Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
SOLO LE BOLLETTE DI ACQUA, LUCE E GAS NON PAGATE VALGONO 14,6 MILIARDI… TORNANO LE CAMBIALI E SALE IL RISCHIO STROZZINI
Gli italiani sono sempre più in rosso e non pagano più. 
Nel cassetto finiscono la rata del mutuo o l’affitto ma anche le bollette per beni di prima necessità come acqua, luce e gas.
Tanto che in due anni la montagna degli insoluti è praticamente raddoppiata e nel 2012 ha raggiunto quota 34 miliardi di euro.
Il peggio, poi, è che le previsioni per quest’anno sono di un ulteriore balzo in avanti delle pratiche affidate al recupero crediti (+6-8%).
Tra le regioni più indebitate Sicilia, Campania, Lombardia, Lazio e Puglia. E tornano in gran voga le famigerate cambiali.
A fotografare l’Italia del debito non pagato sono i dati diffusi oggi dall’Unirec, l’associazione che riunisce le principali società di recupero crediti, circa 200 che corrispondono al 90% del settore.
E non portano buone notizie, tutt’altro.
Gli agenti delle società di recupero, dice il Rapporto 2013 (scarica), hanno ormai tra le mani 3 milioni di pratiche al mese relative a debiti non pagati da famiglie e imprese che faticano sempre di più a onorare le proprie obbligazioni e rimborsare i prestiti contratti, in una situazione che assume sempre più i contorni dell’emergenza sociale. Veniamo ai numeri.
L’ammontare di crediti scaduti e non pagati affidati alle aziende di riscossione è salito a 35 milioni di pratiche affidate, due in più rispetto al 2011 che equivale a un balzo del 6%.
L’ammontare dei sospesi nei confronti di banche, finanziarie e multiutilities ha raggiunto quota 34 miliardi (33,7 per l’esattezza), con un incremento nell’ultimo anno del 17% e addirittura del 48% rispetto al 2010, quando la quota debito era pari 23 miliardi.
In pratica nel giro di due anni, gli ultimi, la montagna dei debiti è raddoppiata.
Le pratiche relative alle sole famiglie sono 29 milioni, pari a 24 miliardi di euro.
La composizione indica in 25,4 miliardi le pendenze con il settore bancario e finanziario relative a rate di prestiti, acquisto di beni di largo consumo, rate di mutui, scoperti bancari, certe di credito revolving e canoni leasing.
Bollette insolute per beni di prima necessità come luce, acqua, gas e telefono pesano per 14,6 miliardi.
A questa situazione, di per sè allarmante, va aggiunto il dato che segnala un mutamento significativo, anche dal punto di vista del costume sociale, del forte ritorno all’uso delle cambiali.
Il loro numero è aumentato del 5% rispetto al 2011 e, addirittura, del 44% rispetto al 2009, mentre il loro ammontare complessivo ha fatto registrare un +2% rispetto al 2011 e un +17% rispetto al 2009.
Anche i protesti sono in crescita da ormai 5 trimestri consecutivi.
Quanto alla distruzioni, i più indebitati d’Italia sono i lombardi (13%), i laziali (8%), mentre le regioni più “virtuose” sono la Basilicata, Molise e Trentino.
“Un dato che, ovviamente, risente dell’entità della popolazione dei territori, anche se — nelle aree più critiche e nelle regioni con situazioni socio-economiche più difficili — si rileva un tasso di recupero dei crediti decisamente minore”, dice il Rapporto che chiude con una previsione ancor più fosca: i volumi da recuperare il prossimo anno potrebbero salire di un altro 10%.
L’ultima cattiva notizia è che, nonostante l’aumento dei crediti insoluti, le previsioni di incasso dei recuperatori professionali sono negative: aumenta cioè il differenziale tra affidamenti ed effettivi recuperi (-11%).
E questo è un bel problema.
Il rischio è infatti di rendere più aggresive le azioni di recupero, con modalità e approcci che violano il codice della Privacy e integrano reati fino all’estorsione. In altre parole l’agente della riscossione che ha poco da perdere sfila i guanti di velluto e inizia a tempestare il debitore di telefonate, visite domiciliari, magari minacce di pignoramento senza neppure un’ingiunzione in corso.
Sul punto, già al centro di polemiche, il presidente di Unirec Gianni Amprino fornisce alcune rassicurazioni. “Il circuito della agenzie aderenti all’associazione è composto di circa 200 società che corrispondono al 90% dell’attività di recupero. Tutte operano con regolare licenza rilasciata dal Ministero tramite le prefetture, sono vigilate dalla Banca d’Italia e collegate alle associazioni dei consumatori con le quali è in corso da tempo una proficua e continua collaborazione, proprio per evitare abusi. Anzi, noi siamo i primi a chiedere ai debitori di segnalarci eventuali comportamenti non corretti. Magari al numero verde 800171019 che abbiamo appositamente allestito”. Ma gli operatori del recupero credito sono un migliaio, moltissime le Srl che non hanno aderito all’associazione di Confindustria e tuttavia operano nel mercato della tutela del credito.
E qui il rischio che la riscossione travalichi la misura si fa altissimo.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
“UNA SITUAZIONE CON MOLTE OMBRE” E CITA LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE, LE POLITICHE SUGLI IMMIGRATI, L’OMOFOBIA
“Una progressiva erosione dei diritti umani, ritardi e vuoti legislativi non colmati, violazioni costanti e forse in aumento”. E’ questa la fotografia dell’Italia che emerge dal rapporto 2013 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo.
Un rapporto che non risparmia critiche alla politica italiana e che registra nel 2012 “una situazione con molte ombre”: dalla violenza contro le donne al mancato inserimento del reato di tortura nel codice penale fino al nuovo accordo per il controllo dell’immigrazione sottoscritto con la Libia.
Migranti.
Proprio questa intesa – firmata il 3 aprile del 2012 dal ministro Anna Maria Cancellieri e dal suo omologo libico – secondo il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, “rischia di mettere a repentaglio la vita e l’incolumità di migranti e richiedenti asilo”, ricalcando il testo firmato nel 2008 con l’allora leader di Tripoli Muammar Gheddafi. Amnesty chiede perciò la “sospensione” di un accordo che, secondo l’organizzazione, è stata peraltro siglato “senza trasparenza”.
Nel 2012, sottolinea ancora il rapporto, le condizioni dei Centri di identificazione ed espulsione “sono state ben al di sotto degli standard internazionali” e “le tutele legali per il rimpatrio dei migranti irregolari sono state violate in molte occasioni”. Sistematicamente, le autorità non hanno protetto i diritti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti che hanno continuato a vivere in condizioni difficili e d’indigenza, inducendo i tribunali di alcuni paesi dell’Eu a bloccare il loro rinvio in Italia, secondo quanto stabilito dal regolamento Dublino II.
La presenza del reato di clandestinità e le “continue violazioni” dei diritti dei rom sono altri due nodi evidenziati nel documento, che rimarca una “contraddizione” del governo di Mario Monti: l’approvazione della ‘Strategia nazionale d’inclusione dei rom’ da un lato, e, dall’altro, il ricorso presentato nello stesso periodo contro il Consiglio di Stato che dichiarava illegittima la cosiddetta ‘emergenza nomadi’ in vigore dal 2008.
La Cassazione, lo scorso 2 maggio, ha confermato il verdetto del Consiglio di Stato ma, nel frattempo, le autorità di Roma hanno continuato ad applicare il ‘Piano nomadi’, provocando sgomberi forzati e il reinsediamento di molti rom “in campi segregati”, è la denuncia di Amnesty.
Violenza sulle donne e omofobia.
Il rapporto si concentra quindi sui casi di omofobia e sulla “diffusa” violenza contro le donne (con 122 casi di omicidio nel 2012), oltre che sugli “ostacoli incontrati da chi chiede giustizia per coloro che sono morti mentre si trovavano nelle mani di agenti dello Stato o sono stati torturati o maltrattati in custodia” e sulla “stigmatizzazione pubblica sempre più accesa di chi è diverso dalla maggioranza per colore della pelle o origine etnica”.
Il “pacchetto riforme”.
Infine Amnesty rilancia l’agenda in dieci punti per i diritti umani in Italia, che punta ad eliminare le criticità emerse e che è stato proposto da Amnesty a tutti i candidati alle ultime elezioni.
I leader delle forze politiche che poi hanno dato vita al governo e 117 parlamentari hanno firmato il pacchetto.
E ora Marchesi lancia un monito all’esecutivo: “E’ più che mai giunto il momento di fare riforme serie nel campo dei diritti umani. Non ci sono alibi. Non regge quello della crisi, ammesso che considerazioni economiche possano valere a fronte della necessità di proteggere valori fondamentali.
Anche le violazioni dei diritti umani costano, e spesso di più della loro tutela. Nè rappresenta un’obiezione valida la presunta limitazione dell’agenda del governo.
Il Parlamento è stato eletto e il governo è in carica: entrambi sono tenuti a svolgere le rispettive funzioni nell’interesse generale e a garantire l’attuazione delle convenzioni internazionali che il nostro Paese si è impegnato a rispettare”.
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
CLIENTELISMO, GLI SCHELETRI NELL’ARMADIO RENDONO TIMIDE DESTRA E SINISTRA
In queste ore percorrendo lo stradone simbolo della periferia romana, l’interminabile viale
Palmiro Togliatti, si può godere un piano-sequenza eloquente: un fiorire di manifesti con facce di candidati al Consiglio comunale che si limitano a consigliare l’elettore («Vota per…»), evitando però di esporsi con i fantasiosi slogan di una volta.
In questa striscia di facce anonime spunta – ma molto raramente – anche il viso del principale sfidante del sindaco Alemanno, il chirurgo del Pd Ignazio Marino.
Un manifesto che sembra un fumetto. Lui sorride e tiene un cartello scritto a mano: «Quello che fa un sindaco».
Una campagna elettorale così civile, quella del «marziano» Marino, da rischiare l’invisibilità ?
Sostiene la romanissima Flavia Perina, già direttrice del «Secolo d’Italia», oggi lontana da tutte le fazioni: «È la campagna elettorale più triste del mondo, Roma ha paura di prendere posizione, si barcamena».
Curioso: se le campagne elettorali sono l’occasione per sviscerare problemi e futuro di una città , in queste settimane l’opposizione ha quasi rimosso l’eredità più ingombrante del sindaco uscente: la caterva di assunzioni clientelari, roba mai vista prima, che un anno fa sembravano condannare Alemanno ad una sicura sconfitta.
Sostiene Corrado Bernardo, sanguigno ex assessore democristiano delle giunte di pentapartito, uno dei massimi conoscitori della Roma politica degli ultimi 40 anni: «Il Pd è reticente sulla gestione Alemanno perchè non può permettersi crociate moraliste e teme rappresaglie: le precedenti giunte di sinistra non erano state da meno, quantomeno nei metodi. La verità è che Roma è l’unica città dove i partiti contano ancora tantissimo, sono loro i veri poteri forti!».
Roma, ultima roccaforte della partitocrazia è una chiave di lettura confermata da dati incontrovertibili: nella capitale sono talmente tanti i santuari pubblici e parapubblici che la spintarella politica per centinaia di migliaia di persone è stata – e in parte resta – decisiva per avere un posto al sole, in retrovia, precario che può diventare stabile.
E non soltanto in Comune, Regione e Provincia. Ma anche in tutti i ministeri. Alla Camera e al Senato. Alla Rai e al Coni. A Cinecittà e nelle Asl. Nelle scassate ma accoglienti municipalizzate. Negli ospedali. Nelle Autorithy. Nelle tre Università . All’Auditorium.
E la mano pubblica è decisiva nelle continue «revisioni» che accompagnano l’unica, grande opera faraonica in realizzazione a Roma: la linea C della metropolitana.
Dal 1976 al 2006, in un arco temporale durato un trentennio (va escluso l’intervallo 1985-1993 delle giunte pentapartito), Roma è stata governata dalla sinistra con sindaci memorabili per diverse ragioni come Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli e poi dai sindaci progressisti della Seconda Repubblica, sui quali è lusinghiero il giudizio di uno storico indipendente come Vittorio Vidotto che nel suo «Roma contemporanea» per Laterza ha dato conto del «nuovo orgoglio cittadino per una città che appare più ordinata e più efficiente grazie alla buona amministrazione» delle giunte di Walter Veltroni e, in particolare, di Francesco Rutelli.
Anni di buona amministrazione, grazie anche alla sapiente regia di un politico-intellettuale come Goffredo Bettini, ma anche anni nei quali la sinistra romana post-comunista (alleata con l’ala più pragmatica dell’ambientalismo) ha costruito un solido sistema di potere.
Simboliche sono diventate le feste indette da Bettini per i suoi compleanni, alle quali sono puntualmente invitati quelli che considera suoi amici, a cominciare da Gianni Letta e dall’ingegner Francesco Gaetano Caltagirone, di gran lunga il più forte imprenditore romano.
Bettini nuovo Andreotti della politica romana? «Lavoro e vivo in 15 metri quadri, stanza da pranzo studio e salotto sono in un unico spazio: questo è il mio apparato, non ho incarichi».
Tutto vero.
Ma in 21 anni di potere la sinistra ha fatte le sue clientele.
Nell’amato mondo della cultura e in quello delle municipalizzate. Con vicende grottesche.
Come quando l’Ama (l’azienda che fatica a garantire la pulizia di Roma) pensò di proporsi in un Paese come il Senegal. Una figuraccia: il consiglio dei ministri di Dakar accusò addirittura la società capitolina di aver favorito un’epidemia di colera, lamentando il mancato pagamento degli stipendi a centinaia di lavoratori africani e la scomparsa di tanti soldi per finire una discarica. Al di là delle esorbitanti accuse senegalesi l’esito – come ha scritto il procuratore della Corte dei Conti Ivan De Musso – «è stato fallimentare, con ingenti danni cumulati, con pesante accollo al Comune di Roma».
Certo, nei cinque anni di Alemanno, la gestione della macchina comunale si è rivelata memorabile.
Inchieste sono state aperte su ben 850 assunzioni sospette all’Atac, l’azienda dei trasporti e non sono stati fortunati presidenti e ad dell’Ama: Stefano Andrini, un ex camerata, è stato costretto a dimettersi perchè coinvolto in un’inchiesta sui voti della ‘ndrangheta, mentre Franco Panzironi è a giudizio perchè avrebbe pilotato 841 assunzioni.
Ma se l’Atac (dice la Corte dei Conti) è sull’orlo della bancarotta e l’Ama non sta bene, la malagestione non può che avere una storia lunga e in questo senso ha buoni argomenti Alfio Marchini, 48 anni, imprenditore, il terzo incomodo nella corsa al Campidoglio: «Come si fa a pensare che la situazione delle municipalizzate e gli enormi problemi di questa città siano responsabilità del solo Alemanno, che comunque resta il peggior sindaco di sempre?».
Un episodio esemplare. Pochi giorni fa il Comune ha rinnovato i vertici dell’Atac, confermando presidente e ad, ma indicando nel Cda tre dipendenti pubblici, rimovibili dalla futura amministrazione.
L’ennesimo scambio con la sinistra, «chiamata» a non infierire sul clientelismo? In campagna elettorale l’unico a denunciare, attento ad argomentare, una sorta di equivalenza destra-sinistra è stato il candidato sindaco del Cinque Stelle, Marcello De Vito, un avvocato specializzato in appalti pubblici.
Tra Alemanno e Marino, impegnati nei comizi finali a fianco di Berlusconi ed Epifani, non mancheranno fuochi d’artificio e accuse reciproche, che non cambieranno il senso di una battaglia.
Condotta col «silenziatore», da entrambi i fronti.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
FLOP DI GRILLO (10.000 PRESENZE), ALEMANNO E MARINO (3.500 A TESTA), VA MEGLIO MARCHINI (7.000)… PIAZZE SEMIVUOTE PER I TRE MAGGIORI CANDIDATI
Circa 10mila persone si sono radunate in piazza del Popolo per ascoltare l’intervento di Beppe Grillo a sostegno del candidato sindaco del M5S Marcello De Vito.
Solo 3mila al Colosseo, dove Gianni Alemanno ha tenuto il comizio di chiusura della campagna elettorale assieme a Silvio Berlusconi.
Piazza san Giovanni, luogo ‘simbolo’ della sinistra riconquistato da Ignazio Marino, era piena solo a metà .
Alfio Marchini ha invece radunato 7.000 persone al Parco Schuster, nel quartiere San Paolo, grazie anche alla partecipazione di Antonello Venditti.
Ogni candidato aveva organizzato un momento che andasse oltre il tradizionale comizio: spazio per i comici saliti sui palchi prima di politici e gruppi musicali che quasi tutti hanno voluto come supporto per l’ultima giornata.
A sottrarsi a questo rito Alemanno e De Vito, che hanno preferito puntare tutto sui leader dei due schieramenti: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.
Per il resto, festa e passerella per i tanti candidati alle Comunali.
In ognuno dei luoghi scelti per le chiusure sono stati dispiegati centinaia di agenti delle forze dell’ordine per garantire la sicurezza.
Con uno sciopero dei mezzi pubblici che ha complicato la situazione del traffico.
Marino a San Giovanni.
Il candidato sindaco del centrosinistra Ignazio Marino si “è ripreso” piazza San Giovanni che, a febbraio, anticipò il grande risultato alle Politiche dei 5 Stelle, ma è riuscito a riempirla solo per metà .
La manifestazione è cominciata alle 17.30, con la partecipazione di Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, e Guglielmo Epifani, neo segretario del Pd. Quest’ultimo, però, non è salito sul palco con il candidato del centrosinistra.
Una scelta precisa per marcare la differenza, fanno sapere dal Pd, con le piazze di Alemanno e De Vito.
Sul palco di San Giovanni, invece, il comico Dario Vergassola ha intervistato Marino intorno alle 20. Prima di lui spazio dedicato anche agli attori, da Giulio Scarpati a Stefania Sandrelli, da Leo Gullotta a Giobbe Covatta, da Max Bruno ad Alessandro Gassman, da Max Paiella a Dado. La scaletta delle esibizioni musicali invece ha previsto Silvia Salemi, Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso, i Velvet, Stefano Di Battista e Danilo Rea, Nicola Piovani, Grazia Di Michele ed er Piotta.
Alemanno al Colosseo. 
Messe da parte le polemiche con la Soprintendenza, invece, Gianni Alemanno ha chiuso la sua campagna elettorale al Colosseo, con un palco allestito vicino all’Arco di Costantino.
Non più di tremila persone hanno preso parte al comizio, e anche l’intervento di Silvio Berlusconi è stato definito “sotto tono”: contrariamente al suo solito, il Cavaliere non ha parlato a braccio ma ha letto un testo dalla prima all’ultima parola.
Ha parlato di “lealtà al governo Letta”, della necessità di procedere con le riforme per la crescita e per “modificare l’architettura dello Stato”, con un riferimento diretto alla trasformazione del Paese in una repubblica presidenziale.
Col sindaco in carica, oltre al leader Pdl, anche numerosi esponenti del centrodestra, da Francesco Storace a Giorgia Meloni, da Luciano Ciocchetti alle liste civiche che appoggiano Alemanno.
Marchini a San Paolo.
Preceduto da un lancio di cuori di schiuma (il cuore è infatti il simbolo della sua campagna elettorale), il comizio di Alfio Marchini si è tenuto invece nel popolare quartiere di San Paolo, al parco Schuster.
Circa 7.000 persone vi hanno partecipato, attratte anche dalla presenza del comico Maurizio Battista e del cantante Antonello Venditti, che si è esibito sul palco dopo il discorso del candidato sindaco, l’unico che negli ultimi giorni viene dato in crescita di consensi, intorno al 13% e molto vicino al candidato Cinquestelle.
De Vito e Grillo a piazza del Popolo. 
I 5 Stelle questa volta hanno scelto piazza del Popolo dove intorno alle 21.30 è arrivato Beppe Grillo. Prima di lui, spazio a Marcello De Vito e ai candidati al consiglio comunale.
Circa 10mila persone hanno seguito l’intervento del leader del Movimento, che ha parlato a tutto campo, sfoderando il repertorio completo degli attacchi a tutte le altre forze politiche, senza quasi mai citare Roma (se non in qualche battuta finale) e i temi riguardanti la città . “Abbiamo il 25 per cento, ci hanno messo in un angolo – ha detto fra l’altro – Ma hanno una paura fottuta, perchè andiamo a vedere tutto, i bilanci (anche se forse presto sarà costretto a mostrare i suoi…n.d.r.)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
I RIBELLI GRILLINI SI SONO CONTATI: SAREBBERO 20 ALLA CAMERA E 15 AL SENATO…. CIVATI LAVORA ALLA MEDIAZIONE, PROGETTO PER TAGLIARE FUORI BERLUSCONI
«D’Alema 2.0». O anche, più precisamente, «il partito di Rodotà ».
Che sembrano due cose diverse. E invece sono la stessa.
Prima era un’idea confusa, presumibilmente figlia di una leggenda. Poi, nel corso delle settimane, è diventata uno strano sogno.
Una discussione tra un piccolo pezzo del Pd e una parte minoritaria del Movimento 5 Stelle che con Grillo non si trova più in sintonia.
Da ieri, dopo una telefonata, è diventato un minuscolo cantiere visionario, che vuole archiviare per sempre l’era berlusconiana, riconnettendo la sensibilità delusa della pancia del centrosinistra (a partire da OccupyPd) con la propria supposta classe dirigente.
«Professore, le piacerebbe farci da premier? ». Rodotà , a Berlino per un convegno, non si sarebbe fatto trovare impreparato.
Così si è schiuso l’embrione di un mondo. Un micro-universo parallelo, che fonda la sua esistenza su una domanda: se cade il governo, è inevitabile tornare a votare rischiando di riconsegnare l’Italia al Cavaliere?
Un passo indietro aiuta a capire il dibattito.
Il punto di partenza è la leggenda.
Una storia – infondata, secondo i presunti protagonisti – che ha galleggiato in transatlantico per settimane.
Sono i giorni imbarazzanti che precedono l’elezione del Presidente della Repubblica. Il Pd è allo sbando. Un arcipelago di isole velenose.
In una notte shakespeariana Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani si scontrano.
D’Alema chiede a Bersani di sostenere la candidatura Rodotà che porterebbe a un governo con l’appoggio dei 5 Stelle. «D’Alema 2.0», appunto.
La risposta di Bersani, dipinto come un uomo che si mette in posizione di preghiera con l’aria di chi vuole imporre un superlavoro al suo rosario, è piccata. «Mai e poi mai».
Fin qui il romanzo.
Poi comincia la vita vera, perchè la mente è una minuziosa macchina da presa che entra in tutte le stanze del passato e ti costringe a rivedere le scelte fatte.
Un gruppo di piddini cerca la parte dialogante del Movimento.
A guidarli è Pippo Civati, convinto che le assemblee di piazza nate dalla candidatura Rodotà e i plateali mal di pancia dei militanti del suo partito per l’innaturale accordo con Berlusconi, non possano essere trascurati.
Si muove riscuotendo l’attenzione di un gruppo sempre più folto di Cinque Stelle sia alla Camera sia al Senato.
L’europarlamentare Sonia Alfano lo aiuta. E persino il sindaco di Napoli De Magistris non sarebbe estraneo alla partita.
Discorsi che cadono nel vuoto, un po’ perchè l’impressione diffusa (e comprensibilmente molto forte) è che il governo non possa cadere perchè sostenuto dal Quirinale, un po’ perchè Civati ha bisogno di allargare la base del consenso interno e, infine, perchè i grillini dialoganti non hanno la forza di contarsi fino a una cena chiarificatrice di poche sere fa.
Davanti a una pizza e a una birra si ritrova un gruppo di dodici persone – deputati e senatori – che comincia a usare il pallottoliere.
«Quanti di noi sarebbero disposti a fare un gruppo pronto ad appoggiare il Pd? ».
La replica è: venti a Montecitorio, quindici a Palazzo Madama.
Stima eccessiva? In ogni caso sono questi i numeri che vengono portati al Pd, dove anche qualche dalemiano ha fatto arrivare la propria adesione all’idea.
A questo punto viene contattato Rodotà . E adesso?
Civati la mette in questo modo: «Berlusconi sappia che se fa cadere il governo in modo strumentale – o ci costringe a prendere le distanze dall’esecutivo – potrebbero esserci conseguenze non banali. C’è un fronte in Parlamento, e ancor più nel Paese, che non ha nessuna intenzione di regalare l’Italia a chi si dovesse dimostrare irresponsabile, per altro dopo esserlo stato per vent’anni».
È il primo abbozzo di Manifesto Costituivo. La voce gira.
Il giovane turco Fausto Raciti, emergente ventinovenne siciliano, non crede tanto all’ipotesi di una crisi di governo.
Eppure dice: «Se esiste questo elemento di novità è bene che il Pdl ne tenga conto ed eviti i dispetti che abbiamo visto in questi giorni. E forse tra i Cinque Stelle qualcuno ha i sensi di colpa perchè si è reso conto che un accordo era possibile».
Era o è? E quanti sono davvero i grillini pronti a salutare i vecchi amici nella certezza che il rigore trasformato in gabbia di se stesso diventa rifiuto di contaminarsi con la vita reale?
Solo se Stefano Rodotà dovesse entrare ufficialmente in questo nuovo gioco arriverebbe la risposta.
Andrea Malaguti
(da “La Stampa“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
CI VORRA’ PERO’ UN DISEGNO DI LEGGE: NEL FRATTEMPO E’ CORSA A PRENDERSI I MERITI DI UNA COSA CHE PER ORA NON C’E’
C’è l’accordo in maggioranza: il finanziamento pubblico ai partiti sarà eliminato. L’annuncio
è stato dello stesso presidente del Consiglio Enrico Letta attraverso Twitter: “Nel Cdm di oggi abbiamo trovato l’accordo sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti. Ora la Ragioneria deve preparare le norme fiscali del ddl”.
Tra le linee guida sulla riforma del finanziamento ai partiti vi sono “la definizione di procedure rigorose in materia di trasparenza di statuti e bilanci dei partiti” e “l’introduzione dei meccanismi di natura fiscale, fondati sulla libera scelta dei contribuenti, a favore dei partiti”.
Una legge, insomma, che cercherà di assicurare anche la trasparenza e la democraticità del funzionamento dei partiti.
Presto arriverà anche un ddl del governo per regolare l’attività delle lobbies e “la rappresentanza degli interessi economici”.
Il governo procederà con un disegno di legge, dunque, scelta che fa pensare a tempi non proprio rapidi.
Intanto pare partita la gara all’accaparramento del merito per essere arrivati a questa misura.
In mattinata era stato il sindaco di Firenze Matteo Renzi a raccontare di aver parlato “più volte con il presidente del Consiglio, su questi temi il governo procederà spedito. Durante le primarie sembravamo solo noi a dirlo ora vedo condivisione. Si parte dal testo di legge presentato da Dario Nardella, che tra l’altro è stato mio vicesindaco”. Nardella, da par suo, promette che l’abolizione del finanziamento ai partiti avverrà entro l’estate, quindi in due o tre mesi.
Esultano i senatori di area “renziana”: “L’abrogazione del rimborso elettorale ai partiti, impensabile solo qualche mese fa, è una grande vittoria politica di Matteo Renzi — dichiarano 11 democratici vicini all’ex Rottamatore — La decisione di Enrico Letta sintonizza finalmente la politica con gli umori del Paese”.
Poi, dopo il consiglio dei ministri, ha parlato il ministro della Difesa Mario Mauro: “Dopo il governo di grande coalizione, passa ancora un cavallo di battaglia di Scelta Civica: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti in virtù di un disegno di legge proposto dal consiglio dei ministri”.
Di seguito il capogruppo del Pdl Renato Brunetta: “Bene il principio. Noi abbiamo unanostra proposta: è uno dei nostri otto disegni di legge. So che in Consiglio dei ministri hanno illustrato delle linee guida ora vediamo il testo”.
“L’abrogazione del finanziamento ai partiti — chiarisce Daniele Capezzone — è stato un punto della campagna del Pdl e di Silvio Berlusconi. Bene, quindi, l’annuncio di Enrico Letta. Ora sarebbe saggio avvicinarci al modello americano: trasparenza sulle lobbies, e favor fiscale per le donazioni private”.
In ogni caso meglio aspettare di vederlo davvero tramutato in legge…
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
L’ESECUTIVO PERDE IL 12% IN UN MESE… PER IL 59% DEGLI INTERVISTATI BERLUSCONI E’ INELEGGIBBILE
Il governo Letta raccoglie sempre meno fiducia negli italiani, il Pdl si conferma primo partito ma per la maggioranza di loro Silvio Berlusconi è ineleggibile.
E’ il risultato, in sintesi, di un sondaggio dell’Istituto Swg per Agorà (Rai Tre).
Il Popolo delle Libertà , secondo l’istituto diretto da Roberto Weber, guadagna quasi mezzo punto (+0,4%) e si conferma il primo partito nelle intenzioni di voto con il 27,8 per cento dei consensi.
Cresce anche il Movimento 5 Stelle (+0,8%), che raggiunge al 22,6% il Pd, in sensibile calo rispetto alla settimana scorsa (-1,4%).
In grande calo Scelta Civica (scende sotto il 5%), raggiunto dalla Lega.
Queste le intenzioni di voto (tra parentesi lo scostamento percentuale rispetto al sondaggio del 17 maggio): Pdl 27,8% (+0,4), Pd 22,6% (-1,4), M5S 22,6% (+0,8), Scelta Civica 4,9% (-0,9), Lega Nord 4,9% (+0,5), Sel 4,8% (+0,1), Udc 2,0% (+0,2), Fratelli d’Italia 1,5% (-0,3).
Cala ancora di 3 punti rispetto alla settimana scorsa la fiducia degli italiani nel governo Letta, che scende al 31 percento.
In meno di un mese il gradimento dell’esecutivo è sceso di 12 punti.
Per quanto riguarda le personalità politiche è sempre Giorgio Napolitano, nonostante i 2 punti in meno di sette giorni fa, la figura in cui gli italiani hanno più fiducia (55%). A seguire Matteo Renzi (54%), in calo di un punto rispetto alla settimana scorsa.
In discesa anche il premier Enrico Letta (-2%), che scivola al 44 percento.
Va meglio in casa Pdl, dove il segretario Angelino Alfano guadagna 2 punti e sale al 26 percento, mentre il presidente Silvio Berlusconi con un punto in più si attesta al 25 percento.
In salita anche Beppe Grillo (+2%), che raggiunge il leader del Pdl (25%).
Perdono invece 3 punti il governatore della Puglia Nichi Vendola e il senatore a vita Mario Monti, rispettivamente al 22 e 18 percento.
Cala di 5 punti, infine, la fiducia nel segretario del Pd Guglielmo Epifani, anche lui al 18 percento.
Per oltre la metà degli italiani (59%), infine, Silvio Berlusconi è ineleggibile.
Ad esserne convinto è quasi la totalità dell’elettorato del Movimento 5 Stelle (92%) e un’ampia fascia di centrosinistra (87%).
Opposto il punto di vista degli elettori di centrodestra (10% pensa sia ineleggibile). L’istituto ha anche chiesto a chi vada attribuito il merito dello stop dell’Imu: per il 47 percento degli italiani la sospensione dell’imposta è merito di Berlusconi, mentre solo il 19 percento ritiene che l’iniziativa sia da attribuire a Letta.
Il 75 percento, però, tra lo stop alla tassa sulla prima casa e scongiurare l’aumento dell’Iva a luglio preferirebbe la seconda opzione.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
DA FINI A FRATELLI D’ITALIA PASSANDO PER CASA POUND, STORACE E ALEMANNO: PIU’ CHE DECLINO, DISSOLUZIONE PER SFINIMENTO, E NON E’ DETTO CHE SIA UN MALE
Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. 
Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso.
Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destra”, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012).
La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra.
All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena
I numeri fuoriusciti dall’ordalia delle urne — Fratelli d’Italia 1,95 per cento; la Destra 0,64 per cento; Futuro e libertà 0,46 per cento; Forza Nuova 0,26 per cento; CasaPound Italia 0,14 per cento; Fiamma tricolore 0,13 per cento — ci dicono al dunque che i vari affluenti della destra italiana sono oggi rappresentati da una decina di Parlamentari (nove FdI; due finiani uno dei quali, Benedetto Della Vedova, viene dal Partito radicale).
E’ un dato di grande interesse politico, poichè segnala la quasi sopraggiunta estinzione di un equivoco storico nato nel 1995 a Fiuggi, quando l’Msi si è suicidato nel letto di Procuste di An senza neppure la forza di elaborare il proprio lutto.
Molte delle prefiche di allora versarono lacrime d’occasione senza aver ancora compreso di candidarsi, in quel preciso momento, al ruolo di esecutrici testamentarie del mondo che veniva da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi.
Ma questa è una tragicommedia già ampiamente vivisezionata (ce ne siamo occupati nel 2007 con “Il passo delle oche”, Einaudi).
La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo.
Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni” (noreporter.org).
Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male.
La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigente”: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra” hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce.
A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile.
Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica.
Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica.
Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune.
Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra.
Che fai, mi cacci?
C’è stato un momento nel quale la così detta destra finiana, già contrafforte malgrè soi del neonato Popolo della libertà , ha dato l’impressione di volersi sottrarre a una subalternità non più tollerabile nei confronti di Silvio Berlusconi.
Nel 2010, sorretto dalle speranze variopinte dei mezzi d’informazione persuasi dell’imminente trapasso del berlusconismo, Gianfranco Fini si è intestato la battaglia del patricida.
Accusato d’infedeltà e ingratitudine dai pretoriani del Cavaliere (molti dei quali provenienti dalle file di Alleanza nazionale), Fini ha dato l’impressione di voler costruire una destra di stampo europeo, un po’ neogollista (tendenza Chirac), un po’ troppo giovanilistica, con punte di radicalismo sociale (la battaglia per il riconoscimento dello ius soli agli extracomunitari, una certa improntitudine sulle questioni di natura bioetica) e non senza occhieggiamenti verso il così detto establishment editorial-finanziario dichiaratamente ostile a Berlusconi.
Malgrado i notevoli chiaroscuri biografici dell’allora presidente della Camera, compresa la brutta storia della casa di Montecarlo appartenente alla Fondazione di An e assegnata per vie tortuose al cognato di Fini, la sola volontà di rompere con il patriarca di Arcore sembrava trovare un promettente riscontro nei sondaggi.
Uno psichismo diffusamente compiacente verso l’impresa finiana ha insinuato nei protagonisti della rottura la certezza di poter vincere per vie parlamentari, infliggendo una sfiducia brutale al governo Berlusconi.
All’immediato fallimento dell’espediente tattico, non è seguita una fase di riorganizzazione politica e di ridefinizione culturale autentica.
Semplicemente, Fini e i suoi hanno immaginato di dover soltanto rinviare il tempo della vendemmia.
Negli interstizi dell’attesa è emerso il vuoto della proposta di Futuro e libertà : tagliati i ponti con il passato prossimo (del passato remoto è inutile qui parlare ancora), a Fini è riuscita più congeniale l’eliminazione diretta della parola “destra” dal proprio arsenale retorico.
La sua offerta si è richiamata anzi all’esigenza di rompere del tutto con categorie che a suo dire erano ormai deprivate di senso: la dialettica destra/sinistra è così uscita dal cono di luce del delfino almirantiano, ma senza che a questa eliminazione sommaria corrispondessero un disegno dai contorni precisi, una base identitaria, una prospettiva intorno alla quale conservare, rendere coeso e incrementare l’insieme dei consensi e delle aspettative ingenerate.
Il risultato di questa meccanica è stato l’avvicinamento “destinale” a Pier Ferdinando Casini e della sua Unione di centro, cui è seguita l’accettazione acritica del tecno-governo di Mario Monti con l’intermittente consiglio/sostegno di Luca Cordero di Montezemolo.
L’entente, come noto, è sbocciata nella formazione di liste sorelle (unitaria per il Senato) che sono apparse come la sommatoria di calcoli, debolezze e vanità comuni.
Gli elettori ne hanno fatto giustizia, consegnando Fini e i suoi consiglieri al limbo degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta.
A distanza di tre anni dalla nascita dei primi focolai di dissenso nel Popolo della libertà , è difficile che l’azzardo di Fini possa essere rubricato sotto la categoria della destra in rivolta contro l’assimilazione violenta alla compagine berlusconiana.
Se innegabile era la tendenza livellatrice e monocratica esibita dall’allora premier, altrettanto manifesta è stata poi la natura personalistica, politicistica e velleitaria di Futuro e libertà .
Di là dalla rimasticazione episodica degli slogan futuristi primonovecento, di là dalla improvvisata modernolatria dei pochi (e presto abbandonati) intellettuali alla corte di Fini, non è stato possibile individuare alcun nucleo politico o ideale degno di sopravvivere alla fragorosa condanna elettorale.
Ma il danno d’immagine, per un mondo che almeno nei presupposti e nelle provenienze individuali non è possibile disgiungere dall’archetipo post fascista, quello è chiaro e distinto.
E sarà durevole.
Che fai, mi riprendi?
Gli altri gruppi della così detta destra italiana, accomunati senz’altro da un livore furibondo nei confronti del loro ex sovrano Gianfranco Fini, sono nati o sono cresciuti ora in conflitto ora in rapporto di vassallaggio con Berlusconi.
La Destra di Storace è stata allestita come controparte identitaria anti finiana, ma al tempo stesso si è più volte proposta come un cuneo di ribellione conficcato ai fianchi del Cavaliere. Salvo poi ripiegare appena possibile, calendario elettorale alla mano, nella più confortevole ombra di Arcore.
Le immagini di Daniela Santanchè nella sua versione paleo berlusconiana, poi storaciana (la “destra con la bava alla bocca” che non accetta di stare sdraiata) e infine nuovamente, appassionatamente accanto al capo del Pdl, ci danno la misura delle oscillazioni mostrate dalla classe dirigente post fascista.
In questo quadro, Storace si è impegnato a impersonare un ruolo di vaga ed equivoca testimonianza identitaria non poi così dissimile rispetto a quello svolto dall’estrema sinistra post bertinottiana (con conseguenze simmetricamente funeste).
Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri.
La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre.
In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi.
Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane.
Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, nè per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio.
Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia.
Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa.
Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunchè da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl.
Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia?
E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri.
Che fai, mi ignori?
Se la caduta delle destre istituzionali dipende in larga parte dal fatto che, sequestrate dai loro piccoli cacicchi vanitosi e imbelli, non erano più “di destra” in senso tradizionale da circa vent’anni, il “sonno” delle destre radicali extraparlamentari trova una sua ragione nella quasi totale assenza di leadership carismatiche e messaggi auscultabili all’esterno della claustrofobica catacomba neofascista.
In questa congiuntura il brodo di coltura antisistemico italiano è stato fecondato dalla proposta millenaristico-settaria che il comico Beppe Grillo ha condiviso con il guru dell’e-commerce Gianroberto Casaleggio.
Un lavoro scientifico, il loro, che per la verità è cominciato da diversi anni e che si è talmente rafforzato da attirare come un magnete perfino le limature di ferro dello scontento estremista, sia di destra sia di sinistra.
Nel frattempo i cuori neri si baloccavano con le loro solite, logore liturgie intonate al culto della sconfitta neofascista e con l’immancabile rivalità fra consanguinei.
Fatta eccezione per il movimentismo di CasaPound, reso popolare dal recupero del migliore dannunzianesimo ma viziato spesso da pulsioni avanguardistiche inconcludenti, non c’era una sola buona ragione per la quale le destre anti sistemiche dovessero presentarsi alle elezioni immaginando di non venirne malamente sbertucciate.
Requiem o palingenesi?
In natura nulla va perduto, è così perfino nell’Italia a sovranità limitata, assoggettata alla germanizzazione del suo sistema economico-finanziario e appetita dal capitalismo apolide responsabile della crisi internazionale.
Dunque anche per la destra c’è speranza.
Non è possibile qui aggettivare oltremisura la destra di riferimento, ma certo è che per rinascere bisogna essere stati qualcosa nel passato.
E’ a una destra tradizionale che si può o si deve guardare, nel senso più alto, nobile e purtroppo negletto dalla maggior parte delle formazioni esistenti: ogni altro tentativo e ogni altra variante essendo falliti alla prova dei fatti recenti.
Il grillismo è un fenomeno di falsa rottura transeunte ed è destinato prima o poi a liberare energie insospettabili, dopo aver caoticamente rilegittimato alcune idee e istanze di sovranità politica e culturale tipicamente di destra.
Chi un domani sappia saldare questo accumulatore di energia con un circuito elitario, nel quale le nuove personalità di riferimento siano realmente formate lungo linee di vetta metapolitiche (frutto di una disciplina perfino interiore, siamo portati a dire), potrà modellare un corpo adatto al manifestarsi di una “destra eterna” che attende la sua prossima incarnazione.
Quando il sole avrà estinto l’ultima pozzanghera.
Alessandro Giuli
(da “il Foglio“)
Il testo riprodotto verrà pubblicato sulla Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi, n. 2, aprile-giugno 2013, con il titolo: “La fine di un mondo. Come (e perchè) si è dissolta la destra” in Italia
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Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile
DOVE SONO FINITI REDDITO MINIMO, IRAP, EQUITALIA?… SUI PARLAMENTARI DI GRILLO SEMBRA SCESO UN VELO DI INDIFFERENZA
Quando un governo ancora non c’era, dicevano che il Parlamento avrebbe potuto funzionare nella pienezza delle sue prerogative, anche facendo a meno dell’esecutivo. Ma da quando un governo c’è, discettano compulsivamente solo di diarie, rimborsi, scontrini.
Proposte di legge di quelli che in teoria dovrebbero interessare la «gente»?
Zero: solo manovrette della più tradizionale bassa cucina della politica, come l’iniziativa sull’ineleggibilità di Berlusconi architettata per stanare il Pd e lucrare sulla sua devastante crisi.
Ma davvero il Movimento 5 Stelle crede di star offrendo uno spettacolo di efficienza e operosità parlamentare a chi sperava che la «società civile» avrebbe avuto finalmente voce dentro le istituzioni?
Si può essere efficienti anche dall’opposizione, imporre l’attenzione su alcuni provvedimenti, migliorare alcune leggi partorite dalla maggioranza e sulle quali non si è in disaccordo, fare proposte di legge, contribuire a stabilire un calendario di iniziative parlamentari, lavorare sodo nelle Commissioni, magari con minore eco mediatica ma con un’attività utile non solo al gruppo cui si appartiene, divulgare all’esterno ciò che accade nelle stanze in penombra del «Palazzo».
Ma i parlamentari del 5 Stelle non sembrano portatori di qualche competenza. Difficile capire cosa sia esattamente la «società civile», ma è difficile immaginare che nella «società civile» si agitino questioni come quelle che ossessionano i grillini.
Non fanno che parlare di «streaming», stanno sempre a discutere sul blog della casa, si controllano l’un l’altro con uno zelo sconosciuto persino nei vecchi partiti centralizzati, istruiscono processi a chi ha osato recarsi a una trasmissione tv sgradita al Capo, usano in forme maniacali la parola «rendicontazione»: non che la rendicontazione non sia importante ma non può nemmeno essere il principio e la fine di ogni interesse.
Lo scontrino è diventato un feticcio, la diaria rifiutata un segno di identità .
Sono prigionieri delle loro liturgie, come se il chiamarsi «cittadini» anzichè «onorevoli» fosse la cosa più importante del momento.
E il reddito minimo garantito?
Il premier Letta ne aveva persino accennato nel suo discorso per la fiducia. Ma i deputati 5 Stelle non lo incalzano, non lo mettono alle strette, non chiedono l’applicazione, almeno in parte, di un provvedimento che considerano decisivo e indispensabile. Beppe Grillo aveva detto che i deputati del suo Movimento avrebbero votato, fiducia a parte ovviamente, caso per caso.
Ma questi buoni propositi sembrano svaniti.
Prima ancora del voto sembra che un velo di indifferenza sia calato tra i parlamentari di Grillo e le cose che sarebbe necessario fare.
E l’unico oggetto degno di attenzione appare il contenzioso sui portavoce, sui soldi dei rimborsi, sulle questioni interne al movimento.
In campagna elettorale Grillo parlava di Imu, di Irap, di Equitalia. Ma tutto appare avvolto da una nebbia.
La questione della pubblicità delle discussioni interne, e il controllo reciproco sui comportamenti altrui, hanno preso il sopravvento su tutto il resto.
Gli altri partiti sono in difficoltà . Alcuni addirittura annaspano, commettono errori sconcertanti come la proposta per sbarrare a movimenti come quello di Grillo la porta delle elezioni.
Ma il Movimento 5 Stelle non dà un’immagine molto diversa da quella offerta dai partiti tradizionali.
Le sirene del Palazzo lo stanno conquistando.
La «società civile» tanto lodata, alla fine sparisce.
Come bilancio dei primi tre mesi della nuova legislatura, il risultato appare sconfortante.
Pierluigi Battista
(da “il Fatto Quotidiano”)
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