Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
SARA’ VENDUTA LA SEDE COMPRATA DA BOSSI NEL 1993… IN MOBILITA’ TUTTO LO STAFF… FATE ATTENZIONE, ORA SALVINI POTREBBE COMPARIRE SUL VOSTRO PIANEROTTOLO
Via Bellerio addio. Il quartier generale della Lega non ha ancora riaperto dopo le vacanze di Natale.
Il portone sormontato dal Sole delle Alpi resterà sbarrato fino a lunedì prossimo.
Ma, alla riapertura, non sarà un ritorno alla normalità : la storica della sede del Carroccio, orgoglio e vanto di Umberto Bossi, è giunta alla sua conclusione.
Tutta l’attività sarà provvisoriamente concentrata in pochi, pochissimi locali in quella che fu la sede della Padania , già chiusa dallo scorso primo dicembre.
Sempre nel complesso di via Bellerio, ma in una palazzina separata.
Il movimento potrà così risparmiare su riscaldamento, pulizie e altre spese correnti, ormai insostenibili dopo la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti che, nel 2017, si esaurirà definitivamente.
Resta tuttavia da capire come la prenderà Umberto Bossi, il cui ufficio con ampio terrazzo all’ultimo piano della palazzina principale è assai distante dai locali dell’ex Padania
A lavorare nelle stanze del quotidiano scomparso ci sarà soltanto un pugno di persone: i dipendenti saranno cinque o sei al massimo, anche se il segretario Matteo Salvini conta in una pattuglia più nutrita di collaboratori alimentata dal volontariato.
Poca cosa, in ogni caso, rispetto alla trentina di persone che ci lavoravano fino ad alcune settimane fa: per i 71 dipendenti della Lega (una quarantina lavora fuori dal fortino di via Bellerio, nelle sedi regionali o provinciali), il partito ha chiesto la cassa integrazione a zero ore.
La trattativa è in corso, giusto mercoledì scorso un incontro con i dipendenti è andato a vuoto. Ma per loro, sperare nei miracoli è difficile.
A trattare la cosa, peraltro, non è la politica, ma lo studio internazionale Pwc, PricewaterhouseCoopers
Le cose resteranno in tale limbo fino a quando la Lega non troverà l’occasione di cedere gli edifici di via Bellerio a un prezzo che non sia troppo stracciato.
Ma questa non è una gran notizia: se il complesso di palazzine alla periferia Nord di Milano ancora non è stata venduto, è soltanto perchè fino a qui non si è trovato un acquirente.
La crisi immobiliare, certo. Ma anche il fatto che le spese per rimettere a nuovo quegli edifici dall’atmosfera sovietica sarebbero tutt’altro che lievi.
Probabilmente, non sarà Matteo Salvini a piangerci sopra. Il segretario leghista non è felice di dover essere colui che licenzia decine di persone che conosce magari da decenni, per giunta proprio nel momento del suo successo personale.
Ma via Bellerio appartiene a una storia della Lega che non c’è più: è Umberto Bossi. Che nel 1993 acquistò quei 7.600 metri quadrati all’estrema periferia (Nord, ovviamente) di Milano come simbolo in cemento e mattoni dell’orgogliosa diversità della Lega.
Gli altri partiti, già squassati dall’inchiesta Mani pulite, disponevano ancora di sedi prestigiose in palazzi nobili nel centro della città .
La Democrazia cristiana in via Nirone, a due passi da Sant’Ambrogio e dall’Università Cattolica, il Partito socialista in corso Magenta, a poca distanza.
Meno sontuosa, forse, ma almeno altrettanto spaziosa, la stanza dei bottoni dell’allora giovane Pds, in via Volturno, all’Isola, oltre la Stazione Garibaldi
La Lega, no. Il suo quartier generale era in una zona popolare, un tempo industriale, negli spazi che erano stati di una vecchia società farmaceutica, la Meazzi.
Assai distante anche fisicamente dal potere degli «altri».
Il salasso non era stato da poco, per il giovane movimento federale: 14 miliardi di lire, a fronte di un finanziamento pubblico di 6,2 miliardi l’anno.
Sul reperimento della differenza, parecchio è stato scritto. Eppure, proprio negli stessi mesi, la Lega mise a segno il suo colpo fino a quel momento più grande: la conquista di Milano con il «borgomastro» Marco Formentini, trampolino dell’accordo che portò i barbari non ancora sognanti al governo con Silvio Berlusconi, l’anno successivo. Qualche tempo più tardi, a volta secessionista ormai sancita, via Bellerio fu il teatro di un episodio tutt’ora mitizzato dai leghisti che ne furono testimoni.
La perquisizione da parte della polizia, ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, in cerca di evidenze sull’attività della Guardia nazionale padana.
Roberto Maroni ne era il responsabile e proprio l’oggi governatore lombardo si oppose all’iniziativa disposta dalla Procura di Verona. Che si concluse con un tafferuglio. Maroni finì la giornata malconcio, in ospedale e fu più tardi condannato per resistenza a pubblico ufficiale.
Il procedimento sulle Camicie verdi, invece, non è ancora ufficialmente iniziato: la Procura di Bergamo ha chiesto al gip il rinvio a giudizio per 34 protagonisti dell’associazione di allora.
Ma dopo la malattia di Umberto Bossi nel 2004, tutto progressivamente cambiò.
Il palazzo di via Bellerio, da cuore pulsante del movimento passò a essere considerato il simbolo stesso del «cerchio magico», il ristretto gruppo dei vicinissimi al «capo». Per molti militanti, una sorta di corte al centro di intrighi sempre più distanti dalla natura popolare della Lega.
Poi, con la caduta di Bossi, il sovradimensionamento di via Bellerio fu una delle prime cose che balzarono all’occhio della spending review interna voluta dal suo successore, Roberto Maroni.
Ma, appunto, la crisi aveva già iniziato a soffiare.
I dipendenti, chissà , con il tempo potranno essere riassorbiti in altre iniziative.
Ma per la vecchia azienda farmaceutica, i fasti sono definitivamente al capolinea.
Marco Cremonesi
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
PAITA E COFFERATI: ULTIMA LITE IN TV…. A RISCHIO IL RISULTATO DI OGGI… SUL VOTO DECISIVI GLI SCAJOLIANI
“Maleducata, tu hai disprezzo per le persone”, attacca Sergio Cofferati. 
“Non voglio ridurre la Liguria come Genova amministrata da Marco Doria”, ribatte Raffaella Paita.
Davanti allo schermo dell’emittente Primocanale migliaia di liguri allibiti: il confronto tra i candidati alle primarie Pd di domenica si rivela uno scontro senza quartiere.
Molto più aspro di un faccia a faccia tra partiti opposti.
È solo l’ultimo capitolo. Come Il Fatto ha rivelato settimane fa, le primarie rischiano di non essere decise dagli elettori di centrosinistra, ma da scajoliani ed ex An scesi in campo per sostenere Paita (candidata sponsorizzata da Claudio Burlando): alcuni indagati per voto di scambio o con frequentazioni tra famiglie calabresi al centro di inchieste.
Una situazione che ha costretto a intervenire big nazionali come Gianni Cuperlo e Pierluigi Bersani: “Quanto sta accadendo in Liguria è molto preoccupante e grave. La pesante intromissione del centrodestra nelle primarie liguri — sostiene Cuperlo — snatura e mina la legittimità delle primarie stesse”.
Ma Burlando replica: “Ben vengano nuovi elettori. Ci siamo sempre lamentati quando scappavano gli elettori e ora ci lamentiamo perchè ne vengono di nuovi?”.
Ma anche gli altri sono in preda ai travagli.
Con il M5S che, sotto la superficie, è diviso: da una parte i fedeli a Grillo, alle regionarie. Dall’altra chi intravvede la possibilità di vincere, di voltare pagina dopo sessant’anni di centrosinistra.
“È un’occasione irripetibile. Possiamo salvare questa terra. Abbiamo in mano il biglietto della lotteria, ma ho il terrore che lo cacceremo nel cesso”, sospira Paolo Putti, capogruppo M5S in comune.
Ecco la Liguria di oggi. Divisa su tutto, lo ha mostrato il dibattito tv.
Con passaggi al limite del surreale, come quando Cofferati rimprovera a Paita l’appoggio di scajoliani ed esponenti di destra. E lei che risponde: ma tu sei appoggiato da Sel.
Il confronto-scontro tv è stato molto più di un dibattito elettorale locale.
Pare una fotografia perfetta del Pd nazionale in pezzi. “Sergio, calmati, sei nervoso”, ripeteva Paita mentre anche a lei tremavano le mani e ingoiava un bicchiere d’acqua dopo l’altro.
E Cofferati che cercava di mostrarsi mite mentre la insultava: “Maleducata”. “
Appena ho dato il via alla trasmissione è stato come suonare il gong tra due pugilatori. Sono volati gli stracci”, sorride Luigi Leone, direttore di Primocanale.
Uno scontro tra mondi diversi, su ogni tema. A cominciare dalle grandi opere.
Con Paita che vuole vestire i panni della decisionista. E Cofferati che, pure favorevole ai progetti, parla di “dibattito pubblico”.
Volano parole grosse: “Tu disprezzi la gente”, dice lui. “Non voglio amministrare come Doria”, ribatte lei. Chissà cos’ha pensato il sindaco Marco Doria che, in teoria, sarebbe sostenuto dallo stesso centrosinistra di Paita e che sente la sua poltrona scricchiolare.
Le eventuali candidature di indagati? “Dipende… sono garantista”, apre uno spiraglio Paita muovendosi sul confine sottile tra accontentare gli “amici” di centrodestra e perdere gli elettori di centrosinistra.
E Cofferati? “No, è una questione di opportunità ”.
Uno spettacolo che ha fatto tremare tanti dirigenti Pd. “Il partito non esiste più. Quello che ci unisce ormai è solo una cosa: il potere”, allarga le braccia un pezzo grosso dell’ex Pci che preferisce non essere citato.
Aggiunge: “Per onestà intellettuale dovremmo separare le nostre strade. Ma troppi di noi tacciono perchè hanno paura di perdere il cadreghino”.
Ma chi voncerà domenica? “Dipende dall’affluenza alle urne. Che rischia di essere bassissima, perchè la gente non ne può più. Da una parte c’è Paita, un’imprenditrice di se stessa; dall’altra Cofferati, un notabile che fa da foglia di fico”, sostiene il politologo Pierfranco Pellizzetti. Pronostici? “Se l’affluenza sarà bassa, credo sarà favorita Paita che può contare su cricche e cordate di apparato”.
Il riferimento è al partito e al sistema di potere fedele a Claudio Burlando, primo sponsor di Paita e signore del centrosinistra da decenni.
Conclude Pellizzetti: “Sarà decisiva Genova. Se nel capoluogo voteranno in pochi, vinceranno le province”.
Come La Spezia e Imperia, dove Paita ha incassato gli appoggi di ex scajoliani ed ex An.
“La faida nel Pd apre praterie per i Cinque Stelle”, conclude Leone. Già , i grillini.
Che proprio ieri hanno cominciato a selezionare online i candidati consiglieri regionali. Ma ancora devono scegliere il presidente. “Abbiamo delle regole precise, dobbiamo rispettarle . Sennò diventiamo come gli altri”, sostengono i fedeli al leader.
Ma c’è chi ribatte: “Così perderemmo un’occasione storica per salvare la nostra terra. Non solo: faremmo da tappo all’opposizione e alla fine saremmo i garanti della vittoria di burlandiani e scajoliani. La responsabilità sarà nostra”.
Su una cosa sembrano tutti d’accordo, Pd, scajoliani e Cinque Stelle: nei prossimi tre giorni si gioca il futuro della Liguria.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
L’IDEA CHE L’ISLAM ESIGA UNA RISPOSTA VIOLENTA AGLI INSULTI CONTRO MAOMETTO E’ UNA PURA INVENZIONE
Nella loro furia omicida gli autori del massacro di Parigi urlavano di aver “vendicato il Profeta”, seguendo le orme di altri terroristi che hanno fatto saltare redazioni di giornali, accoltellato un regista, ucciso scrittori e traduttori, convinti che questa, secondo il Corano, sia la giusta punizione per i blasfemi.
In realtà il Corano non punisce la blasfemia.
Come in molti altri casi alla base del fanatismo e della violenza del terrorismo islamico, anche l’idea che l’Islam esiga una risposta violenta agli insulti nei confronti del profeta Maometto è un’invenzione dei politici e dei religiosi, finalizzata a un progetto politico.
L’unico libro sacro che contempli la blasfemia è la Bibbia.
Il Vecchio Testamento la condanna e prevede dure punizioni per i blasfemi.
Il passaggio più noto è tratto dal Levitico (24: 16): «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte».
Al contrario nel Corano il termine blasfemia non appare mai. (Detto per inciso, il Corano non proibisce neppure di ritrarre Maometto, pur esistendo diversi detti del Profeta, o hadith, che lo vietano al fine di evitare l’idolatria).
Lo studioso islamico Maulana Wahiduddin Khan afferma che «in più di 200 versi del Corano viene rivelato che i contemporanei del Profeta perpetrarono ripetutamente l’atto oggi definito “blasfemia o insulto al Profeta…” ma il Corano non impone di punirlo con frustate, la morte o qualunque altro castigo fisico».
In varie occasioni Maometto si mostrò comprensivo e cortese con quelli che deridevano la sua persona e i suoi insegnamenti.
«Nell’Islam – dice Khan – la blasfemia è oggetto di dibattito intellettuale più che di punizioni fisiche».
Qualcuno ha dimenticato di dirlo ai terroristi. Ma il credo raccapricciante e sanguinario adottato dai jihadisti, che considerala blasfemia e l’apostasia gravi crimini contro l’Islam da punire con la violenza, trova purtroppo vasta diffusione nel mondo musulmano, anche tra i cosiddetti “moderati”.
La legislazione di molti paesi a maggioranza musulmana prevede norme contro la blasfemia e l’apostasia, che in qualche realtà vengono applicate
L’esempio più significativo è dato dal Pakistan.
Stando ai dati della Commissione americana sulla libertà religiosa internazionale, a marzo almeno 14 persone in quel paese erano in attesa di esecuzione e 19 scontavano una condanna all’ergastolo.
Il proprietario del più importante gruppo di media locale è stato condannato a 26 anni di carcere per via di una trasmissione in cui, come sottofondo alla scena di un matrimonio, era stato trasmesso un canto religioso sulla figlia di Maometto.
E il Pakistan è in buona compagnia: Bangladesh, Malaysia, Egitto, Turchia e Sudan, tutti hanno fatto un uso punitivo e persecutorio delle leggi contro la blasfemia.
Nella moderata Indonesia, dal 2003 sono 120 le persone in carcere con questa accusa. L’Arabia Saudita proibisce qualunque pratica religiosa che non corrisponda alla sua versione wahabita dell’Islam.
Il caso del Pakistan è significativo perchè l’estremizzazione delle norme contro la blasfemia è relativamente recente e ha cause politiche.
Con l’intento di emarginare l’opposizione democratica e liberale il presidente Mohammed Zia Ul-Haq alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta si avvicinò ai fondamentalisti islamici, senza remore nei confronti degli estremisti.
Approvò una serie di leggi che islamizzavano il paese, una delle quali proponeva la pena capitale o il carcere a vita per chi avesse insultato in qualunque forma Maometto.
Quando i governi tentano di ingraziarsi i fanatici, finisce che questi ultimi prendono in mano la legge.
In Pakistan, i jihadisti hanno ucciso decine di persone con l’accusa di blasfemia, incluso Salmaan Taser, il coraggioso politico che osò criticare aspramente la legge contro la blasfemia.
Dobbiamo combattere i terroristi di Parigi, ma dobbiamo combattere anche le radici del problema.
Non basta che i leader musulmani condannino gli assassini se i loro governi poi avallano il concetto che la blasfemia va punita.
La commissione Usa per la libertà religiosa e il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno dichiarato, a ragione, che le leggi contro la blasfemia costituiscono una violazione dei diritti umani universali in quanto violazione della libertà di parola e di espressione.
Nei paesi a maggioranza musulmana nessuno osa rivedere queste norme.
Nei paesi occidentali nessuno si confronta con gli alleati su questo tema. Ma la blasfemia non è una questione esclusivamente interna ai singoli paesi.
Oggi è al centro del sanguinoso confronto tra gli islamisti radicali e le società occidentali.
Non può più essere trascurata. I politici occidentali, i leader musulmani e gli intellettuali ovunque dovrebbero ribadire che la blasfemia non esiste nel Corano e non dovrebbe esistere nel mondo moderno.
Fareed Zakaria
(da La Repubblica – The Washington Post. Traduzione di Emilia Benghi)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
L’IDEA CHE IN QUESTA RELIGIONE SIA CONNATURATA LA VIOLENZA E’ ASSOLUTAMENTE SBAGLIATA
Il paradosso è che Islam viene dalla radice s-l-m che in arabo forma “salam” e in ebraico
“shalom”, cioè pace.
Esso quindi significa pace e rimanda alla pace del cuore e della mente che si ottiene quando ci si sottomette a quella verità ultima del mondo tradizionalmente detta Dio. Questo sottomettersi però non è da intendersi come cessazione della libertà , come la Soumission descritta da Michel Houellebecq nel suo nuovo romanzo e come a loro volta l’intendono gli integralismi islamici di ogni sorta, Is, Al Qaeda, Boko Haram, Hezbollah e affini.
Si tratta piuttosto di sottomettersi nel senso di “mettersi sotto”, ripararsi, come quando piove forte e ci si rifugia dall’acquazzone.
È la medesima disposizione esistenziale che porta i buddhisti a recitare ogni giorno “prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Sangha”, e che porta i cristiani a dire “Amen” cioè “è così, ci sto, mi affido” o a recitare Sub tuum praesidium.
La sottomissione equivale alla custodia e al compimento della libertà del singolo che trova un porto a cui approdare e quindi una direzione verso cui navigare: è questo il fondamento originario alla base dell’Islam e di ogni altra religione.
Oggi però nella mente occidentale l’Islam è ben lontano dal venire associato a ciò a cui la sua radice rimanda.
Evoca piuttosto il contrario, la guerra, la lotta, il terrore.
Un duplice grande compito attende quindi ogni persona responsabile: prima capire, e poi far capire, che non è per nulla così.
Ieri accompagnando mia figlia a scuola pensavo che in classe avrebbe trovato un compagno di fede musulmana e mi chiedevo con che occhi l’avrebbe guardato e con che occhi l’avrebbero guardato gli altri studenti.
La disposizione dello sguardo dei figli dipende molto dallo sguardo e dalle parole degli adulti.
Ma ora qualcuno provi a pensare di essere un musulmano quindicenne che ogni giorno si sente addosso sguardi diffidenti e rancorosi, e immagini che cosa finirebbe per pensare dell’occidente.
Non sto per nulla dicendo che se c’è il terrorismo islamico è colpa nostra perchè noi occidentali siamo malvagi e imperialisti, anche perchè sono convinto del contrario, cioè che se c’è il terrorismo islamico è soprattutto per l’incapacità dell’Islam e delle sue guide spirituali di gestire l’incontro con la modernità , come più avanti argomenterò.
Sto dicendo piuttosto che siccome il terrorismo islamico purtroppo c’è ed è in crescita nel cuore stesso dell’Europa, spetta a ognuno di noi decidere se trasformare ogni musulmano in un nemico e in un potenziale terrorista oppure no.
E tutto procede da come parliamo dell’Islam e da come guardiamo i musulmani.
L’Islam è una grande tradizione spirituale con quattordici secoli di storia e con oltre un miliardo di fedeli.
L’idea che a questa religione sia essenzialmente connaturata la violenza è profondamente sbagliata da un punto di vista teorico e soprattutto è tremendamente nociva da un punto di vista pratico, perchè non fa che suscitare a sua volta violenza e da qui il gorgo che può finire per risucchiare irrimediabilmente la vita delle giovani generazioni.
È vero che nel Corano vi sono pagine violente e che la storia islamica conosce episodi violenti, ma questo vale per ogni fenomeno umano.
La Bibbia ha pagine di violenza inaudita e sia l’ebraismo sia il cristianesimo conoscono il fanatismo religioso e la violenza che ne promana.
Lo stesso vale per l’hinduismo con l’ideologia detta hindutva.
Persino il più mite buddhismo conosce oggi episodi di intolleranza in Sri Lanka e Myanmar
Dando uno sguardo alla politica, che cosa abbiano prodotto la destra e la sinistra nel ‘900 è cosa nota: repressione dei diritti umani e milioni di vittime innocenti.
Andando poi all’evento madre da cui è nata l’idea di laicità nella società europea, cioè la Rivoluzione francese, nei dieci anni della sua durata (1789-1799) si registra un numero di vittime variamente stimato dagli storici ma comunque enorme, visto che nei diciassette mesi del Terrore tra il 1793 e il 1794 si ebbero centomila vittime, una media di quasi 200 morti al giorno.
E tutto questo nel nome di “ libertè, ègalitè fraternitè”, compresa, immagino, la libertà di stampa.
Noi non abbiamo nessun titolo per dare lezioni ai musulmani, se non uno solo: che siamo più vecchi e abbiamo più storia.
Oggi buona parte dell’Islam, come l’Occidente cristiano nel passato, sta vivendo l’incontro con la secolarizzazione sentendosi aggredito, nel senso che i processi di laicità e di modernità risultano per esso come dei virus infettivi a cui reagisce attaccando e facendo così venir meno la tradizionale tolleranza che ha contraddistinto buona parte della sua storia.
Dalla Rivoluzione francese alla Seconda guerra mondiale, in un arco di oltre 150 anni, l’Occidente ha vissuto la sua influenza con febbri altissime, imparando alla fine a usare quel metodo della gestione della vita pubblica tra persone di diverso orientamento culturale e religioso che si chiama democrazia (per quanto ancora in modo molto imperfetto).
E noi questo dobbiamo fare: esportare democrazia. Non ovviamente nel senso criminale di George Bush e della sua guerra in Iraq (che ha molta responsabilità per la trappola in cui stiamo finendo), ma nel senso del rispetto delle idee e della vita altrui, da cui si produce quello sguardo amichevole che è il solo vero metodo per suscitare pace e lasciare una società migliore a chi verrà dopo di noi.
Questo non significa che non bisogna essere determinati nella lotta contro i terroristi islamici, significa solo che occorre sempre saper distinguere l’organismo dalla malattia contratta.
E in questa distinzione dovrà consistere la nostra lotta quotidiana a favore della pace del mondo.
Vito Mancuso
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
MICHEL CATALANO, TITOLARE DELLA TIPOGRAFIA, HA RACCONTATO AL “FIGARO” L’ORA TRASCORSA CON I TERRORISTI
Ancora sconvolto da quella che ha definito “un’esperienza surreale”, il titolare della tipografia dove si sono asserragliati ieri i fratelli Kouachi a Dammartin-en-Goele ha raccontato oggi a Le Figaro l’ora trascorsa con i due terroristi.
Tutto è cominciato, ha detto Michel Catalano, quando è suonato il campanello poco dopo le otto.
Mentre scendeva, ha sentito due uomini parlare con il capo dell’atelier e ha visto che erano armati.
Allora ha ordinato a Lilian, il grafico di 26 anni, di nascondersi, ed è andato incontro ai Kouachi che salivano le scale.
“E’ stato un momento incredibile gli ho offerto il caffè nel mio ufficio e abbiamo parlato”.
Catalano racconta che i due autori del massacro a Charlie Hebdo non sono mai stati aggressivi con lui e gli hanno anche consigliato di chiamare i gendarmi per dirgli che era con loro.
Quando è arrivato un fornitore, Catalano ha chiesto di lasciarlo andare e loro lo hanno fatto.
Poi sono arrivati gli agenti della gendarmeria e i due hanno fatto segno di non sparare fino a quando Catalano non si è messo a riparo. A questo punto vi sono stati dei colpi e Said, il maggiore, è rimasto ferito al collo.
Catalano gli ha messo una benda.
I due fratelli hanno detto al tipografo di non preoccuparsi perchè l’avrebbero fatto andare via.
Alla terza richiesta da parte di Catalano, il minore dei due, Cherif, ha accettato di farlo uscire. Appena fuori, Catalano ha avvertito che Lilian era nascosto all’interno.
E’ cominciata allora un’attesa estenuante con una forte preoccupazione per il giovane grafico: “se gli fosse accaduto qualcosa, non me lo sarei mai perdonato”, afferma.
La sera, dopo che tutto era finito e Lilian era sano uscito sano e salvo dalla tipografia, Catalano è riuscito a tornare a casa.
Allora c’è stato un lungo abbraccio con il figlio Valentin, che fa l’apprendista in tipografia ma ieri mattina era a scuola.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
IL RAGAZZO DI 24 ANNI HA AVUTO LA PRONTEZZA DI SPIRITO DI NASCONDERLI IN TEMPO
È riuscito a salvare sei ostaggi, nascondendoli in una cella frigorifera. 
Lassana Bathily, 24 anni, immigrato del Mali di religione musulmana, dipendente del supermarket kosher, è un altro degli eroi della vicenda che si è consumata nella zona di Porte de Vincennes a Parigi.
Il ventiquattrenne, musulmano originario del Mali, si sarebbe subito reso conto della gravità della situazione: secondo il racconto dei sopravvissuti, avrebbe cercato di radunare quante più persone possibili per nasconderle in una cella frigorifera del negozio.
Bathily non avrebbe lasciato nulla al caso. Ha spento l’impianto di raffreddamento insieme alla luce della stanza, per non destare sospetti.
Dopo aver messo in salvo i clienti ed essersi messo in contatto con la polizia, il giovane sarebbe tornato tra i corridoi del negozio.
Sono almeno sei le persone che, alla fine delle dure ore di prigionia, avrebbero abbracciato e ringraziato Lassana.
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
IL RACCONTO AL “DAILY MAIL” DI UN SOPRAVVISSUTO: “HA RUBATO LA PISTOLA A COULIBALY MA NON CE L’HA FATTA”
Ci sono stati anche atti di eroismo all’interno del supermercato kosher di Parigi dove Amedy Coulibaly teneva in ostaggio alcune persone.
Un sopravvissuto, Mickael B, che si trovava nel negozio insieme al figlio di 3 anni, all’indomani della tragedia ha raccontato il coraggio di uomo che avrebbe tentato di fermare il sequestratore, ma sarebbe poi stato ucciso a sangue freddo.
Secondo la sua ricostruzione, l’ostaggio sarebbe riuscito a prendere la pistola di Amedy e l’avrebbe rivolta contro di lui.
Ma qualcosa non ha funzionato: l’arma era bloccata e questo avrebbe dato il tempo al sequestratore di comprendere la situazione e di uccidere l’uomo.
Mickael ha raccontato al Daily Mail la sua drammatica esperienza: “Stavo cercando qualche moneta nelle mie tasche per pagare quando ho sentito un bang, un suono terribilmente forte. Voltandomi ho visto un uomo di colore, armato con due Kalashnikov e ho iniziato a capire cosa stesse succedendo. Ho afferrato mio figlio e l’ho portato nel retro del negozio. Lì, con altri due clienti del negozio, abbiamo sceso le scale fino ad arrivare ai sotterranei. Eravamo uno sopra all’altro, riuniti in due stanze freddissime e non riuscivamo a chiudere le porte. Eravamo terrorizzati. Cinque minuti dopo un’impiegata del negozio è stata mandata giù, dove eravamo noi, dal sequestratore. Ci ha detto che dovevamo tornare su altrimenti ci avrebbe uccisi tutti. Io mi sono rifiutato”.
Il racconto continua con la descrizione degli attimi di terrore: “Da quel momento in poi, mio figlio è andato nel panico. Qualche minuto dopo, l’impiegata è tornata con lo stesso messaggio. Ho deciso di salire. Una volta sopra ho visto un uomo morto, in una lago di sangue. Poi il sequestratore si è presentato a noi. Era stranamente calmo. “Sono Amedy Coulibaly, musulmano. Servo lo Stato Islamico”, ci ha detto. “E poi ci ha obbligati a lasciare i nostri telefoni per terra. Girava per la stanza, armato, continuando a parlare di Palestina, dei suoi fratelli in Siria e di altre cose”.
Ed è a questo punto che un altro ostaggio ha preso il coraggio di rubargli la pistola: “Improvvisamente – racconta Mickael – un uomo ha tentato di prenderla, l’ha afferrata e gliel’ha puntata. Ma non funzionava. Amedy l’aveva lasciata per terra proprio perchè si era bloccata dopo il primo colpo. Il sequestratore l’ha visto e l’ha ucciso immediatamente, davanti ai nostri occhi”.
Il telefono del negozio continuava a squillare. Il bambino ha iniziato a piangere e continuava a dire al padre che voleva tornare a casa. “Ho continuato ad usare il mio cellulare in modo discreto, ero in contatto con la polizia. Le autorità mi avevano avvertito del blitz, dicevano che dovevamo buttarci a terra appena fosse iniziato”.
Per quanto riguarda il terrorista: sapeva di dover morire. “Diceva che sarebbe stata la sua ricompensa. All’improvviso ha iniziato a pregare”.
Poi il boato, gli spari, il fumo: “Amedy era morto. Era finita”.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
ALLA GRANAROLO I LAVORATORI TENUTI A DISTANZA E “OSCURATI” DA STAMPA E TV
Bologna blindata oggi per Matteo Renzi, che è arrivato alla presentazione di un nuovo
stabilimento della Granarolo e, dopo, ha partecipato all’inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università .
Su entrambi i fronti, cortei e proteste da parte di sindacati e centri sociali.
Nello stabilimento alle porte della città , una quarantina di operai della Cgil ha scioperato contro il Jobs Act: un sit-in blindato e quasi invisibile, visto che gli operai sono stati tenuti dentro la fabbrica, “nascosti” dai flash dei fotografi, anche se si sono fatti sentire con fischietti e trombette.
In pieno centro, invece, c’è stato il corteo dei collettivi: una manifestazione ad alta tensione ma senza scontri, che è sfociata in un lancio di uova. Infine, una “invasione” simbolica dei manifestanti a Palazzo d’Accursio.
Il corteo degli studenti dei collettivi è partito da piazza Verdi attorno alle 10.45: una settantina gli attivisti, che hanno manifestato con le maschere di Salvini e Poletti. “Renzi e il suo governo vogliono una scuola-azienda e la privatizzazione del sapere, e noi non ci stiamo” hanno scandito al megafono.
Poi, quando si sono avvicinati alla “zona rossa” di Santa Lucia, il lancio di uova e coriandoli. Il corteo è ripartito lungo via Farini, per concludersi con una occupazione lampo di Palazzo d’Accursio. E’ stato appeso alle finestre che danno sulla piazza lo striscione che apriva il corteo contro il premier e il rettore di Bologna Ivano Dionigi: “Meritate una lezione magistrale. Stop mafia Pd”.
In una sala adiacente l’Aula magna di Santa Lucia, il premier ha poi incontrato il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, che ha denunciato di aver ricevuto minacce per aver deciso di fermare la maxi-realizzazione nella frazione di Idice (ribattezzata “la colata di cemento”).
Primo a parlare è stato il rappresentante degli studenti. Poi tocca a Nadia Paolucci, precaria, che parla a nome del personale tecnico e amministrativo: “Do voce ai colleghi precari che come me lavorano anche da dieci anni nella speranza di stabilizzazione che i governi disattendono. Dove è il cambiamento tante volte evocato dal governo? Chiediamo nuove assunzioni per tecnici di laboratori, amministrativi e bibliotecari: è anche grazie a noi precari che l’università ha continuato a funzionare. E ancora: “Come lavoratori pubblici ci siamo indignati per il Jobs Act. E poi i nostri contratti sono bloccati da più di sette anni, in quattro anni abbiamo perso in busta paga 4.200 euro, sono stati tagliati persino i buoni pasto”.
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 10th, 2015 Riccardo Fucile
VIAGGIO IN REDAZIONE DOPO L’ATTENTATO: ”TORNEREMO A FAR RIDERE”
“Il prossimo numero di Charlie Hebdo si farà come se Charb e gli altri fossero ancora tra noi. In questo numero loro non sono morti. Non sarà un numero omaggio, sarebbe stato troppo facile. Alcune pagine saranno dedicate al massacro, ma non aspettatevi un necrologio. Sarà divertente. Far ridere è la sola cosa che sappiamo fare”.
I giornalisti e i disegnatori del settimanale satirico si sono rimessi a lavoro alle 11 di ieri intorno al capo redattore Gèrard Biard.
La nuova vita di Charlie Hebdo comincia in un open space messo a disposizione dai colleghi del quotidiano Libèration, all’ottavo piano della redazione che si trova in un ex parcheggio al numero 11 rue Bèranger.
Alle pareti ci sono alcune recenti prime pagine del giornale, come quella della mela che piange pubblicata alla morte di Steve Jobs.
Fuori c’è tutta Parigi e il suo cielo grigio. Intorno al tavolo circolare per la prima conferenza di redazione dopo la strage di mercoledì sono più o meno una trentina.
Non ci sono più il direttore Charb. Non ci sono più Cabu, Honorè, Wolinski, Tignous. “Ma i loro disegni, sì, saranno nel numero di mercoledì”, ci confida Biard al termine della conferenza di redazione .
È toccato a lui il compito di gestire una riunione di diverse ore che non serviva solo a fare un giornale e dove ridere di nuovo insieme serviva da terapia a tutti: “All’inizio ci sembrava inconcepibile riuscire a metterci tutti intorno a un tavolo a lavorare. Ma dovevamo farlo per ricostruirci”, ha osservato il giornalista Patrick Pelloux, che è stato tra i primi ad entrare nella redazione del giornale dopo il dramma e a trovare i suoi amici e colleghi accasciati.
Il timone del prossimo numero dunque c’è già . “Abbiamo deciso di fare un numero normale, di sedici pagine, e non di otto, come pensavano di fare all’inizio — annuncia Biard. Le persone che lo acquisteranno dovranno trovare il giornale che conoscono, con le solite rubriche, non un numero speciale. Chi ci legge sa che non troverà mai a Charlie una colomba della pace. Ricordo la vignetta che aveva disegnato Charb dopo il sequestro in una scuola materna di Neuilly nel 93. Charb aveva ricostruito la scena con l’attentatore e poi in un angolo aveva disegnato un orsacchiotto. Era di un’incredile violenza, ma non potevi fare a meno di scoppiare a ridere”.
La prima pagina e la sua vignetta no, non sono state ancora decise: “Lo saranno lunedì sera, come al solito”.
Potrebbe essere uno dei tre schizzi che Willem ha appena consegnato.
Anche il disegnatore che salta tutte le riunioni perchè “sono troppo noiose” ieri era in redazione: “All’inizio l’atmosfera era pesante, ma poi Luz ha fatto una battuta, ci siamo messi a ridere e allora è andata meglio, ci siamo sciolti. Il nostro mestiere è fare gli stupidi, ed è quello che continueremo a fare”, ha raccontato il disegnatore.
Dal giorno dell’assalto le autorità gli hanno proposto una guardia del corpo, ma lui ha rifiutato: “Non mi piace l’idea di avere un tipo armato accanto me”.
Al limite del paradossale chi ha tentato di uccidere Charlie Hebdo sta riuscendo a farlo rivivere.
Il giornale disperatamente in rosso dispone ora di “mezzi mai visti prima”.
Il ministero della Cultura sblocca d’urgenza un milione di euro.
In due giorni sono stati registrati diecimila nuovi abbonamenti. Una colletta di fondi è stata organizzata su internet. Tutti i media offrono computer, materiale, giornalisti. Come nel 2011, quando la sede di Charlie Hebdo era stata incendiata da una molotov, Libèration ha aperto le porte a vecchi amici: “Tutti si aspettano che continuiamo a fare il nostro lavoro. Come Charlie Hebdo ha continuato a fare il suo in questi ultimi otto anni, nonostante le minacce”, ha detto il direttore di Libè, Laurent Joffrin.
Davanti alla sede del giornale il numero di poliziotti è stato moltiplicato per tre. “Ma ci sentiamo al sicuro”.
Quanto potranno restare i colleghi di Charlie? “Tutto il tempo che vogliono”.
La redazione della rue Nicolas Appert è ancora sigillata: “Ma non so se riusciremo mai a tornare lì”, ci confida Biard.
Ci sarà da nominare un nuovo direttore: “Per adesso facciamo questo numero. Alle altre questioni, alla riorganizzazione della redazione, ci penseremo dopo”.
Luana De Micco
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »