PAESE INGOVERNABILE: IL CENTROSINISTRA VINCE DI POCO A MONTECITORIO E CONQUISTA IL PREMIO DI MAGGIORANZA MA AL SENATO HA SOLO QUELLA RELATIVA
EXPLOIT DI GRILLO, ALFANO SCONFITTO CHIEDE VERIFICA DEI VOTI
L’Italia che esce dalle urne è un’Italia-puzzle, estremamente frammentata, dove le due principali coalizioni si ritrovano praticamente appaiate, con una leggera prevalenza del centrosinistra (31,6% contro 30,65% al Senato), ma dove il vero vincitore è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che realizza un exploit senza precedenti riuscendo a raccogliere il 23,7% al Senato e il 25,54% alla Camera, risultato questo che ne fa il primo partito a Montecitorio, seppure solo per una manciata di voti rispetto al Pd.
Il quale riesce a sua volta a conquistare il premio di maggioranza solo grazie all’alleanza con Sel (deludente il risultato del partito di Vendola, 3,2%, ma la coalizione comprendente anche il Centro democratico e l’Svp arriva al 29,55%) e ad un misero 0,4% in più, comunque sufficiente per tenere a bada il blocco Pdl-Lega e loro alleati.
SENZA MAGGIORANZA –
Ma se il voto per la Camera si chiude con una maggioranza certa – grazie al meccanismo che assegna un pacchetto di seggi extra alla coalizione vincente – quello per il Senato si riassume in un’unica parola: ingovernabilità .
Nessuna combinazione «soft» – vale a dire Pd-Sel+Monti o Pdl-Lega+Monti – è in grado di arrivare a quella «quota 158» che significa maggioranza assoluta e di conseguenza possibilità di nascita e sopravvivenza di un governo.
E alle combinazioni «hard» – da un’improbabile alleanza dell’uno o dell’altro polo con i 5 Stelle alla riedizione della «strana maggioranza» che ha sostenuto il governo tecnico – i leader dicono ora di non credere.
Ancora troppo fresche le ferite di una campagna elettorale senza esclusione di colpi in cui tutti hanno detto tutto di tutti e durante la quale i tre ex alleati – Monti, Bersani e Berlusconi – se le sono date di santa ragione.
Eppure, alla fine, su questa prospettiva si dovrà pure provare a ragionare.
«È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il Paese – ha dichiarato in una nota il segretario del Pd, Pierluigi Bersani -. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia».
Nel pomeriggio il vice di Bersani, Enrico Letta, aveva evocato il ritorno immediato alle urne, ma poi in serata aveva corretto il tiro.
«TOO CLOSE TO CALL» –
Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, che lunedì pomeriggio aveva precipitosamente dichiarato che il centrodestra era maggioranza relativa al Senato (i dati sono poi progressivamente cambiati con il procedere dello spoglio), attorno alla mezzanotte ha diffuso una nota sottolineando che i dati del Viminale «sono solo ufficiosi» e «soggetti inevitabilmente ad un margine di errore» «certamente superiore allo scarto dei voti, davvero minimo, che si registra tra le prime due coalizioni della Camera».
E ha chiesto al ministero di dichiarare il «too close to call», come avviene negli Usa: scarto troppo ridotto per proclamare un vincitore.
GRILLO: «NIENTE INCIUCI» –
I grillini vengono ora tirati per la giacchetta e chiamati ad assumersi le responsabilità istituzionali che derivano dall’avere raccolto il consenso di un elettore su quattro.
Ma Beppe Grillo, nel videomessaggio diffuso quando il quadro era ormai sufficiente chiaro, ha già smontato questa prospettiva: «Non faremo inciuci, in Parlamento daremo scappellotti a tutti».
Il suo popolo ha iniziato a fare festa, alle scelte da compiere in aula si penserà a tempo debito.
DELUSIONE MONTI –
Deludente il risultato del blocco centrista che fa capo al premier Mario Monti
Il Professore si è detto personalmente soddisfatto («in 50 giorni abbiamo raccolto oltre 3 milioni di elettori»), ma i suoi alleati Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini hanno raccolto consensi irrisori (rispettivamente l’1,79 e lo 0,76% alla Camera). Percentuale bassissima anche per Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia che resta poco sopra il 2% e quindi non entrerà in Parlamento, non raggiungendo il quorum del 4%.
Dalle aule parlamentari scompare dunque anche uno dei volti che hanno animato il dibattito negli ultimi anni, quello di Antonio Di Pietro.
Del risultato negativo Ingroia dà la colpa al Pd: «Faccia mea culpa, è sua la responsabilità del mancato accordo, ha fatto campagna contro di noi».
(da “il Corriere della Sera”)
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