IN ATTESA DEI RUBLI DI PUTIN, SALVINI SI VENDE VIA BELLERIO: CHIUDE LA STORICA SEDE DELLA LEGA
SARA’ VENDUTA LA SEDE COMPRATA DA BOSSI NEL 1993… IN MOBILITA’ TUTTO LO STAFF… FATE ATTENZIONE, ORA SALVINI POTREBBE COMPARIRE SUL VOSTRO PIANEROTTOLO
Via Bellerio addio. Il quartier generale della Lega non ha ancora riaperto dopo le vacanze di Natale.
Il portone sormontato dal Sole delle Alpi resterà sbarrato fino a lunedì prossimo.
Ma, alla riapertura, non sarà un ritorno alla normalità : la storica della sede del Carroccio, orgoglio e vanto di Umberto Bossi, è giunta alla sua conclusione.
Tutta l’attività sarà provvisoriamente concentrata in pochi, pochissimi locali in quella che fu la sede della Padania , già chiusa dallo scorso primo dicembre.
Sempre nel complesso di via Bellerio, ma in una palazzina separata.
Il movimento potrà così risparmiare su riscaldamento, pulizie e altre spese correnti, ormai insostenibili dopo la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti che, nel 2017, si esaurirà definitivamente.
Resta tuttavia da capire come la prenderà Umberto Bossi, il cui ufficio con ampio terrazzo all’ultimo piano della palazzina principale è assai distante dai locali dell’ex Padania
A lavorare nelle stanze del quotidiano scomparso ci sarà soltanto un pugno di persone: i dipendenti saranno cinque o sei al massimo, anche se il segretario Matteo Salvini conta in una pattuglia più nutrita di collaboratori alimentata dal volontariato.
Poca cosa, in ogni caso, rispetto alla trentina di persone che ci lavoravano fino ad alcune settimane fa: per i 71 dipendenti della Lega (una quarantina lavora fuori dal fortino di via Bellerio, nelle sedi regionali o provinciali), il partito ha chiesto la cassa integrazione a zero ore.
La trattativa è in corso, giusto mercoledì scorso un incontro con i dipendenti è andato a vuoto. Ma per loro, sperare nei miracoli è difficile.
A trattare la cosa, peraltro, non è la politica, ma lo studio internazionale Pwc, PricewaterhouseCoopers
Le cose resteranno in tale limbo fino a quando la Lega non troverà l’occasione di cedere gli edifici di via Bellerio a un prezzo che non sia troppo stracciato.
Ma questa non è una gran notizia: se il complesso di palazzine alla periferia Nord di Milano ancora non è stata venduto, è soltanto perchè fino a qui non si è trovato un acquirente.
La crisi immobiliare, certo. Ma anche il fatto che le spese per rimettere a nuovo quegli edifici dall’atmosfera sovietica sarebbero tutt’altro che lievi.
Probabilmente, non sarà Matteo Salvini a piangerci sopra. Il segretario leghista non è felice di dover essere colui che licenzia decine di persone che conosce magari da decenni, per giunta proprio nel momento del suo successo personale.
Ma via Bellerio appartiene a una storia della Lega che non c’è più: è Umberto Bossi. Che nel 1993 acquistò quei 7.600 metri quadrati all’estrema periferia (Nord, ovviamente) di Milano come simbolo in cemento e mattoni dell’orgogliosa diversità della Lega.
Gli altri partiti, già squassati dall’inchiesta Mani pulite, disponevano ancora di sedi prestigiose in palazzi nobili nel centro della città .
La Democrazia cristiana in via Nirone, a due passi da Sant’Ambrogio e dall’Università Cattolica, il Partito socialista in corso Magenta, a poca distanza.
Meno sontuosa, forse, ma almeno altrettanto spaziosa, la stanza dei bottoni dell’allora giovane Pds, in via Volturno, all’Isola, oltre la Stazione Garibaldi
La Lega, no. Il suo quartier generale era in una zona popolare, un tempo industriale, negli spazi che erano stati di una vecchia società farmaceutica, la Meazzi.
Assai distante anche fisicamente dal potere degli «altri».
Il salasso non era stato da poco, per il giovane movimento federale: 14 miliardi di lire, a fronte di un finanziamento pubblico di 6,2 miliardi l’anno.
Sul reperimento della differenza, parecchio è stato scritto. Eppure, proprio negli stessi mesi, la Lega mise a segno il suo colpo fino a quel momento più grande: la conquista di Milano con il «borgomastro» Marco Formentini, trampolino dell’accordo che portò i barbari non ancora sognanti al governo con Silvio Berlusconi, l’anno successivo. Qualche tempo più tardi, a volta secessionista ormai sancita, via Bellerio fu il teatro di un episodio tutt’ora mitizzato dai leghisti che ne furono testimoni.
La perquisizione da parte della polizia, ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, in cerca di evidenze sull’attività della Guardia nazionale padana.
Roberto Maroni ne era il responsabile e proprio l’oggi governatore lombardo si oppose all’iniziativa disposta dalla Procura di Verona. Che si concluse con un tafferuglio. Maroni finì la giornata malconcio, in ospedale e fu più tardi condannato per resistenza a pubblico ufficiale.
Il procedimento sulle Camicie verdi, invece, non è ancora ufficialmente iniziato: la Procura di Bergamo ha chiesto al gip il rinvio a giudizio per 34 protagonisti dell’associazione di allora.
Ma dopo la malattia di Umberto Bossi nel 2004, tutto progressivamente cambiò.
Il palazzo di via Bellerio, da cuore pulsante del movimento passò a essere considerato il simbolo stesso del «cerchio magico», il ristretto gruppo dei vicinissimi al «capo». Per molti militanti, una sorta di corte al centro di intrighi sempre più distanti dalla natura popolare della Lega.
Poi, con la caduta di Bossi, il sovradimensionamento di via Bellerio fu una delle prime cose che balzarono all’occhio della spending review interna voluta dal suo successore, Roberto Maroni.
Ma, appunto, la crisi aveva già iniziato a soffiare.
I dipendenti, chissà , con il tempo potranno essere riassorbiti in altre iniziative.
Ma per la vecchia azienda farmaceutica, i fasti sono definitivamente al capolinea.
Marco Cremonesi
Leave a Reply