscente non supera lo sbarramento dell’8%: in Lazio, in Abruzzo, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna (dove il «trombato» eccellente è il giornalista Mario Sechi).
Si salva anche Giulio Tremonti, capolista quasi ovunque con la Lega (che passa solo in Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige e Veneto).
Sel entra in Senato soltanto in due regioni superando il 4% necessario ai partiti facenti parte di coalizioni, Puglia in casa di Vendola e in Basilicata, ma fa parte della coalizione vincitrice solo nella seconda di queste regioni.
Tra i candidati esclusi, in Toscana fuori l’ex allenatore Renzo Ulivieri.
CONCIA E RAZZI –
Non entra in Senato la candidata del Pd Anna Paola Concia: la coalizione di centrosinistra riesce a far eleggere soltanto Stefania Pezzopane.
Concia, su Twitter, si è sfogata con due messaggi amari: «Entra Razzi non io… Mi dispiace per gli abruzzesi», e «Gli abruzzesi hanno preferito Razzi a me… Questa è la democrazia e la volontà del popolo», riferendosi ad Antonio Razzi, quarto in lista per il Pdl, l’ex Idv che raccontava di meritarsi il voto avendo organizzato tornei di tennis.
IL CASO GIANNINO –
Fuori da entrambe le Camere, dopo il clamoroso autogol di Oscar Giannino, i candidati di Fare per fermare il Declino.
In cinque giorni le liste del nuovo presidente Silvia Enrico hanno perso ogni possibilità . Fare, al Senato, si è fermato allo 0,9% e all’1,12 alla Camera.
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
DIMEZZATA OVUNQUE, IN VENETO SCENDE DAL 35,15% ALL’11%, IN PIEMONTE DALL’11,6% AL 5%, IN LIGURIA E’ AL 2%… TOSI ATTACCA: “ABBIAMO PAGATO L’ALLEANZA CON BERLUSCONI”…I BOSSIANI VENETI CHIEDONO UN CONGRESSO…MARONI DATO IN VANTAGGIO DEL 3% MA IL VOTO DISGIUNTO PUO’ FARGLI MALE
Il verdetto decisivo per il Carroccio sarà quello delle regionali in Lombardia. E, su questo, i segnali che arrivano a Roberto Maroni dallo spoglio delle politiche sembrano incoraggianti. Anche gl instant poll gli danno tre punti di vantaggio.
I risultati per Camera e Senato, invece, no: in termini percentuali stanno dimezzando il ruolo della Lega in ambito nazionale – dall’8,6 per cento del 2008 – ma anche in regioni chiave come Piemonte e Veneto, dove potrebbe essere chiesto a breve un nuovo congresso della Liga.
E’ così che nell’altalena di instant poll e proiezioni, in via Bellerio si festeggia un risultato migliore delle previsioni ma solo in chiave di coalizione con il Pdl.
“C’è stata una affermazione del centrodestra che non era attesa dai sondaggisti, come non era previsto il calo del centrosinistra”, è stata l’analisi asciutta di Giacomo Stucchi, il vicesegretario federale della Lega mandato in sala stampa a fare la prima dichiarazione ufficiale.
“Questa affermazione del centrodestra è un risultato importante in regioni che erano date per perse per quel che riguarda il Senato – ha aggiunto – Poi c’è stato il flop della Lista Monti: i cittadini hanno dimostrato di preferire chi è più pragmatico e non chi ha avuto un atteggiamento vessatorio”.
Dunque, è la conclusione del vicesegretario leghista, “Lega e centrodestra tengono e ciò fa ben sperare per lo scrutinio” della Regione Lombardia. “E siamo fiduciosi”.
Dal Veneto sono arrivate parole meno diplomatiche.
Lo scrutinio del Senato indica la Lega attorno all’11 per cento: alle politiche del 2008 era al 27,1, arrivando al 35,15 delle regionali del 2010.
“Dal punto di vista delle politiche – ha detto il sindaco di Verona, Flavio Tosi, segretario della Liga Veneta – l’alleanza con Silvio Berlusconi l’abbiamo pagata”. Adesso, è il suo ragionamento, bisogna capire se questo pegno porterà al Carroccio una contropartita, che è ovviamente la vittoria di Maroni in Regione Lombardia.
”’E’ chiaro – ha aggiunto il sindaco in diretta al Tg3 – che se questa alleanza ci consentirà di governare in Lombardia con Maroni sarà valsa la pena, alla luce di questo risultato strategico”.
E’ sottinteso che viceversa la lettura del risultato elettorale sarà completamente diversa.
“Qualora ci fosse un calo elettorale – ha invece sostenuto il governatore Luca Zaia – le motivazioni non vanno scaricate in capo a terzi o in capo peggio ancora al cittadino nella migliore tradizione della politica italiana. Ma sono da cercare quando avremo un risultato finale che ci permetterà di fare una lettura della Lega in Veneto rispetto anche alle altre regioni: tireremo le conclusioni, analizzando fino in fondo i motivi del risultato ed eventuali responsabilita”.
Più affilato il commento di Massimo Bitonci, che sfidò Tosi per la segreteria veneta: “Il dato per la Lega è molto negativo, inutile fare giri di parole. Si apre una riflessione. E se i militanti lo vorranno, sono favorevole a un nuovo congresso”.
Sul fronte del Piemonte, infine, lo scrutinio del Senato proietta la Lega a poco più del 5 per cento dei consensi, contro il 12,6 raccolto alle ultime politiche.
“Abbiamo fatto una scelta giusta, abbiamo deciso di fare un investimento su un progetto politico – ha però detto il governatore Roberto Cota – alla luce di quello che probabilmente accadrà in Regione Lombardia con la vittoria di Maroni”.
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 26th, 2013 Riccardo Fucile
EXPLOIT DI GRILLO, ALFANO SCONFITTO CHIEDE VERIFICA DEI VOTI
L’Italia che esce dalle urne è un’Italia-puzzle, estremamente frammentata, dove le due principali
coalizioni si ritrovano praticamente appaiate, con una leggera prevalenza del centrosinistra (31,6% contro 30,65% al Senato), ma dove il vero vincitore è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che realizza un exploit senza precedenti riuscendo a raccogliere il 23,7% al Senato e il 25,54% alla Camera, risultato questo che ne fa il primo partito a Montecitorio, seppure solo per una manciata di voti rispetto al Pd.
Il quale riesce a sua volta a conquistare il premio di maggioranza solo grazie all’alleanza con Sel (deludente il risultato del partito di Vendola, 3,2%, ma la coalizione comprendente anche il Centro democratico e l’Svp arriva al 29,55%) e ad un misero 0,4% in più, comunque sufficiente per tenere a bada il blocco Pdl-Lega e loro alleati.
SENZA MAGGIORANZA –
Ma se il voto per la Camera si chiude con una maggioranza certa – grazie al meccanismo che assegna un pacchetto di seggi extra alla coalizione vincente – quello per il Senato si riassume in un’unica parola: ingovernabilità .
Nessuna combinazione «soft» – vale a dire Pd-Sel+Monti o Pdl-Lega+Monti – è in grado di arrivare a quella «quota 158» che significa maggioranza assoluta e di conseguenza possibilità di nascita e sopravvivenza di un governo.
E alle combinazioni «hard» – da un’improbabile alleanza dell’uno o dell’altro polo con i 5 Stelle alla riedizione della «strana maggioranza» che ha sostenuto il governo tecnico – i leader dicono ora di non credere.
Ancora troppo fresche le ferite di una campagna elettorale senza esclusione di colpi in cui tutti hanno detto tutto di tutti e durante la quale i tre ex alleati – Monti, Bersani e Berlusconi – se le sono date di santa ragione.
Eppure, alla fine, su questa prospettiva si dovrà pure provare a ragionare.
«È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese – ha dichiarato in una nota il segretario del Pd, Pierluigi Bersani -. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia».
Nel pomeriggio il vice di Bersani, Enrico Letta, aveva evocato il ritorno immediato alle urne, ma poi in serata aveva corretto il tiro.
«TOO CLOSE TO CALL» –
Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, che lunedì pomeriggio aveva precipitosamente dichiarato che il centrodestra era maggioranza relativa al Senato (i dati sono poi progressivamente cambiati con il procedere dello spoglio), attorno alla mezzanotte ha diffuso una nota sottolineando che i dati del Viminale «sono solo ufficiosi» e «soggetti inevitabilmente ad un margine di errore» «certamente superiore allo scarto dei voti, davvero minimo, che si registra tra le prime due coalizioni della Camera».
E ha chiesto al ministero di dichiarare il «too close to call», come avviene negli Usa: scarto troppo ridotto per proclamare un vincitore.
GRILLO: «NIENTE INCIUCI» –
I grillini vengono ora tirati per la giacchetta e chiamati ad assumersi le responsabilità istituzionali che derivano dall’avere raccolto il consenso di un elettore su quattro.
Ma Beppe Grillo, nel videomessaggio diffuso quando il quadro era ormai sufficiente chiaro, ha già smontato questa prospettiva: «Non faremo inciuci, in Parlamento daremo scappellotti a tutti».
Il suo popolo ha iniziato a fare festa, alle scelte da compiere in aula si penserà a tempo debito.
DELUSIONE MONTI –
Deludente il risultato del blocco centrista che fa capo al premier Mario Monti
Il Professore si è detto personalmente soddisfatto («in 50 giorni abbiamo raccolto oltre 3 milioni di elettori»), ma i suoi alleati Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini hanno raccolto consensi irrisori (rispettivamente l’1,79 e lo 0,76% alla Camera). Percentuale bassissima anche per Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia che resta poco sopra il 2% e quindi non entrerà in Parlamento, non raggiungendo il quorum del 4%.
Dalle aule parlamentari scompare dunque anche uno dei volti che hanno animato il dibattito negli ultimi anni, quello di Antonio Di Pietro.
Del risultato negativo Ingroia dà la colpa al Pd: «Faccia mea culpa, è sua la responsabilità del mancato accordo, ha fatto campagna contro di noi».
(da “il Corriere della Sera”)
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