Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
COLPA DEI PROFUGHI? NO, DEI GOVERNI LOCALI DI CENTRODESTRA CHE NON FANNO UNA MAZZA
Ci risiamo. Come le estati scorse. Ma forse anche peggio.
A torso nudo sotto le procuratie vecchie di piazza San Marco, come fossimo in spiaggia a Jesolo.
In costume sopra il monumento alla «Partigiana», in riva Sette Martiri ai Giardini di Castello.
E ancora: un bagno completamente nudo nel Canal Grande.
Succede ogni anno ed è successo ancora.
Con l’arrivo del caldo, i visitatori di Venezia dimenticano puntualmente il «bon ton» e passeggiano tra monumenti come farebbero tra i chioschi in riva al mare.
Peccato che a Venezia, come in ogni altra città , sia vietato e i vigili dovrebbero multarli con 50 euro di multa (ammesso che esistano)
La scena si ripete praticamente ogni giorno. La città , i suoi residenti e (bisogna dirlo) anche buona parte di turisti, iniziano a non poterne davvero più.
Quest’anno, forse complice anche il grande caldo che attanaglia la laguna dai primi di luglio, il bestiario è particolarmente vario.
Così, oltre ai consueti turisti scamiciati, grazie alle «sentinelle» di due gruppi Facebook («Via il gabbiotto dal campanile» e «Venice Summer Outfits») possiamo ammirare un panorama vasto.
Fatto di gente che, distesa, prende il sole in piazza San Marco, che fa il bagno (nudi o vestiti, o in topless: tutte le varianti sono presenti) tra il Canal Grande e l’isola di Sant’Elena a due passi dallo stadio.
Oppure si rinfresca facendo qualche bracciata tra i canali.
Non mancano gli angoli-wc. Ricordate la foto della pipì nel cestino dell’anno scorso? Bene, quest’anno il menu veneziano si amplia e offre gabinetti a cielo aperto tra la stazione Santa Lucia e piazzale Roma.
La Regione che fa casino per ospitare quattro profughi non si accorge del degrado portato da turisti incivili e non muove un dito per porvi fine.
Zaia e il nuovo sindaco di Venezia devono pensare ai profughi, se il degrado arriva dagli italiani meglio chiudere un occhio e forse anche due.
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
AZIENDE ITALIANE IN FUGA: LE GRANDI IMPRESE PRODUCONO IL 70% ALL’ESTERO
La crisi non è ancora finita per le grande imprese italiane e solo nella manifattura si rivedono segnali
di ripresa.
Un dato su tutti allarma il paese: il 70% di quanto prodotto dalle grandi imprese italiane è “estero su estero” – senza quindi coinvolgere impianti e manodopera nel Paese – anche perchè i margini di redditività sono ben inferiori rispetto a quelli oltreconfine: il ritorno sul capitale (Roe) è del 5,2% contro il 14,3% all’estero.
Per l’industria e i servizi anche nel 2014 abbonda il segno meno, ma mentre la manifattura vede la ripresa grazie alla spinta dell’estero, il terziario, chiuso nel recinto domestico, soffre ancora.
Questa la fotografia dell’Ufficio studi di Mediobanca, che ha analizzato i dati di 2055 società industriali e terziarie di grandi e medie dimensioni operanti in Italia.
Per le grandi imprese che producono in Italia nel 2014 le vendite sono scese del 2,2% (-4,3% sul solo mercato interno), con l’occupazione in calo dell’1,1%.
Le stime per il 2015 non molto diverse: il miglioramento più probabile è nei soli investimenti.
Nel rapporto sono incluse tutte le aziende con più di 500 dipendenti e il 20% di quelle di medie dimensioni e i dati si riferiscono alle sole attività esercitate nella penisola italiana.
FATTURATO
L’industria e i servizi italiani chiudono il 2014 con un calo di vendite del 2,2%.
Cresce l’estero (+2,2%), cade il mercato interno (-4,3%) e flette l’occupazione (-1,1%), mai in positivo dal 2008.
Perdono vendite sia le imprese pubbliche (-5,7%) che le società private (-1%).
Segnali positivi arrivano comunque dalla manifattura (+1,1%), soprattutto quella di grandi dimensioni (+4,8%), che beneficia dell’effetto Fiat Chrysler.
In luce i servizi pubblici tariffati (+3,1%) e i trasporti (+2,1%). Boom dei grandi contractor di opere pubbliche (+6,1%).
Il fatturato delle 2055 imprese considerate nell’indagine resta del 4,3% sotto il 2008.
Solo le medie imprese sono oltre (+3,4%). I settori migliori sono pelli e cuoio(+33,6%), contractor (+26,8%), tutto l’alimentare (col conserviero a +21,7%) e le local utilities (+17,5%).
Male i prodotti per l’edilizia (-38,7%), l’editoria (-36,8%) e le tlc (-24,1%).
Ancora più lontani, segnala l’area studi di Mediobanca, i margini del pre-crisi (2007): -25,5% per le 2055 imprese, -21,5% per la manifattura.
“La stagnazione del mercato domestico – scrive Mediobanca – smaschera la debolezza dell’industria pubblica. La manifattura tiene il passo, anche grazie ai gruppi maggiori (effetto Fiat Chrysler). Senza il traino dell’estero si affievoliscono anche le imprese di costruzioni e trasporti”.
LAVORO
La riduzione della forza lavoro riguarda soprattutto la base operaia (-8,5% tra 2014 e 2008), in misura minore i “colletti bianchi” (-2%).
La manifattura, evidenzia il rapporto, taglia pesantemente le “tute blu” (-12,3% sul 2008), mentre tengono impiegati e quadri (-0,5%), che crescono nelle medie imprese (+6,6%), nelle medio-grandi (+3,2%), nei gruppi maggiori (+3,5%) e nel made in Italy (+5,6%). Cade al contempo il potere d’acquisto dei salari: -2,3% dal 2006.
Segnali positivi solo dalla manifattura (+1%), specialmente nella media impresa (+4,9%) e nel made in Italy (+5%).
Il costo del lavoro delle imprese pubbliche, segnala ancora l’indagine, resta del 25% superiore a quello dei privati.
(da “Huffingtonpost“)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
I DATI NON CORRISPONDONO AD ALTRETTANTI LAVORATORI, VISTO CHE LA STESSA PERSONA PUO’ ESSERE TITOLARE DI PIU’ CONTRATTI
Nei primi sei mesi dell’anno il saldo tra nuovi contratti di lavoro firmati e rapporti chiusi è stato di 638.240 unità , contro le 393.658 dello stesso periodo del 2014.
E il numero di quelli a tempo indeterminato è salito di 252.177 unità , con il risultato che la quota di assunzioni stabili sul totale è passta dal 33,6 al 40,8%.
A rilevarlo è l’Inps nell’osservatorio mensile sul precariato, che prende in considerazioni solo i dipendenti del settore privato.
Secondo il premier Matteo Renzi i dati “dicono che siamo sulla strada giusta contro il precariato e che il Jobs Act è un’occasione da non perdere, soprattutto per la nostra generazione”.
Peccato che non c’entri nulla: in primo luogo l’economia è in ripresa in tutta Europa ed è normale che anche in Italia si risenta del cambio di vento.
Ma se siamo il finalino di coda della ripresa tra i Paesi europei qualcosa vuol dire.
Le assunzioni a tempo indeterminato poi non sono tali, visto che il lavoratore può essere lasciato a casa in qualsiasi momento con le nuove norme.
In terzo luogo questo genere di assunzione è aumentato solo perche le aziende per tre anni non pagano i contributi, quindi sono diventati piu’ convenienti di quelli precari.
E consentono di licenziare il dipendente più di prima.
Va chiarito infine che questi numeri non corrispondono ad altrettanti lavoratori: soprattutto nel caso dei rapporti a termine, la stessa persona può essere stata titolare di più contratti di lavoro che in questa rilevazione vengono contati singolarmente.
E’ così che si spiega perchè, a fronte di cifre apparentemente positive, la disoccupazione continua ad aumentare.
Pochi giorni fa, intervistato da Il Fatto Quotidiano, il presidente dell’Istat Giorgio Alleva ha stigmatizzato il “caos poco edificante” sui dati sottolineando come quelli forniti dal ministero e dall’Inps siano “dati di fonte amministrativa, non statistiche”.
E anticipando che è allo studio un’integrazione delle informazioni disponibili che dovrebbe sfociare nella diffusione trimestrale di “un’informazione congiunta sul lavoro” e in un rapporto annuale congiunto.
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
LA RICERCA DELL’ISTITUTO TEDESCO HALLE: I MINORI ESBORSI PER FINANZIARE IL DEBITO PUBBLICO SUPERANO GIA’ LA CIFRA DELLE EVENTUALI PERDITE SE LA GRECIA NON RESTITUISSE I SUOI DEBITI
Se i conti pubblici tedeschi sono più floridi che mai è soprattutto per merito della crisi greca. 
Che ha avvantaggiato Berlino più di qualsiasi altro Stato europeo.
Ad affermarlo è una ricerca pubblicata dall’istituto tedesco Halle institute for economic research (Iwh), che calcola in ben 100 miliardi di euro i risparmi ottenuti da Berlino tra 2005 e 2010 grazie al calo dei tassi di interesse dovuto alla crisi del debito. Durante periodi di instabilità economica, infatti, “gli investitori preferiscono investimenti sicuri”, spiega l’istituto.
Per questo hanno acquistato in massa titoli di Stato tedeschi, determinando un calo dei rendimenti: “Ogni volta che ci sono state cattive notizie sulla Grecia, i rendimenti sui titoli tedeschi scendevano”.
Risultato: minori esborsi per le casse della Bundesrepublik per una cifra pari a oltre il 3% del pil.
Risparmi che superano gli 82-86 miliardi del terzo piano di salvataggio per Atene e che compenserebbero totalmente il Paese delle perdite sostenute nel caso in cui la Grecia non restituisca completamente il suo debito.
Di più: “Il pareggio di bilancio della Germania”, si legge nello studio, “si deve in gran parte al risparmio sui tassi interesse dovuto alla crisi del debito”.
In ultima analisi, dunque, “la Germania in ogni caso ha tratto vantaggio dalla crisi greca”.
Un verdetto sorprendente, nei giorni in cui la troika e il governo Tsipras stanno per chiudere i negoziati sul nuovo memorandum di austerità imposto a fronte dei nuovi aiuti ma Berlino con il suo ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble continua a mettersi di traverso.
Tifando per un nuovo prestito ponte e un negoziato più lungo.
Il portavoce del governo, Steffen Seibert, ha ribadito lunedì che un accordo “accurato” è preferibile a una rapida intesa.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
OPPORTUNITA’, SPRECHI E ALIBI
Sedici lingue di benvenuto ai visitatori nel portale turistico della Norvegia e solo due, italiano e inglese, in quello della Sicilia.
Basta questo confronto per inchiodare la classe politica isolana, sinistra e destra, alle responsabilità del fallimento di quella che nel bla-bla-bla quotidiano viene spacciata come la Straordinaria Opportunità del Turismo.
È quasi tutto il Sud, purtroppo, a faticare.
A dispetto della stupefacente ricchezza della sua offerta.
Con 18 siti Unesco talora condivisi con altre regioni e spesso multipli sparsi sul territorio più quattro «immateriali» (le grandi macchine a spalla della devozione popolare, lo zibibbo di Pantelleria, il canto tenore sardo, i Pupi) più i vini e una gastronomia d’eccellenza più tre quarti delle coste italiane spesso bellissime e larga parte delle isole, il Mezzogiorno attira in totale, secondo dati Istat-Regione Veneto, solo un ottavo degli «arrivi» stranieri e un settimo di quanto spendono.
Per capirci: i 3 miliardi e 238 milioni finiti al Sud sono meno di quanti sono stati lasciati dagli ospiti esteri nel solo Veneto e poco più che nella sola Toscana.
Dice l’Osservatorio Confesercenti, tirandoci un po’ su di morale, che la stagione va bene e che, tra aprile e giugno, si registra un aumento di 8.684 alberghi, bar e ristoranti rispetto allo stesso periodo del 2014: più 2%.
E a crescere più rapidamente sono il Sud e le Isole: più 2,5% contro l’1,8% del Centro-Nord. Evviva.
Ma in quale contesto? Negli anni del più grande boom turistico di tutti i tempi, con un numero di viaggiatori quasi triplicati dal 1990 ad oggi (da 440 milioni a un miliardo e 138 milioni nel 2014) e una crescita nel 2014 del 4,4% con un aumento nei Paesi del Mediterraneo, secondo World Tourism Barometer, del 6,9%.
Il triplo abbondante della media italiana.
Tanto è vero che, pur restando quinti per arrivi internazionali (anni fa eravamo primi), l’anno scorso siamo scesi al 7 º posto per introiti dopo il sorpasso della Gran Bretagna: 45,9 miliardi di euro loro, 45,5 noi che l’anno prima eravamo davanti di quasi 3 miliardi.
Proprio il Regno Unito, del resto, dimostra come, pur avendo un terzo dei nostri siti Unesco (meno del nostro solo Meridione) e meno sole e meno spiagge e meno eccellenze gastronomiche, si possa evidentemente sfruttare il «travel boom» meglio che da noi.
Spiega l’ultimo rapporto World Travel & Tourism Council che se noi ricaviamo da Venezia e dai faraglioni di Capri, dalle Dolomiti e dai Fori Romani, indotto compreso, il 10,1% del Pil, loro ricavano il 10,5.
E se da noi lavorano nel turismo indotto compreso (per capirci, incluso chi fabbrica gilet per i camerieri) l’11,4% degli occupati pari a 2 milioni e 553 mila persone, da loro sono il 12,7% per un totale di 4 milioni e 228 mila addetti.
Poi, per carità , ci saranno anche contratti diversi. Ma lo stacco è nettissimo. E incredibilmente ignorato.
Basti dire che pur occupando il solo turismo diretto dieci volte più addetti della chimica, la numero uno dei sindacalisti italiani Susanna Camusso non ne parla mai. Un titolo Ansa su 5.615 a lei dedicati. Turismo cosa?
Il punto è che non basta soltanto offrire Pienza, Ostuni o Cremona.
Magari con la supponenza e lo sgarbo di chi è convinto che «comunque qua devono passare!».
Come dimostrano gli studi di Silvia Angeloni, ad esempio, il turista chiede anche altro: trasporti, rete web, prezzi competitivi, pulizia… Quali danni fa il rimbalzo sui social network di certi viaggi infernali e pericolosi di qualche visitatore sulla Circumvesuviana?
Prendiamo l’ultimo Travel & Tourism Competitiveness Index .
Due anni fa, con parametri evidentemente forzati, eravamo al 26 º posto, oggi va meglio: siamo ottavi.
Miglioriamo per «accesso ai servizi igienico-sanitari», «presenza delle principali compagnie di autonoleggio» o «copertura della rete mobile» (siamo primi!), per densità di medici (settimi) e «numero di siti naturali Unesco» (decimi).
Ma restiamo al 133 º posto per «competitività dei prezzi». E siamo scesi al 35 º per l’uso di Internet e tecnologie, al 48 º per la sicurezza, al 70 º per «qualità delle infrastrutture del trasporto aereo», 123 º per «efficacia del marketing nell’attrarre i turisti».
E qui torniamo a quanto dicevamo. Perchè certo, il Sud ha buone ragioni per chiedere fibre ottiche, treni più decorosi e più veloci (Matera, futura capitale europea della cultura, è ancora tagliata fuori dalla rete), collegamenti aerei, campagne di spot che vadano ad acchiappare turisti nel mondo.
E i ritardi dei governi in questi anni, spesso indifferenti al turismo, han finito per pesare di più sul Mezzogiorno.
Sì, una migliore gestione potrebbe distribuire al Sud carte importanti da giocare. L’ultima tabella Eurostat (dati 2013) sulle prime venti regioni turistiche dell’Ue mostra al 6° posto il Veneto, all’11 º la Toscana, al 13 º l’Emilia-Romagna, al 19° il Lazio, al 20° la provincia di Bolzano.
Del Meridione, nonostante quel patrimonio di bellezza e di cultura, non ce n’è una.
Scaricare tutto su Roma o i poteri forti, le banche padane o il perfido Nord, sarebbe insensato. Un alibi per le cattive coscienze.
Soprattutto sul tema della «propaganda».
Spiega l’ultimo rapporto del Centro studi MM-One su dati Eurostat che nel turismo la quota di fatturato generata dall’online è del 22% in Francia, del 26 in Spagna, 29 in Portogallo, 32 in Germania, 39 in Gran Bretagna e addirittura 88% in Irlanda.
Noi, mogi mogi, siamo al 18%. Dieci punti sotto la media europea e staccatissimi ad esempio dalla Croazia, concorrente diretta sul turismo balneare, che ha il doppio (35%) della nostra quota.
A farla corta: Renzi può anche mettere 12 miliardi sulla banda larga. Ma senza una svolta culturale rischiamo di restare indietro.
Basti vedere, appunto, la distanza abissale nella visione del turismo di oggi e di domani che separa noi, soprattutto il nostro Mezzogiorno, dalla Norvegia.
Il Paese scandinavo non sarebbe, sulla carta, votato al turismo. O almeno così appare a chi identifichi la vacanza con spiagge, sole, vino buono, mozzarella e pomodori.
Se poi l’unità di misura fossero i siti Unesco sarebbero guai. Ne ha sette, l’ultimo dei quali il sito industriale Rjukan-Notodden.
Per capirci: noi potremmo allungare ancora la lista con la cappella degli Scrovegni, Segesta, la fortezza di Palmanova, i portici di Bologna… Quello che hanno, però, a partire dai fiordi, lo sanno vendere.
Il sito ufficiale visitnorway.com, come dicevamo è semplice, ma fatto bene e soprattutto si apre ai turisti di tutto il pianeta con portali in giapponese e in portoghese, polacco e russo per un totale di 16 lingue.
La Norvegia ha la stessa popolazione della Sicilia (poco più di 5 milioni di abitanti), un territorio molto più grande, un patrimonio culturale molto più piccolo. Ma nel 2014 ha ricavato dal turismo, dice il rapporto WTTC, cinque miliardi di dollari. Poco meno di quanto incassa dagli stranieri l’intero Mezzogiorno.
Quanto alla Sicilia, sul versante estero che rappresenta la metà circa dei propri ospiti, non arriva, compresi viaggi di lavoro, al miliardo e mezzo.
Ma come si vendono, sul web, le regioni meridionali?
Malissimo la Campania (italiano e inglese: fine), un disastro il Molise e la Calabria (solo italiano con un pasticcio di rinvii a paginette pdf), decorosamente la Sardegna (5), bene la Puglia e l’Abruzzo che svettano con sei lingue.
Costo delle traduzioni? In tutto 70 mila euro, spiegano gli abruzzesi. Diecimila e poco più a lingua. E altri 70 mila di manutenzione annuale di una ventina di presenze importantissime sui social network .
E la Sicilia? Lo dicevamo: italiano e inglese. Manca perfino il tedesco, nonostante siano tedeschi, nella scia di Goethe, gli stranieri che più amano l’isola. «Io ci provai a cambiare il sito», sospira Michela Stancheris, per qualche tempo assessore con Crocetta.
«Mi spiegarono che dovevo rivolgermi a “Sicilia Servizi”. Un incubo. Alla fine uscii stremata».
Chissà , forse mancavano i soldi. Franco Battiato denunciò poco dopo l’insediamento un buco all’assessorato di 90 milioni.
Buco aperto ad esempio anche con un diluvio di concerti (a Comitini sbarcarono i Nuovi Angeli) in ogni contrada.
Come potevano avere i soldi per un sito web decente?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
RENZI STRAPARLA DI MODELLO INGLESE POI FA TUTTO L’OPPOSTO
Margaret Thatcher al colmo del potere dichiarò: “So che la Bbc mi attacca ma non posso farci
niente”. E non mosse un dito contro la Bbc.
Matteo Renzi invece partecipa attivamente alle scelte del nuovo CdA della Rai e prima di partire per il Giappone riceve a Palazzo Chigi il candidato al ruolo di amministratore unico Antonio Campo Dall’Orto protagonista della Leopolda renziana. Una investitura personale, chiaramente.
Il direttore generale di Bbc rimane in carica anni scelto per meriti professionali dai 12 “governors” della Fondazione i quali tutelano l’autonomia della Tv pubblica.
Renzi continua a parlare di Fondazione tipo Bbc e fa l’esatto contrario.
Il CdA della Rai viene nominato con una accurata spartizione partitica, anzi correntizia.
Lo stesso accade per la presidente che al Tg1 fu paladina della svolta di centrodestra del suo direttore Minzolini. E sì sì che aveva promesso: “Fuori i partiti dalla Rai!”.
In tutte le principali emittenti radiotelevisive d’Europa esiste un organismo di garanzia che mette al riparo radio e tv pubblica dalle ingerenze dell’esecutivo e dei partiti tant’è che il direttore generale della rete pubblica tedesca ZDF, Dieter Stolte, è durato vent’anni in carica.
In Italia no. Però esisteva anni fa un primo filtro rappresentato dalla nomina di 5 consiglieri da parte dei presidenti di Camera e Senato e fra essi il CdA eleggeva il presidente.
Sistema travolto da Berlusconi con la legge Gasparri
Con Renzi il presidente lo nomina il governo e gli mette accanto come consigliere del Tesoro (proprietario dell’azienda) il suo suggeritore per la comunicazione.
L’omologazione fra presidente/segretario e radio e tv pubblica appare totale.
Si sono levate critiche per un CdA di basso profilo.
Infatti il Consiglio conterà assai poco e il rapporto strategico sarà quello che correrà fra Matteo Renzi e Antonio Campo Dall’Orto. Il resto è figura.
Succede in qualche alto Paese di democrazia compiuta? Non mi pare.
E pensare che nel 1945 venne nominato dal CLN alla presidenza della Rai, ex Eiar, un personaggio del livello politico e culturale di Carlo Arturo Jemolo.
C’è il precedente della nomina diretta dei vertici dell’ente per l’informazione e la comunicazione: nel 1927 quando il fascismo creò l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR), Benito Mussolini nominò al vertice il principale collaboratore di Guglielmo Marconi, il professor Marchesi, però ci mise suo fratello Arnaldo in qualità di vice-presidente.
Arnaldo Mussolini era già presidente dell’Istituto di Previdenza nato dalla fusione delle Casse Pie e dell’Albo dei giornalisti e pubblicisti al quale potevano associarsi soltanto quelli iscritti al PNF.
Delle agenzie di stampa ne rimase una sola, la Stefani, presieduta e diretta da quel Manlio Morganti forse l’unico amico fedele del duce (il solo a suicidarsi dopo il 25 luglio 1943).
Vittorio Emiliani
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
HA VINTO GRAZIE AI 34.337 VOTI DI CAMPANIA IN RETE, ISPIRATO DA D’ANNA E IANNACCONE…SE FOSSERO RIMASTI CON CALDORO, QUESTI AVREBBE VINTO CON 2.228 DI SCARTO
Duemila e duecento voti in più. Sono quelli che alle regionali in Campania avrebbero permesso a Stefano Caldoro di restare presidente della Regione se i cosentiniani non fossero passati con Vincenzo de Luca, portandogli in dote 34.337 preferenze.
E’ il concetto matematico che il direttore de IlFattoQuotidiano.it Peter Gomez ha spiegato qualche sera fa in tv a In Onda su La7, provocando la reazione scomposta di De Luca che venerdì durante la direzione del Pd è arrivato a minacciare il giornalista definendolo “consumatore abusivo d’ossigeno” e “somaro”.
Per rendersi conto di chi abbia ragione, basta saper far di conto o al massimo avere sottomano una calcolatrice.
Sul sito del Viminale si legge che De Luca è stato eletto presidente con 987.927 voti, mentre l’ex governatore si è fermato a 921.481.
Se al nuovo presidente della Regione togliessimo le 34.337 preferenze spostate in suo favore da Campania in Rete — listone civico-politico ispirato dal senatore Vincenzo D’Anna, dall’ex parlamentare dei Responsabili Arturo Iannaccone e da altri pezzi di centrodestra vicini a Nicola Cosentino — De Luca scenderebbe a 953.590 voti.
Se poi i voti di Campania in Rete li aggiungessimo a quelli della coalizione caldoriana cui i cosentiniani appartengono naturalmente, Caldoro salirebbe a quota 955.818, 2.228 voti in più dell’avversario.
E sarebbe ancora oggi presidente della Regione.
Con buona pace di De Luca, eletto proprio grazie ai voti di ex fascisti, ex segretari del Fronte Nazionale ed ex amici di Cosentino: in pratica lo zoccolo duro degli “impresentabili” che hanno messo in imbarazzo il Pd.
E’ vero, i voti di una lista o di un partito non si spostano automaticamente sul candidato presidente, ma la matematica non è un’opinione.
C’è un altro particolare: “Campania in Rete” non si è alleata con il Pd, ma con De Luca.
Lo disse chiaramente al Fatto Quotidiano il portavoce della lista, Alfonso Ascione: “Lo abbiamo scelto in tempi non sospetti, perchè non è condizionabile”.
Sin da prima delle primarie del Pd, quindi, e forse De Luca ha vinto anche quelle grazie a loro, altrimenti il candidato sarebbe stato l’ex bassoliniano Andrea Cozzolino.
Iannaccone confermò con una frase lapidaria: “Noi non siamo saliti sul carro del vincitore, siamo tra quelli che lo hanno spinto”.
Tra i primi a salire su quel carro ci fu l’ex mastelliano Tommaso Barbato, ex senatore, ex dirigente degli acquedotti campani, sponsor di De Luca sin dai mesi precedenti alle primarie perchè “entusiasta del modello Salerno”.
Barbato si è candidato alle regionali in “Campania Libera”, la civica storica di De Luca, e ha fatto in tempo a portargli 4238 preferenze.
Un mese dopo Barbato è stato arrestato per concorso esterno in associazione camorristica nell’ambito dell’inchiesta sulla spartizione degli appalti della rete idrica campana a ditte di riferimento del clan dei Casalesi.
In caso di arrivo al fotofinish, a De Luca avrebbero fatto molto comodo anche i suoi voti.
“Le liste di De Luca non sono affatto liste con nomi nuovi e in nessun caso trasformano il modo di fare politica in Campania — attaccava ai primi di maggio Roberto Saviano in un’intervista all’Huffington Post — direi che ricalcano le solite vecchie logiche di clientele. E non c’è niente da fare. E’ sempre stato questo e questo sarà : le liste si fanno su chi è in grado di portare pacchetti di voti”. E cosentiniani a De Luca ne hanno portati parecchi.
Il neogovernatore ha vinto con il 41,15%, un punto in più della coalizione.
Caldoro si è fermato al 38,38%, un punto e mezzo in meno delle liste di centrodestra. Decisivo, oltre al passaggio in extremis da una parte all’altra dell’Udc di Ciriaco De Mita, proprio l’1,5% di “Campania in Rete”.
L’ex sindaco sa bene che i loro voti sono stati più importanti di quelli degli alleati ‘naturali’.
E infatti ha premiato l’unico consigliere eletto in “Campania in Rete”, Alfonso Piscitelli, con la presidenza della commissione consiliare Affari Costituzionali. Mentre Idv, Verdi e le altre forze minori del centrosinistra sono rimaste a bocca asciutta.
Vincenzo Iurillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
UNA NUOVA LEGGINA RENDE MENO SEVERE LE INCOMPATIBILITA’
Fatti due conti, avrebbe i numeri per costituire un gruppo autonomo alla Camera (venti deputati) e
gli mancherebbero solo due senatori per fare lo stesso a Palazzo Madama.
È il partito dei parlamentari con il doppio incarico, quelli che hanno conquistato la poltrona a Roma, ma che non vogliono rinunciare alla poltroncina nel loro comune. Anche se spesso non riescono a garantire un impegno full time.
Sindaci, assessori, semplici consiglieri, un partito trasversale di cui fanno parte tutte le principali forze politiche: Pd, Udc, Ncd, Sel, Forza Italia, Lega, Psi, fittiani e persino un verdiniano.
Mancherebbero solo i Cinque Stelle, che sui doppi ruoli sono intransigenti.
Eppure nell’elenco dei 28 onorevoli ce n’è anche uno che è stato eletto col Movimento di Grillo.
Un Consiglio per tutti
Tra i tanti peones, spiccano i nomi dei «big» come Francesco Boccia (Pd), che oltre a presiedere la commissione Bilancio della Camera si è anche fatto eleggere a Bisceglie («risultando il più suffragato nelle liste del centrosinistra» si legge, testuale, sul suo sito). Oppure Dorina Bianchi: la deputata Ncd, in odore di ministero, trova anche il tempo di fare il consigliere comunale a Crotone.
E poi c’è Felice Casson (Pd): sindaco mancato a Venezia, ha deciso di battersi in Consiglio comunale. Ma di restare anche in Senato.
Il record è a Olbia, dove tra i banchi del consiglio spiccano ben due deputati: Gian Piero Scanu del Pd e Settimo Nizzi di Forza Italia.
Il ruolo di consigliere, va detto, non è incompatibile con quello di parlamentare.
E allora perchè mai avrebbe dovuto lasciare il suo posto ad Abano Terme la neodeputata Vanessa Camani (Pd), subentrata alla Camera ad Alessandra Moretti in occasione del suo approdo a Bruxelles?
Da registrare la curiosa storia di Ivan Catalano.
Nel 2011 si è candidato al Comune di Busto Arsizio, provincia di Varese, con il M5S. Non ce l’ha fatta, ma due anni dopo si è riscattato con gli interessi ed è stato eletto deputato.
Poi la rottura con Grillo, il passaggio al Partito Liberale, quindi l’approdo a Scelta Civica. Nel frattempo l’ex collega Giampaolo Sablich, dopo la rottura col M5S, per coerenza aveva lasciato il seggio in consiglio.
E chi era il primo dei non eletti? Catalano, che ha subito accettato, incassando la seconda poltrona conquistata grazie al Movimento di cui non fa più parte.
Sfuggita al doppio incarico per un pelo il sottosegretario Francesca Barracciu: a maggio si era candidata come consigliere a Sorgono, in Sardegna.
Interpellata in campagna elettorale, aveva detto di non temere il doppio ruolo: «Ritengo che l’impegno da consigliere semplice a Sorgono sia compatibile nei tempi e nei modi con quello di sottosegretario a Roma. Certo, la mia vita sarà più faticosa. Ma la fatica non mi ha mai spaventata». Si è dimessa subito dopo l’elezione.
Parlamentari per giunta
C’è poi il capitolo degli onorevoli-assessori, raddoppiati dopo il rimpasto nella giunta Marino.
Marco Causi e Stefano Esposito sono entrati a far parte della squadra di governo capitolina, ma di lasciare il seggio in Parlamento (deputato il primo e senatore il secondo, entrambi del Pd) non se ne parla.
La legge lo permette e nel caso in cui qualcosa vada storto c’è sempre un salvagente.
Insindacabili
Un discorso a parte meritano i sindaci. Sono otto in totale, alcuni guidano comuni con meno di 5.000 abitanti (come il deputato civatiano Luca Pastorino, che pure si era candidato governatore in Liguria), soglia sotto la quale non ci sono mai stati dubbi di incompatibilità .
Per altri è sorto qualche problema, come a San Marco in Lamis (13.000 abitanti), dove Angelo Cera (Udc) è stato prima sospeso e poi reintegrato al termine di una lunga battaglia legale.
Nell’estate 2011 il governo Berlusconi aveva infatti fissato la soglia di incompatibilità per i sindaci dei Comuni sopra i 5.000 abitanti.
Ma nel 2013 il governo Letta aveva detto che la norma non valeva per chi era già stato eletto prima dell’agosto 2011.
Qualcuno era dunque rimasto nel limbo. E per sciogliere ogni dubbio il Parlamento nel 2014 ha elevato la soglia a 15.000 abitanti.
Salvando capra, cavoli e sindaci onorevoli.
Marco Bresolin
(da “La Stampa”)
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Agosto 10th, 2015 Riccardo Fucile
PER STAMPARLI TUTTI MOBILITATA UNA TASK FORCE: 150 ADDETTI PER CATALOGARLI E 80 TONNELLATE DI CARTA SPRECATA
Elisabetta Serafin è il segretario generale del Senato dal 2011 e per la prima volta ha dovuto chiedere a funzionari, ingegneri, impiegati, addetti alle segreterie delle commissioni, tipografi e informatici di Palazzo Madama di modificare in corso d’opera il piano ferie di agosto per selezionare e catalogare i 513.449 emendamenti presentati al testo della riforma costituzionale del bicameralismo paritario: «In realtà – si lascia sfuggire la dottoressa Serafin prima di ribadire che preferirebbe non commentare in prima persona – si poteva rimandare il lavoro ai primi di settembre ma i nostri funzionari hanno inteso prendere il toro per le corna. E devo dire che c’è stata molta disponibilità da parte di tutti».
Così, se il senatore Roberto Calderoli (Lega) ha assoldato un esperto informatico per sfornare dal computer oltre 500 mila emendamenti (altri 6,5 milioni in preparazione per l’aula), gli uffici del Senato hanno allestito una task force in 48 ore composta dal vicesegretario generale Federico Toniato, dal funzionario della I commissione Affari costituzionali Alessandro Goracci e dall’ingegnere del servizio informatico Giampaolo Araco.
Sono state allestite nuove postazioni speciali di lavoro per chi ha ricevuto l’ingrato compito di catalogare e selezionare 513.449 emendamenti: due schermi collegati a un solo computer per trascinare «a pettine», da un file all’altro, gli emendamenti di tutti i gruppi (circa 3 mila) nell’indice naturale costituito da 15 cd consegnati alla commissione da Calderoli con mezzo milione di proposte emendative.
Il presidente del Senato Pietro Grasso, che ha voluto ringraziare per lo sforzo tutti gli uffici coinvolti, è stato tenuto al corrente dell’operazione «ferie di agosto» con una serie di dati impressionanti.
Una sola copia cartacea degli emendamenti (100 tomi da 1.000 pagine ciascuno) pesa 2,5 tonnellate e costerebbe solo di stampa 2.900 euro.
Bene, a norma di regolamento (del 1971) il Senato dovrebbe «di regola» stampare almeno 321 fascicoli degli emendamenti, uno per ogni senatore.
Così ragionando, però, i tomi da stampare diventerebbero 32.100, le pagine impiegate 32 milioni e 100 mila per un peso complessivo di 80.290 chili (insopportabili dai solai antichissimi di Palazzo Madama) e un costo stratosferico di 930.900 euro.
Il segretario generale Elisabetta Serafin ha dunque preso i dati sul budget annuale concesso per la stampa degli atti (681 mila euro già largamente corrosi dai 50 mila emendamenti presentati da Calderoli e dagli altri gruppi al testo dell’Italicum) e si è fatta due conti.
Il punto sullo stato dell’arte verrà fatto domani quando la task force si riunirà al Senato: l’obiettivo di produzione dei 150 addetti coinvolti è quello di arrivare 50 mila emendamenti catalogati.
Se sarà raggiunto c’è un certo ottimismo nel rispettare la tabella di marcia e arrivare così preparati all’appuntamento dell’8 settembre.
Ma potrebbe essere tutto inutile se la mancanza di un accordo politico facesse slittare il ddl direttamente in aula.
Ma un milione di euro sarebbe in ogni caso andato in fumo
Dino Martirano
(da “La Stampa”)
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