Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
VUOLE PRESENTARSI COME NUOVA E RITOCCARE IL SUO PASSATO, NON SOLO LE SUE FOTO SUI MANIFESTI… IMPARI A CONVIVERE CON LE RUGHE POLITICHE
Cara Giorgia Meloni, 
certo di strada ne ha fatta: la “Le Pen italiana”, unica donna a guidare un partito, onnipresente in tv, in crescita nei sondaggi, protagonista del nuovo centrodestra con Salvini e Berlusconi nel ruolo che fu di Fini.
Talmente impegnata che non riesce ad andare in Parlamento: è l’ ottava deputata più assente alle votazioni.
D’ altronde è abituata ai record: consigliere provinciale a 21 anni, onorevole a 29, è stata il ministro e vicepresidente della Camera più giovane della storia repubblicana (poi superata da Di Maio).
Ma oggi sembra non voler ricordare la sua storia.
L’ impressione è che, da quando ha fondato Fratelli d’ Italia a fine 2012, voglia presentarsi come “nuova” e, oltre a photoshoppare la sua foto nei manifesti, tenti di ritoccare anche il suo passato.
Non tanto il fascismo o Berlusconi e le sue leggi ad personam (che nel 2006 definì “perfettamente giuste”), quanto ciò che non si attaglia al suo ruolo attuale di fiera oppositrice di Renzi.
Sere fa da Floris era un fiume in piena (come sempre peraltro): “Renzi taglia tasse messe da loro: quelli del Pd hanno messo la tassa sulla prima casa, ora la levano; hanno messo il tetto al contante a 1.000 euro, ora lo alzano a 3.000” e giù a rinfacciare incoerenze e strappare applausi.
Peccato che insieme a loro ci foste anche voi del Pdl – e pure lei – a votare sì all’ Imu e al tetto al contante nella Manovra Salva Italia di Monti.
Doveva dire “abbiamo”, non “hanno”.
In quella manovra 2011 c’era anche la legge Fornero, che oggi critica aspramente: FdI ha offerto avvocati per i ricorsi, dopo la bocciatura della Consulta sul “prelievo truffaldino” (parole sue) sulle pensioni da1.400 euro; lanciato una class action contro il governo per far restituire il “maltolto” ( idem); sostenuto il referendum abrogativo della Lega.
Ma almeno la Lega non la votò, lei sì. Perchè non dice che quella truffa è anche opera sua?
Altra battaglia della “nuova” Meloni, con tanto di proposta di legge, è l’ abolizione di regioni e province: basta “carrozzoni”, ci vuole ” un nuovo federalismo municipale”, non fatevi infinocchiare dal “Supereroe Renzi” – twittò nel 2014 – che “finge di abolire le province e crea 25mila poltrone in più”.
La “vecchia” Meloni invece non era così sensibile ai costi e alla razionalizzazione degli enti locali, tant’ è che nel 2011 votò contro la soppressione delle province in Costituzione.
Ma dirlo adesso, come il resto, non conviene.
Amnesie anche su Mafia Capitale: “Rivendico con orgoglio che non ci sono esponenti di FdI coinvolti”, “Il nostro capogruppo era definito da Buzzi il più onesto”, “Alemanno non era di FdI quando governava”.
Vero, ma mica vorrà farci credere che il suo rapporto col Pdl e la destra romana, Gramazio e Alemanno, cominci nel 2012 con FdI, e prima nulla?
Quando Alemanno divenne sindaco FdI non c’ era ancora, ma si ricandidò nel 2013 col suo sostegno, poi entrò nel partito e nel 2014 corse alle Europee. Quando fu indagato era di FdI, tant’ è che si autosospese. Qualche autocritica in più, al di là della facciata, potrebbe farla.
Cara Meloni, un consiglio: non finga di essere nuova e coerente.
Ormai ha quasi 40 anni, impari a convivere con le rughe (fisiche e non).
Un cordiale saluto.
Luisella Costamagna
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
“E’ UNA SCELTA DELLA LEGA, NOI SPARIREMO”… BERLUSCONI REGALA MILANO A SALA
Al di là dell’ottimismo di facciata delle pur scarse dichiarazioni dei vertici lombardi di Forza Italia, l’ipotesi concreta che il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti accetti la candidatura a sindaco per il centrodestra pur di salvare la coalizione a livello nazionale provoca non pochi mal di pancia tra gli azzurri.
La coordinatrice regionale di Forza Italia Mariastella Gelmini si affretta a precisare che “Sallusti è il candidato ideale per riportare il centrodestra alla guida della città “. Pur ammettendo che si tratta ancora di “un’ipotesi, seppur con il novanta per cento delle probabilità di andare in porto”.
Nel suo partito, però, non sono pochi coloro che, pur non dichiarandolo apertamente, prevedono che se questa candidatura arriverà alle elezioni, “certificherà il funerale di Forza Italia”.
Sallusti per il momento si dice “onorato”, ma precisa che “oggi inizia solo un percorso”.
La verità inconfessata negli uffici della segreteria regionale forzista è che l’ipotesi Sallusti, che finora sembra essere stata l’unica non scartata dal leader della Lega Matteo Salvini tra i nomi proposti da Silvio Berlusconi, non solo spazza via l’idea di applicare anche a Palazzo Marino il modello lombardo tanto caro a Roberto Maroni. Rischia di fare terra bruciata tra il partito di Berlusconi e gli elettori moderati, oltre a quelli dell’Ncd.
Trasformando quello che era nato per essere un partito liberale in una forza di destra, schiacciata su posizioni radicali, filo leghiste.
Come quelle di Sallusti e della sua compagna Daniela Santanchè, che dopo essere finiti sul banco degli imputati nel 2011 perchè ritenuti da molti nel centrodestra tra i principali responsabili della sconfitta di Letizia Moratti dopo una campagna elettorale velenosa, non hanno mai nascosto di caldeggiare una eventuale candidatura a sindaco di Salvini.
Uno scenario che fa presagire a molti forzisti la prospettiva di una nuova Caporetto azzurra, dopo la dèbacle di Sedriano (passato ai Cinque Stelle), con probabili ripercussioni anche in Regione.
Salvini precisa che “Sallusti è una delle proposte” e che “il centrodestra se è unito vince”. Roberto Maroni non si sbilancia: “Mi piace, ma non mi occupo di candidature”. L’Ncd Alessandro Colucci dice che “prima del nome del candidato c’è un problema di metodo”.
Dentro Forza Italia tira tutt’altra aria. “Sia chiaro – si sfoga un dirigente che chiede di restare anonimo – Se ci sarà una sconfitta, cosa praticamente certa, Salvini se la intesterà tutta. Tanto vale dire che regaliamo a Giuseppe Sala e alla sinistra la poltrona di sindaco di Milano. E forse a questo punto non sarà nemmeno poi un male”.
Parole che mal celano l’astio nei confronti del leader della Lega, accusato di aver bocciato tutti i candidati proposti da Berlusconi.
Ultimo in ordine di tempo il ciellino Maurizio Lupi, che alla fine aveva dato, a certe condizioni, la sua disponibilità .
Prima era toccato al costruttore Claudio De Albertis, all’ex sindaco di Segrate Adriano Alessandrini. Tutti caduti uno dopo l’altro come i Dieci piccoli indiani di Agatha Christie sotto la scure di Salvini.
Per non parlare dei rifiuti di Paolo Del Debbio e di Paolo Scaroni, che forse avevano capito subito che nella pentola del centrodestra milanese c’era più fumo che arrosto. “Se ha vinto l’asse Santanchè-Zangrillo – attacca un altro forzista – allora abbiamo il coraggio di ammettere che alla fine Sallusti passerà per essere il candidato della Lega e noi spariremo. Tanto questo è un partito che ormai non ha più nè capo nè coda”.
Andrea Montanari
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
A PROCESSO ANCHE L’EX BRACCIO DESTRO DEL GOVERNATORE CHE SARA’ GIUDICATO A DICEMBRE…RIGUARDA LE PRESSIONI DI MARONI PER FAR OTTENERE VANTAGGI A DUE FEDELISSIME
E’ arrivata la prima condanna legata all’inchiesta nella quale è indagato anche Roberto
Maroni per le presunte pressioni che avrebbe esercitato per far ottenere vantaggi a due fedelissime.
A Christian Malangone, dg di Expo 2015 Spa, sono stati inflitti 4 mesi nel processo abbreviato scaturito dal lavoro del pm di Milano Eugenio Fusco.
La decisione è del gup Chiara Valori che ha invece assolto la società Expo e ha mandato a processo altri tre imputati, tra cui l’ex segretario generale del Pirellone Andrea Gibelli, ex deputato del Carroccio.
Per Malangone, accusato di induzione indebita, il pm aveva chiesto sei mesi e il giudice lo ha condannato a 4. Per la società Expo, imputata in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti, la procura aveva chiesto una condanna ad una sanzione pecuniaria di 300 mila euro, ma il gup ha disposto l’assoluzione (le motivazioni della sentenza saranno rese note tra 30 giorni).
Il giudice ha rinviato a giudizio davanti alla decima sezione penale (prima udienza il 4 febbraio) oltre a Gibelli, attuale presidente di Ferrovie Nord Milano, anche il capo della segreteria di Maroni, Giacomo Ciriello, e Mara Carluccio, ex collaboratrice del governatore.
Maroni, invece, aveva già chiesto nei mesi scorsi di essere processato con rito immediato e la prima udienza è fissata per il 1 dicembre.
Secondo l’accusa, il governatore avrebbe voluto che Maria Grazia Paturzo, sua ex collaboratrice e con la quale, secondo il pm, aveva una relazione affettiva, fosse inserita nella delegazione della Regione per un viaggio a Tokyo nel 2014 nell’ambito del World Expo Tour e che fosse spesata da Expo 2015 Spa.
Da qui, secondo l’accusa, le presunte pressioni su Malangone, attraverso Ciriello, e l’accusa di induzione indebita contestata al dg e al governatore.
Nel secondo filone l’esponente del Carroccio, invece, è accusato di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente perchè avrebbe favorito l’assegnazione di un contratto di collaborazione con l’ente Eupolis a Mara Carluccio.
In questa tranche l’ex dg di Eupolis Alberto Brugnoli ha già patteggiato.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
IN COMPENSO SONO 900.000 I BAMBINI IN CERCA DI ASILO NIDO, MA NON E’ STATO STANZIATO UN EURO
C’era una volta la promessa di Renzi sui «mille asili in mille giorni».
Di giorni dal suo insediamento ne sono passati quasi 700, ma di nuovi asili non c’è alcuna traccia.
Oggi novecentomila bambini tra i sei mesi e i due anni cercano asilo.
E la legge di Stabilità non stanzia un euro per finanziare il disegno di legge Puglisi (Pd), inglobato nella cosiddetta «Buona scuola», che renderà i nidi e le scuole dell’infanzia un diritto universale e non più un servizio a domanda individuale.
In compenso, alle scuole paritarie arriveranno altri 25 milioni di euro, portando così quasi a livello dello scorso anno (497 milioni totali rispetto su 500) il fondo riservato.
Lo prevede un emendamento alla legge di Stabilità che sarà approvata oggi in prima lettura dal Senato. Mentre il governo si appresta a sforare il Fiscal Compact sulle spese militari, finanzia le scuole private e quelle cattoliche, ma non gli asili o per il diritto allo studio degli universitari a cui ha destinato risorse irrisorie.
Questa è la fotografia dell’istruzione pubblica scattata dalla Funzione pubblica della Cgil (Fp) nella giornata mondiale dei diritti dell’infanzia prevista oggi. In questa occasione Fp-Cgil ha promosso una campagna sugli asili nido lanciando l’hashtag #ChiedoAsilo.
Il sindacato ha elaborato una ricerca, condotta sui dati Istat sull’offerta comunale degli asili nido e altri servizi socio-educativi.
Il sistema noto nel mondo per le sue eccellenze mostra un’altra faccia: precariato delle maestre, scarsa offerta pubblicata generata dai tagli, privati che alzano tariffe per famiglie alle prese con la crisi e redditi bassi.
Questa è l’altra faccia dell’eccellenza italiana: un immenso bacino di bambini esclusi dal «diritto di asilo» e condannati a restarlo a lungo
La mappa nazionale dei servizi presenta enormi sperequazioni regionali.
Se, infatti, la copertura dei servizi per l’infanzia è al 24,8% in Emilia Romagna, in Campania è al 2%.
La media nazionale sull’offerta di asilo nido e di micro nidi pubblici e privati per la prima infanzia oggi copre una fascia di bambini da zero a due anni pari al 17,9% (17,9 posti ogni 100 bambini): 289.851 bambine e bambini.
Una percentuale lontanissima dalla media dei paesi scandinavi, quasi il 50%, e dalla (passata) strategia di Lisbona che prevedeva una copertura pari al 33% entro il 2010.
Per raggiungere lo standard europeo l’Italia dovrebbe creare 1700 nidi e scuole dell’infanzia in più, garantendo il diritto all’asilo a 100 mila bambini.
In questo modo 33 bambini su 100 — la percentuale prevista — potrebbero accedere al servizio. Per rendere possibile questo sforzo, ha calcolato Fp Cgil, bisogna assumere 20 mila lavoratori.
Prospettiva impossibile finchè resterà in vigore uno dei comandamenti dell’austerità : il blocco del turn-over (al 25%) e delle assunzioni nella pubblica amministrazione.
Un muro che implementa il precariato in cui lavorano le maestre e gli insegnanti in Italia.
Se gli adulti sembrano equilibristi alla ricerca di una continuità di lavoro e della qualità del servizio, il mondo del precariato visto dai bambini è un arcano esercizio ragionieristico.
La stima dei 900 mila «senza asilo» è ottenuta dal totale delle nascite avvenute dal 2010 fino ai primi due mesi del 2012.
Nel 2010 sono nati 561.944 bambini, nel 2011 546.585.
Nei primi due mesi del 2012 89.587. Il totale è di 1 milioni e 198.116 bambini ai quali vanno sottratti i 289.851 che sono riusciti a trovare un posto al nido. I “senza asilo” sono 908.535. Per loro non si prevede, a breve, un posto nelle strutture pubbliche. A meno che le rispettive famiglie non facciano uno sforzo, pagando.
È interessante anche l’analisi della Fp Cgil sui 289 mila bambini che hanno trovato un posto al nido. 146.647 sono iscritti agli asili comunali, 45 mila a quelli gestiti da terzi, 29 mila sono in asili nido privati con riserva di posti, mentre 13 mila bambine e bambini usufruiscono dei contributi erogati (compresi i voucher) alle famiglie per la frequenza degli asili.
A questi vanno aggiunti ben 96 mila bambini che hanno trovato un posto nelle strutture private, a carico delle famiglie.
Questi 289 mila bambini si trovano in 3.656 strutture pubbliche e 5.214 private, per un totale di 8.870.
A questa cifra, sostiene il sindacato, si dovrebbero aggiungere le 7 mila strutture e i 20 mila posti in più. Per permettere al sistema di recuperare in equità a tutti i livelli e per tutte le età .
Roberto Ciccarelli
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
PETROLIO, TASSE E RAZZIE… COME SI FINANZIA L’ISIS E COME SPENDE
Il califfato è ricco. Ma non troppo. 
Le stime che ipotizzano entrate annue oscillanti tra uno e due miliardi di dollari vengono ridimensionate da molti esperti, che ritengono più corretto parlare di importi limitati a qualche centinaio di milioni di dollari.
E sono pochi a credere che questo sia frutto delle donazioni di magnati fondamentalisti, del Qatar o di altri emirati.
Lo Stato islamico infatti ha dimostrato di sapersi autofinanziare. C’è un documento eccezionale per comprenderlo: il bilancio della provincia creata nella Siria orientale, diffuso dal sito di Aymenn Jawad Al-Tamini.
Si tratta del budget relativo al gennaio scorso.
I proventi vengono per il 27 per cento dalla vendita di petrolio. Un altro 4 per cento lo incassano dalle bollette elettriche: garantire la luce in città devastate dalla guerra civile è stata una prova di efficienza dell’Is.
Poi c’è un 23 per cento dalle tasse, riscosse in modo inflessibile.
Ma i proventi più cospicui vengono dalla voce “confische”: oltre il 44 per cento.
Di cosa si tratta? Proprietà di chi è fuggito e dei rivali imprigionati o uccisi; greggi e mandrie sequestrate ai contrabbandieri; sigarette, alcolici e altri prodotti occidentali requisiti per la legge coranica. Insomma, il profitto del Terrore.
Le spese invece sostengono soprattutto lo sforzo militare.
Il 43 per cento va nelle paghe dei miliziani e un altro 20 per mantenere le basi, inclusa la manutenzione di armi e veicoli.
Un decimo sovvenziona la polizia islamica, voce che comprende i tribunali che amministrano la giustizia civile e dirimono le controversie commerciali.
Il 17,7 per cento sostiene i servizi pubblici: riparazione delle strade, raccolta rifiuti, assistenza medica, rete idrica.
Poco meno del sei viene destinato agli aiuti: elargizioni per la popolazione oppure contributi per rilanciare l’agricoltura.
Infine il tre per cento finanzia l’apparato mediatico di propaganda.
Queste informazioni dimostrano però la capacità del califfato nell’amministrare il territorio, tra paura e consenso.
E la scarsa incisività dei raid occidentali, che non hanno scalfito il business petrolifero. Solo nelle ultime settimane infatti i bombardamenti hanno preso di mira pozzi e installazioni che forniscono l’oro nero dell’Is.
Gianluca Di Feo
(da “L’Espresso”)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
“BELPIETRO E’ UNO ABBASTANZA COGLIONE, HA PROBLEMI DI TIRAGGIO DEL QUOTIDIANO, IN TUTTI I SENSI”
“Il quotidiano ‘Libero’? Quel giornale fa schifo, non mi ci pulirei nemmeno il culo, anche perchè il piombo è cancerogeno. Preferisco i settimanali colorati. Almeno hanno un po’ più di classe”.
Sono le corrosive parole del fotografo Oliviero Toscani, ospite de La Zanzara, su Radio24, a proposito della discussa prima pagina del quotidiano, all’indomani degli attentati a Parigi.
E spiega: “Il titolo “Bastardi islamici” di Libero? E’ un titolo molto forte, ma fare una pagina così è da coglioni. Belpietro? E’ abbastanza coglione, uno viene giudicato per quello che è. Io trovo che provocare sia fantastico” — continua — “vuol dire rimettere tutto in discussione e far vedere le cose in modo diverso. Ma quel titolo è una trovata banale, gratuita, poco intelligente. Serve solo ad aumentare il numero di copie, Belpietro ha problemi di distribuzione e di tiraggio del quotidiano. E per ‘tiraggio’ intendo anche in un altro senso, perchè uno così è un po’ impotente”.
Toscani si dichiara assolutamente contrario a un intervento militare contro l’Isis, così come declamato più volte dal leader della Lega Matteo Salvini: “In realtà , qui abbiamo di fronte un cancro sociale, una grande malattia, che è prodotto dalla religione. La religione è stata la manifestazione più deteriorata e più negativa della creatività umana. Le religioni sono la cosa peggiore dell’uomo. Hanno fatto solo disastri, sono una perdita di tempo. Sono un’invenzione per dare sicurezza all’uomo, per delegare a qualcun’altro e non assumersi le proprie responsabilità ”.
E rincara: “Con le religioni si spera di andare in Paradiso e intanto nessuno vuole davvero morire, perchè non c’è sicurezza che ci sia questo Paradiso. Anche gli stessi papi, quando stanno per morire, si curano, no?
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
FINITO DOPO OTTO ORE L’ASSEDIO AL RADISSON HOTEL DI BAMAKO
È finito dopo quasi otto ore l’incubo per le oltre 130 persone tenute in ostaggio da un commando
armato all’interno del Radisson Hotel di Bamako, la capitale del Mali. Ventisette per il momento le vittime, anche se il bilancio è ancora provvisorio. Almeno tre i terroristi rimasti uccisi.
L’assalto era iniziato questa mattina quando gli assalitori avevano fatto irruzione nell’albergo, dirigendosi al settimo piano dell’edificio.
Gli uomini, secondo alcune testimonianze, erano arrivati all’albergo a bordo di un’auto con una targa diplomatica.
All’interno erano ospitati molti cittadini stranieri, tra cui anche diversi francesi. Al momento però non è nota la nazionalità delle vittime.
L’azione terroristica è stata rivendicata da Al-Murabitun, un gruppo affiliato ad Al Qaeda e guidato dall’ex contrabbandiere Mokhtar Belmokhtar.
(da agenzie)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
COME SONO ORGANIZZATI I NOSTRI REPARTI SPECIALI: 50 MINUTI PER INTERVENIRE
Cinquanta minuti di tempo massimo per intervenire in ogni posto da cui provenga l’emergenza: sequestro di ostaggi e conflitto a fuoco.
Il territorio italiano diviso in quattro grandi aree. Ciascuna «affidata» ai nostri quattro reparti di teste di cuoio: i Nocs della polizia, i Gis dei carabinieri, il Col Moschin dell’Esercito e il Comsubin della Marina.
E’ la sintesi del «livello 2» di sicurezza scattato in Italia venerdì notte, dopo che Parigi veniva messa a ferro fuoco dai jihadisti.
Il piano predisposto da Viminale e Difesa prevede l’impiego più immediato possibile dei nostri commandos.
Che tra l’altro, in questi mesi dopo l’attacco di gennaio a Charlie Hebdo e al market kosher, hanno aumentato la collaborazione operativa – in termini di addestramento comune e di scambio di informazioni su tecniche d’intervento – con gli omologhi europei.
Come i francesi del Raid, del Bri e dei Gign impiegati – letteralmente – in «prima linea» da venerdì.
Vediamo di seguito quali sono, tra Roma, Parigi, Bruxelles, Londra e Berlino, i reparti speciali impiegati nelle emergenze.
E quali, anche, i protocolli operativi in vigore in Italia da poche ore.
I quattro teatri di intervento
Il recentissimo piano anti terrorismo coordinato da Interni e Difesa ha suddiviso il territorio nazionale diviso in quattro «macroregioni». Appoggiati da velivoli – in parte delle singole armi e in parte forniti dall’Aeronautica – destinati espressamente a quest’unico impiego.
Non basta: il livello 2 dell’allerta scattato da venerdì notte prevede, per ciò che riguarda la polizia, anche l’impiego di nuove squadre anti-terrorismo: esattamente si chiamano «Unità operative di pronto intervento».
Addestramento ed equipaggiamento specifico: una via di mezzo tra Nocs e personale delle Volanti. Dispiegati – sinora – nelle 20 maggiori città . Ma il loro impiego verrà esteso.
Auto blindate, armamento più sofisticato, esercitazioni condotte assieme alle «teste di cuoio».
I Nocs della polizia
Anni di piombo. L’Italia deve fronteggiare l’eversione armata. In prima fila ci sono i Nocs della polizia e i Gis dei carabinieri. I commandos delle forze dell’ordine italiane. Il «copyright» dell’idea fu dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga dopo aver visto all’opera le «teste di cuoio» tedesche nell’intervento all’aeroporto di Mogadiscio dove annientarono un commando di 4 terroristi della Raf (Rote Armee Fraktion) che aveva sequestrato un Boeing 737 della Lufthansa.
Per ciò che concerne i Nocs, l’impiego è su tutti i fronti: anti-terrorismo, anti-mafia. Contro la criminalità comune. Azioni destinate a restare nella memoria: la liberazione del generale americano James Dozier (era il 1982) rapito dalle Brigate Rosse e l’arresto del boss dei boss Bernardo Provenzano (2006)
I Gis dei carabinieri
I Gis vengono istituiti ufficialmente il 6 febbraio 1978. Dopo, è un susseguirsi di operazioni di successo. Molte non sono note perchè sul loro fascicolo c’è scritto «operazioni riservate».
L’Italia scopre la loro esistenza il 28 dicembre 1980. Rivolta al carcere di Trani. Per sedarla, il governo decide l’invio dei Gis. E l’Italia per la prima volta scopre l’esistenza di questi reparti speciali. All’interno dell’istituto penitenziario detenuti comuni e brigatisti rossi prendono in ostaggio 18 agenti di custodia.
Al termine di un lungo conflitto a fuoco le guardie carcerarie vengono liberate. Molti coinvolti nel blitz vengono feriti, ma nessuno viene ucciso nello scontro.
E poi: raid per liberare ostaggi nelle mani dell’Anonima Sequestri (come Patrizia Tacchella, 1990, e Rosa Laura Spadafora, 1995) blitz contro boss della criminalità organizzata armati sino ai denti.
I commandos del Col Moschin
Uno dei quattro quadranti-sicurezza è affidato ai commandos del Col Moschin. Gli eredi degli «Arditi» della prima guerra mondiale.
Tra i primi, se non il primo, reparto speciale europeo della storia recente. Dal 1953, anno della loro costituzione, schierati praticamente ovunque, Libano, Somalia, Balcani, Iraq, Afghanistan, Ruanda, Libia.
Sovente in operazioni «top secret». Selezioni durissime. Tirocini micidiali tra prove atletiche che spaventerebbero atleti olimpici e corsi a livello ingegneristico per l’impiego di armamenti sofisticatissimi.
Gl incursori della Marina
Dire che i commandos della Marina militare (il Comsubin: Comando subacquei e incursori) siano i migliori al mondo, forse migliori dei Navy Seals, non è un azzardo. Di certo i loro raid restano nella leggenda. Quelli dei Mas e delle torpedini impiegate nella prima guerra mondiale. Dei «maiali» nella seconda.
Quando le truppe Alleate sbarcarono in Italia e raggiunsero Taranto, era il 1943, per prima cosa – parliamo dei britannici – si diressero verso la base degli incursori di marina. E letteralmente si misero a seguire le «lezioni» degli istruttori «cobelligeranti» per imparare tecniche all’avanguardia sull’impiego dei siluri a lunga corsa, barchini esplosivi e raid anfibi.
Nel piano sicurezza coordinato da Difesa e Interni, uno dei quadranti spetta al Comsubin. Ma in caso di sequestro ostaggi in mare aperto – genere Achille Lauro – loro sarebbero comunque i primi a intervenire.
Alessandro Fulloni
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 20th, 2015 Riccardo Fucile
IL NESSO NELLE PAROLE DI HOLLANDE
Non c’è tregua nella spirale del terrore jihadista. Questa volta il teatro dell’orrore è l’hotel Radisson a
Bamako, capitale del Mali.
L’obiettivo sembra essere di nuovo la Francia: nell’albergo, infatti, alloggiavano molti francesi, insieme a espatriati e professionisti di altre nazionalità .
Proprio ieri il presidente francese Franà§ois Hollande aveva sottolineato che i fanatici della jihad considerano la Francia nemica per il suo impegno in Mali.
Militari francesi sono tuttora presenti nel Paese africano, dopo l’intervento militare del gennaio 2013 per aiutare le forze armate locali nella lotta contro i jihadisti nel nord.
In un discorso pubblico, il presidente aveva ricordato che nel 2013 la Francia ha aiutato il Mali, ottenendo una “vittoria”: i “terroristi lo sanno e per questo ci considerano nemici”.
E ancora: “I terroristi nel 2012 si sono accaniti contro la cultura del Mali, imponendo divieti e sottomettendo le donne”, aveva dichiarato Hollande. “La Francia ha dovuto prendersi le sue responsabilità e portare avanti azioni importanti”.
Il nord del Mali era caduto sotto il controllo dei militanti islamisti nel 2012.
Poi, nel 2013, un’offensiva militare guidata dalla Francia aveva ridimensionato la loro presenza.
L’allarme, però, era solo parzialmente rientrato: nel mentre la rete jihadista continuava, nell’ombra, a pianificare attentati. I jihadisti sopravvissuti hanno organizzato una serie di attacchi alle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite e all’esercito maliano.
Particolarmente attivo il network jihadista Ansar Dine, che – stando alle prime informazioni – sarebbe coinvolto nell’attacco di oggi all’hotel Radisson.
Il gruppo combatte per l’instaurazione della shari’a in Mali, ed è sospettato di avere collegamenti con l’organizzazione terroristica fondamentalista al Qaida nel Maghreb islamico (AQMI).
Secondo alcune fonti, l’assalto di oggi è opera del Fronte di liberazione di Massina (Force de libèration du Macina), altro gruppo jihadista protagonista della guerra in Mali.
Nell’agosto scorso un commando di terroristi prese d’assalto un hotel a Sevare, a nord della capitale, dove alloggiavano diversi membri delle Nazioni Unite.
Il sequestro degli ostaggi si concluse con almeno sei vittime, tra cui cinque soldati maliani e un consulente Onu. L’attacco fu rivendicato da un gruppo islamista collegato ad Ansar Dine.
La crisi interna in Mali, un tempo considerato un modello di democrazia in Africa, è scoppiata nel gennaio del 2012 con la ribellione dei Tuareg nel nord del Paese ed è sfociata nel marzo di quell’anno nella destituzione da parte dei militari del presidente Amadou Toumani Tourè.
Così si era aperta la strada alla conquista del nord da parte di ribelli separatisti e islamisti. Tre anni fa tutto il nord era stato occupato dai jihadisti un tempo alleati dei ribelli Tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla).
A gennaio 2013 la Francia avviava un intervento militare (Operation Serval) per allontanare gli insorti dal nord, dalle città di Timbuktu, Kidal e Gao.
Poi, dopo le operazioni dei soldati francesi e africani, il primo luglio 2013 era partita la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Minusma), che ha contribuito alla sicurezza del voto del luglio di due anni fa, le prime elezioni presidenziali dopo 18 mesi di crisi politica e guerra.
Dal voto è uscito vincitore Ibrahim Boubacar Keita, che oggi dovrebbe rientrare in patria dal Ciad, dove era arrivato ieri per il G5 del Sahel.
Risale invece solo alla scorsa estate la firma dell’accordo di pace in Mali, sottoscritto il 20 giugno anche dall’ultimo gruppo di separatisti Tuareg (Coordinamento dei Movimenti per Azawad, Cma) che ne era rimasto fuori dopo l’adesione – il 15 maggio – di diversi movimenti ribelli arabi e Tuareg a una road map di due anni, sostenuta dall’Onu e definita con la mediazione dell’Algeria.
La road map concede maggiori poteri ai leader regionali nel nord del Paese e prevede la promozione dello sviluppo economico nell’area. L’assalto jihadista di oggi dimostra però come l’ex colonia francese sia ancora molto lontana da una vera stabilizzazione.
All’alba dell’intervento, Hollande prometteva che i militari francesi avrebbero poggiato i loro stivali sulle sabbie del Sahara solo per “poche settimane”.
Le cose, poi, andarono diversamente: l’Operation Serval cambiò nome e struttura, ma nella sostanza l’esercito del Mali non diventò mai autonomo nel contrasto alle forze jihadiste.
Lo dimostra la presenza a tutt’oggi delle truppe francesi, a loro volta impreparate di fronte a un attacco che più che un colpo di coda, rappresenta la dimostrazione di un piano globale del terrore.
Anche in questo caso, l’intelligence era a conoscenza del rischio terrorismo.
Secondo la testata africana Jeune Afrique, i servizi maliani sapevano che i combattenti del Front de libèration du Macina stavano organizzando degli attentati. Pare che ne avessero già sventati sei negli ultimi mesi, tra cui uno il 2 agosto al club nautico Djoliba, sempre a Bamako.
(da “Huffingtonpost”)
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