Aprile 23rd, 2013 Riccardo Fucile
LA STRATEGIA DI ORFINI, CONTRARIA LA VECCHIA GUARDIA
Seduto su un divanetto nel Transatlantico di Montecitorio, verso le otto di sera, uno dei leader dei Giovani turchi, Andrea Orlando, spiega: «Noi lo diciamo ufficialmente: se governo politico deve essere, allora chi meglio di Matteo Renzi a guidarlo? In questo modo il nostro partito tiene e sfidiamo apertamente Grillo e Berlusconi. Se diranno di no, problemi loro».
Il «governatore» della Liguria Claudio Burlando che siede accanto a Orlando annuisce con la testa e osserva: «A Berlusconi sarà difficile dire di no».
Qualche ora prima Matteo Orfini e Renzi hanno un abboccamento.
E in serata il primo farà un’uscita pubblica a favore del sindaco, a Piazza Pulita, su La7. Chiarisce Orfini: «In un momento come questo il Partito democratico deve assumersi la responsabilità politica e prendere un’iniziativa per sbloccare la situazione: per questo candidiamo Renzi alla presidenza del Consiglio».
Il sindaco di Firenze sa che sta giocando la partita della vita, che potrebbe bruciarsi.
Ma come dice il renziano Michele Anzaldi, «mai come in questo momento lui è popolare. Popolarissimo».
Sfrutterà questo fattore, il primo cittadino del capoluogo toscano, il quale è convinto che in questo modo si «possa contendere l’elettorato al centrodestra».
Ma Giorgio Napolitano potrebbe mai intraprendere questa strada?
Sarebbe per lui una garanzia che il Partito democratico fa sul serio, che non ha più voglia di dividersi e di riversare le proprie dinamiche congressuali sulle vicende politiche italiane, come è accaduto per le votazioni del presidente della Repubblica.
E, del resto, il nome del sindaco di Firenze era già uscito nelle precedenti consultazioni, quelle che si sono concluse con la decisione di Giorgio Napolitano di affidare la pratica ai «saggi». Certo, qualcuno se ne dovrà fare una ragione.
Rosy Bindi, per esempio, che ancora l’altro ieri tentava di bloccare la strada di Enrico Letta e che con il sindaco di Firenze, notoriamente, ha più di un problema.
E poi il Pd, come spiega Stefano Fassina, «non può reggere Giuliano Amato, nè il vicesegretario Letta».
Un ragionamento analogo a quello che fa Orfini prima ancora di aver parlato con Renzi e definito con il sindaco rottamatore la linea da seguire per sancire una volta per tutte il ricambio generazionale nel Partito democratico: «Amato non esiste, non è che noi votiamo un premier e un governo qualsiasi. Il nostro sarà un sì a determinate condizioni. E comunque sappiate che noi abbiamo in serbo il piano B».
Il piano B è quello che in realtà il sindaco di Firenze accarezza da qualche tempo.
Le trattative tra Renzi e i Giovani turchi vanno avanti non da ora. Ma è difficile che la candidatura del primo cittadino del capoluogo toscano passi in modo del tutto indolore.
«Anche se io ritengo – sottolinea Burlando – che la maggior parte dei nostri dirigenti dovrebbero offrirgli il loro appoggio. In questo modo il partito può riprendere il cammino».
Già , i mal di pancia di Bindi, Franco Marini e Beppe Fioroni, tanto per fare tre nomi di esponenti del Pd che hanno con Renzi un difficile rapporto, sono dati per scontati.
Però come farà Enrico Letta a dire di no all’uomo più popolare del Pd?
E Dario Franceschini già da giorni va candidando il sindaco.
L’operazione è appena avviata, per questo Renzi ufficialmente nega che questa «sia un’ipotesi in campo».
Ma i Giovani turchi gli tirano la volata. E aspettano di vedere quello che succederà oggi in Direzione e come risponderà l’uomo del Colle.
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 23rd, 2013 Riccardo Fucile
TRA I PAPABILI MINISTRI SACCOMANNI, CANCELLIERI, BOCCIA, FASSINA, GELMINI E QUAGLIARIELLO
Il governo Napolitano-Berlusconi con la faccia dell’ex craxiano Giuliano Amato nasce da una “lezione
di politica e matematica figlia della grande storia amendoliana”. A Fabrizio Cicchitto brillano gli occhi nel cortile di Montecitorio.
A lui, come a tantissimi altri parlamentari del Pdl. “Giorgio uno di noi”, il refrain del Pdl.
L’ex socialista Cicchitto, falco del Pdl, non a caso cita Giorgio Amendola, leader della destra del Pci, maestro di “Re Giorgio” e padre putativo dei miglioristi, sempre sconfitti nel vecchio Partito: “Napolitano si è levato sassolini dalla scarpa a partire dal ’63-’64, ha fatto a pezzi tutti, da Ingrao a Berlinguer”.
Origina da lì, dall’eterno pragmatismo togliattiano, l’imposizione urbi et orbi delle larghe intese alias inciucio.
Napolitano, per dirla con alcuni senatori del Pd, entusiasti, ha fatto un triplo discorso della Corona: “Da presidente della Repubblica, da presidente del Consiglio, da segretario del Partito”.
Prendere o lasciare.
Aggiunge un altro democrat: “A un certo punto ho pensato che indicasse pure la lista dei ministri per poi farci votare la fiducia”.
La casella più in alto della lista, quella riservata al premier, ha solo un volto nella testa e nel cuore del quasi ottantottenne capo dello Stato: Giuliano Amato, emblema della Casta con la nota superpensione da 31mila euro al mese, unico vero ostacolo per farlo digerire al Pd devastato.
I due, “Giorgio” e “Giuliano”, si sono anche sentiti per telefono ieri.
Scambio di opinioni e anche altro, forse.
Conferma un probabile ministro del Pd, a microfoni spenti: “Amato ha il 70 per cento di probabilità di fare il premier”.
Ma nelle ultime ore sagono le quotazioni di Matteo Renzi.
La verità , come dice sempre Cicchitto è che “le danze si aprono solo adesso”.
In ogni caso, per Napolitano, l’eventuale incarico ad Amato entro giovedì ha anche una chiave sul lungo periodo: il premier del nuovo inciucio potrebbe essere il successore del capo dello Stato tra due anni, quando “Re Giorgio” compiuti 90 anni si dimetterà in virtù di quello che qualcuno chiama il “lodo Ratzinger”.
Dietro Amato, che ieri si è scagliato contro la Rete, “50mila persone che la usano non sono il popolo”, spuntano altri nomi per la poltrona di premier.
Politici e tecnici.
Per i primi: Matteo Renzi, se non altro per sparigliare il gioco imposto da Napolitano, in quanto “commissario del Partito”; il vice di Bersani Enrico Letta, futuro reggente del Pd; persino Massimo D’Alema.
Per i secondi: Anna Maria Cancellieri, il sociologo Giuseppe De Rita, il redivivo Corrado Passera.
A queste soluzione va infine aggiunta l’ipotesi istituzionale, con il solito Piero Grasso, presidente del Senato.
Se a presiedere il consiglio dei ministri sarà Amato, oggi figura collocata tra le riserve della Repubblica, toccherà ai vice-premier dare sostanza e solidità politica all’esecutivo.
Il ticket più quotato mette insieme due quarantenni: il già citato Letta, peraltro nipote di Gianni gran ciambellano berlusconiano, ed Angelino Alfano.
Il loro impegno rappresenterebbe ai massimi livelli il connubio Pd-Pdl. Anche per questo non è scontato.
Per esempio, nel Pdl, sono forti le ambizioni di Renato Schifani: prenderebbe volentieri il posto riservato in teoria ad Alfano.
La delegazione berlusconiana dovrebbe essere nutrita.
Il Cavaliere ha fatto sapere che vuole un “risarcimento consistente” per le dimissioni date nel novembre di due anni.
Il criterio dovrebbe essere quello di pescare tra “i ministri di quell’esecutivo”, tipo Mariastella Gelmini all’Istruzione. Gaetano Quagliariello, sempre del Pdl, potrebbe invece entrare in quota “saggi”.
Come lui anche il pd Luciano Violante (alla Giustizia), il montiano Mario Mauro e il leghista Giancarlo Giorgetti (ma per il Carroccio bisogna tenere conto del veto già posto su Amato).
Le sorprese più clamorose potrebbero arrivare dalla partecipazione democratica.
Per sedare la guerra interna, si sta pensando a prestigiosi esponenti che non siedono più in Parlamento.
I primi due sono D’Alema e Walter Veltroni. Ma c’è anche Pierluigi Castagnetti.
Per i dicasteri economici sarebbero in corsa il lettiano Francesco Boccia e l’ex dg di Confindustria Giampaolo Galli, oggi deputato del Pd.
Una casella sarebbe poi pronta per il neo-laburista Stefano Fassina, responsabile economia del Pd, dimissionario con tutta la segreteria Bersani.
Ai renziani due ministeri, in ossequio agli equilibri interni: Sergio Chiamparino e Graziano Delrio.
A differenza del compromesso storico, che aveva solo due protagonisti, Dc e Pci, il governo di salvezza nazionale Napolitano-Berlusconi-Amato vedrà sicuramente l’ingresso di una terza forza: i centristi di Scelta Civica, il polo moderato messo su Mario Monti, attuale premier.
Il Professore potrebbe traslocare agli Esteri, mentre la Cancellieri rimarrebbe all’Interno.
Conferma scontata pure per Enzo Moavero Milanesi.
Il parco tecnici avrebbe però la sua punta di diamante in Fabrizio Saccomanni, dg di Bankitalia, seguito dallo scienziato Mauro Ferrari e dai saggi Pitruzzella Giovannini. Il totoministri entra nel vivo: oggi le consultazioni e lunedì, massimo martedì la fiducia in Parlamento.
Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 23rd, 2013 Riccardo Fucile
FIORONI SI SPELLA LE MANI, BERLUSCONI DIRIGE L’ORCHESTRA E CITA PICO DELLA “MIRANDA”
Quando gli ha detto che sono imperdonabili, versione appena più soft di impresentabili, un lungo battimani, delle decine con cui hanno accompagnato le parole del presidente, ha nuovamente scosso cravatte e gonnelle.
Beppe Fioroni, deputato dichiaratamente sadomaso, si è ustionato le dita per la forza impressa al clap clap.
Il più bello spettacolo del mondo, e da sinistra come da destra finalmente un coro unanime, un tributo condiviso, una scena di gioia e non di dolore, di solidarietà e non di divisione.
Malgrado il cerone nelle dosi identiche del secolo scorso, Silvio Berlusconi è parso ringiovanito di vent’anni e col dito del maestro d’orchestra ha musicato le parole di Napolitano.
Seguiva il discorso con il trasporto di una canzone dell’amato Trenet, col cuore in gola, l’indice ondeggiante e gli occhi lucidi: “Le mie ragazze mi hanno salutato cantando Meno male che Silvio c’è. Ho detto loro di cambiare nome: Meno male che Giorgio c’è”.
Entusiasta, commovente.
Non si è risparmiato con i ritratti della memoria: “Francamente, neanche Pico della Miranda sarebbe riuscito a formare un governo senza i voti necessari”.
Francamente si chiamava Mirandola, ma è stata l’emozione.
Quasi come quella di Dario Franceschini che ieri l’altro se l’è vista brutta al ristorante per via di un incrocio teppistico e oggi ha respirato: “Un gigante, è un gigante”.
In effetti la prescrizione alle larghe intese ha trovato un seguito immediato.
Ecco Latorre con Fitto, laggiù a destra, appena usciti dall’aula, a verificare l’accordo.
Magnifico Latorre: “Sono vent’anni che inciuciamo”.
E magnifico, c’è da dirlo? Silvio, di nuovo ganzo, sorridente, pronto a fare già ora un pensierino a ciò che avverrà da qui a due anni: la successione al Quirinale.
Re Giorgio è stato chiaro: finchè le forze mi sorreggeranno.
Quando taglierà il traguardo dei novanta, cioè tra pochissimo, potrebbe trovare un ragazzo di nemmeno ottanta a sostenere lo sforzo di unire il Paese.
Per unirlo serve un governo e nuovi orizzonti, nuove parole: “Basta inciucio, chiamiamola collaborazione”.
E d’un tratto, sotto il gazebo, la prima indiscutibile prova collaborativa: la portavoce pro tempore di Bersani, la carina Alessandra Moretti un po’ sciupata nell’umore per via delle brutte giornate che l’hanno vista protagonista, verifica, in un vertice con Daniela Santanchè, portabandiera dell’altra parte, i primi caratteri di un lavoro comune, solidale, costruttivo.
“Noi siamo un po’ diversi da loro”, dice la Bindi, acciaccata dagli eventi e persa nei suoi brutti pensieri.
Non sembrerebbe, volendo essere pignoli, che l’impressione sia quella giusta.
C’è Formisano, un ex dipietrista passato alla nuova stagione, che ascoltando e valutando ritiene inesorabile il superlativo: “È un gigante e di più”.
Col papagno, quel senso triste che segue alla pennica, l’umore fragile di Pier Luigi Bersani.
Si accomiata sibilando: “Discorso davvero eccezionale”.
Non è vispo come quell’altro, che infatti si intrattiene con Barbara D’Urso, fa la fila dei tg, allunga il passo da uno studio all’altro.
Corteo di cronisti sorridenti e disponibili, corteo di amazzoni felicissime.
Dorina Bianchi: “Embè?”. La filiforme Ravetto: “Senza di lui dove saremmo?”.
Non sarebbe di sicuro in Parlamento la sua badante, l’onorevole Maria Rosaria Rossi che cura l’agenda del cuore e in questi ultimi giorni è stata vista anche in compagnia di Dudù, la cagnolina di Francesca Pascale, fidanzatina del Capo.
Che spettacolo, e quanti sorrisi, e che bello vederli finalmente liberi di assecondare il senso per le Istituzioni.
“Faremo un governo”, dice il leghista Bonanno.
Figurarsi, Quagliariello è già ministro, anche Violante forse.
Più preoccupata la pattuglia dei fedeli a Enrico Letta.
Si dice che non possa raggiungere lo scranno da premier, forse sarà solo ministro. Vedremo. Comunque è una giornata molto diversa questa, e non solo e non tanto perchè c’è la fanfara e i commessi in grande uniforme e le freccie tricolori.
Ma perchè si vede una via d’uscita: “per il bene del Paese dovremo fare un governo”.
“O con i cinquestelle oppure io non ci sto”, dichiara Matteo Orfini, uno dei pochi che non gradisce.
Ma non ha capito niente, “Napolitano è il più giovane tra di noi”, assicura Casini.
Altro che grillini! In effetti spaesati, fuori sincrono.
Oggi riunione in streaming per decidere l’espulsione del deputato Mastrangeli, incolpato di bulimismo televisivo.
È un processo ma sembra qualcosa di più vicino a Uomini & donne, il talk dei cuori solitari. “Ma ti sembra, ma siamo in Corea del nord?”, dice un cittadino a una cittadina.
Stridono con la realtà e con il gusto vero della vita.
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 23rd, 2013 Riccardo Fucile
L’IPOCRISIA DEL PARLAMENTO: LEADER E PEONES SEMBRANO IGNORARE LE ACCUSE CHE LI RIGUARDANO
«Siete stati sordi». E loro applaudono. «Inconcludenti». E si spellano le mani. «Irresponsabili». E
vanno in delirio.
Pare quasi una seduta di autocoscienza psichiatrica quella d’insediamento di Giorgio Napolitano.
Passata la sbronza correntizia finita in rissa, proprio quelli che hanno fatto arrabbiare il nonno saggio non si accontentano di ascoltare la ramanzina in silenzio.
A capo chino.
Ma accolgono ogni ceffone in faccia, guancia destra e guancia sinistra, come se fosse rivolto ad altri. Chi? Altri. Ma quali altri? Boh… Mai e poi mai a loro.
«Ci ha fatto un mazzo a quadretti e come grandi elettori ce lo meritavamo», riconoscerà con onesto imbarazzo il governatore ligure Claudio Burlando: «Ci ha detto che siamo stati a trastullarci di votazione in votazione anzichè trovare un’intesa nell’interesse del Paese. Tanto più in un momento che per il Paese è drammatico».
«La cosa divertente è che ho visto battergli le mani», ride Felice Casson, «colleghi che nei giorni scorsi hanno fatto l’esatto contrario di quello che il Presidente ci raccomanda».
«E che domani hanno intenzione di restare esattamente inchiodati là dove stavano ieri», rincara Claudio Bressa.
Ugo Sposetti invita a non chiamare «Anonima Sicari» i franchi tiratori: «In passato hanno consentito di bocciare alcune candidature sbagliate per far passare uomini come Sandro Pertini o Oscar Luigi Scalfaro».
A proposito, ha votato per Marini e poi per Prodi? «Il voto è segreto, lo dice la Costituzione». Ma se il partito aveva deciso… «Come: per alzata di mano?»
Il senatore democratico Andrea Marcucci lo rivendica: «Dopo le campagne diffamatorie degli ultimi giorni oggi riaffermiamo l’orgoglio di aver votato Napolitano e non gli altri candidati in gara».
Manco il tempo di sfollare verso le uscite ed ecco «il giovane turco» Matteo Orfini interpretare già a modo suo il monito del presidente: «Un discorso perfetto, ineccepibile che chiede un’assunzione di responsabilità da parte di tutti per un accordo comune di governo». Però…
Però «è importante che il sostegno arrivi da parte delle tre principali forze politiche. Se non c’è il MoVimento 5 Stelle cambia tutto e io sono contrario a un patto politico tra Pd e Pdl».
Quindi? «Il voto di fiducia è un voto di coscienza, non c’è disciplina di partito… Se sono contrario voto contro».
Poco più in là il deputato grillino Giorgio Girgis Sorial butta lì: «L’ultima volta che ho sentito un discorso così era quando in Egitto si è insediato Morsi».
Avrebbe potuto scommetterci prima ancora di scendere sotto la pioggia dal Quirinale verso Montecitorio, Napolitano, di essere destinato a ricevere inchini e baciamano, elogi e salamelecchi, senza però riuscire a scalfire la scorza di tanti.
Troppo duro, lo scontro dei giorni scorsi. Troppo profonde le fratture. Troppo calloso l’odio personale che ormai divide le diverse fazioni dello stesso Pd. L’aveva messo in conto.
Come aveva messo in conto il diluvio di applausi trasversali indispensabili a coprire pudicamente certe fratture.
Ed eccolo là , l’anziano Re Giorgio, che sale a fatica, senza neppure provarci a mostrare un’elasticità giovanile che non ha più, le scalette che portano alla presidenza. Perchè mai dovrebbe rassicurare l’Aula sulla sua salute?
Al contrario, raccolta l’ovazione di tutti con l’eccezione dei pentastellati che si alzano in segno di rispetto ma salvo eccezioni non battono le mani manco per cortesia, spiega le sue perplessità davanti a questo secondo mandato anche per «ragioni strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età ».
Come a dire: mi avete costretto voi, a restare. E lui ha dovuto accettare per il «senso antico e radicato d’identificazione con le sorti del Paese». (Sottinteso: «Che molti di voi non hanno»).
Ciò precisato, comincia a rinfacciare ai presenti «una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità ».
E li bacchetta per non avere dato risposte alle «esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti» facendo «prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi».
Tanto da svuotare, accusa, «quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica» col risultato che alla fine «l’insoddisfazione e la protesta sono state con facilità , ma anche con molta leggerezza, alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie e da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono».
Ed ecco che, muti e silenti sotto i ceffoni sui ritardi nei tagli e le riforme, esplodono tutti nell’applauso liberatorio: ooh, finalmente gliele canta a chi accusa la politica di aver dato solo delle sforbiciatine!
Ed è lì che Napolitano esce dal discorso scritto e ferma l’entusiasta battimani: «Attenzione: il vostro applauso a quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza».
E vabbè, meglio che niente: e vai con nuovi applausi!
Pier Luigi Bersani, tradito prima dal risultato elettorale che si era illuso di avere in qualche modo già acquisito quando parlava del suo «squadrone» e poi tradito dai compagni di partito prima nelle sue disastrose aperture ai pentastellati e poi nelle votazioni per il Colle, se ne sta lì, deluso e cupo, il gomito piantato sul banco, il mento appoggiato nel cavo della mano.
Dirà poi che «Napolitano ha detto quel che doveva dire, con un discorso di una efficacia eccezionale».
Ma lo sa che, quando il Presidente ricorda che «piaccia o non piaccia, occorre fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto», parla anche di lui.
Sull’altro fronte, Silvio Berlusconi sprizza allegria.
Sette anni fa, dopo la prima elezione di «Re Giorgio», le cronache raccontarono che aveva raccomandato ai suoi: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un funerale».
E successivamente non aveva fatto mancare le sue riserve. Come quando, in una manifestazione a Vicenza, urlò che le elezioni erano state «taroccate» e che le sinistre avevano occupato tutte le istituzioni: «Il presidente della Repubblica è uno di loro, così come i presidenti di Camera e Senato, la Corte costituzionale…».
Quando il Colle rifiutò di firmare il decreto su Eluana andò oltre: «Vi ho visto tutta la cupezza di un armamentario culturale figlio di una stagione che non è ancora tramontata».
Tutto cambiato, oggi.
Tanto da spingere il Cavaliere, compiaciuto del discorso di insediamento dove il capo dello Stato «ha invitato a buttare a mare la parola inciucio perchè la politica è fatta di compromessi e collaborazione e la realtà comporta la necessità di superare le distanze», ad ammiccare: «Ho pregato le mie parlamentari per oggi di cambiare l’inno del Pdl in “meno male che Giorgio c’è”».
E come potrebbe non essere allegro Pier Ferdinando Casini? «Ora chi è andato a chiedergli di rimanere, chi lo ha pressato per fare ciò che non voleva, ha il dovere morale di fare subito un governo. Altrimenti siamo nel regno dei buffoni».
Bella sfida.
Ce la faranno?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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