Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
SI AVVICINA LA FINE DEL PARTITO PERSONALE, GRILLO SOLO TERZO NEL GRADIMENTO DELLA BASE… NON PIU’ VOTO DI PROTESTA, ORA 8 ELETTORI SU 10 DECISI A GOVERNARE
Il M5s non si sfalderà da solo, come ritenevano (auspicavano?) molti osservatori e attori politici. Non imploderà , frustrato da un inseguimento senza speranza. E da un’opposizione senza alternativa.
Il M5s va preso sul serio perchè, dalle elezioni del 2013, è il secondo partito, dietro al Pd. Senza soluzione di continuità . Secondo alcuni, anzi, perfino il primo.
Negli ultimi mesi, infatti, ha continuato a crescere, mentre il Pd è calato.
E, dopo l’estate, la distanza fra i due primi partiti, Pd e M5s, si è ridotta (secondo l’Atlante Politico di Demos) intorno a 4-5 punti: 31,6% a 27,4% .
Confermata, in caso di ballottaggio: 52 a 48.
Il M5s, in altri termini, potrebbe vincere le elezioni. Anzi, secondo il CI-SE di Roberto D’Alimonte, che ne ha scritto ieri sul Sole 24 Ore, vincerebbe. Anche se di misura.
I sondaggi, ovviamente. Sono sondaggi. Non elezioni. Non servono a “prevedere”, ma, certamente, aiutano a cogliere le tendenze e i rapporti di forza, in ambito elettorale. E a comprenderne il significato, le ragioni.
D’altronde, i primi a crederci, oggi, sono gli elettori stessi del M5s. In caso di successo elettorale, 8 su 10, fra loro, si dicono decisi a governare. Nel 2013 era avvenuto il contrario. Perchè 7 su 10, allora, avevano spiegato la loro scelta come un voto di protesta.
Oggi non è più così. Per questo il M5s va preso sul serio. E per questo conviene chiedersi cosa sia cambiato nel corso del tempo.
Se si confronta il profilo della base elettorale oggi rispetto al recente passato, emerge una sostanziale continuità . Ma con due importanti differenze.
La prima: si allarga la distanza generazionale. Il M5s, infatti, ha aumentato il suo peso elettorale soprattutto fra i giovani e, parallelamente, fra gli studenti.
Al di sotto dei 30 anni, infatti, ha ormai raggiunto il 34%. E fra gli studenti sale oltre il 36%.
Mentre sul piano territoriale si è maggiormente “meridionalizzato”.
È, dunque, divenuto un vettore della “domanda di cambiamento”, maturata – e alimentata – dalla spinta dei giovani e degli studenti.
Al tempo stesso, ha canalizzato le tensioni che agitano la società . L’insoddisfazione economica e l’insofferenza politica che agitano, in particolare, il Mezzogiorno.
In bilico fra protesta e richieste di assistenza. Fra protesta e consenso.
Il M5s, in altri termini, non è più, da tempo, un Movimento fondato (principalmente) sulla Rete. Sulla “Cittadinanza online” (come recita un recente saggio di Luigi Ceccarini pubblicato per i tipi del Mulino).
Ma un Movimento- partito ibrido (per riprendere un altro saggio di Bordignon e Ceccarini, per Journal of Modern Italian Studies). Che miscela diversi tipi di organizzazione. Vecchi, nuovi e post- nuovi.
Ma la novità più importante e significativa è, probabilmente, costituita dalla leadership.
Da molti anni e per molti anni, fino a ieri, il M5s è apparso un partito personalizzato. Anzi, quasi “personale”. Perchè fondato da Grillo e su Grillo. Legalmente titolare del marchio.
Specchio e amplificatore di un MoVimento, peraltro, frammentato e disperso. Beppe Grillo: gli ha dato visibilità e, anzitutto, unità . Ne è stato il volto, la voce. E, insieme a Roberto Casaleggio, lo stratega. Fino a ieri.
Ma, oggi, molto è cambiato. Certo, fra gli elettori, Beppe Grillo resta il più popolare, il più “amato”. E non potrebbe essere diversamente.
Perchè è ancora lui l’attore – politico e non solo – protagonista. Ma altri leader crescono, intorno a lui.
Per quanto popolare, anzi: il più popolare, dentro e fuori il M5s, infatti, Beppe Grillo, non è più il “leader preferito”.
Le indicazioni (spontanee) degli elettori del M5s, infatti, mostrano al proposito un cambiamento profondo, nel corso del tempo (sondaggi Demos).
Nel marzo 2013, all’indomani del voto, c’era, effettivamente, solo Grillo (77%). Intorno a lui: nessuno.
Ma, oggi, solo il 10% degli elettori pentastellati lo vorrebbe leader. Mentre la scelta di gran lunga più condivisa si orienta su Luigi Di Maio.
Perfino Alessandro Di Battista ottiene un sostegno – leggermente – più ampio: 13%.
La base, dunque, continua a riconoscere Grillo, come bandiera e come uomo-immagine. Ma, come guida, preferisce altri. Per primo Di Maio.
Il M5s non è più un partito-personale. Identificato dalla/nella figura di Grillo. Il quale, peraltro, ha fatto togliere il proprio nome dal simbolo.
A differenza degli altri partiti personali (non solo Forza Italia, ma, per esempio, IdV e Scelta Civica, scomparsi, insieme a Di Pietro e Monti), il M5s sopravviverebbe all’inventore.
Non solo, ma sembra già disposto e intenzionato ad andare oltre. E ciò, paradossalmente, lo rende più simile ai partiti “tradizionali”, che non sono sussidiari di un leader.
Ma agiscono, semmai, al suo servizio, dopo averlo scelto.
E per questo hanno possibilità di riprodursi e di durare a lungo. D’altronde, il M5s è, ormai, presente nelle istituzioni e nei governi locali.
Fra il 2014 e il 2015 si è dotato di una struttura di “mediazione” con la società e i cittadini. Attraverso il cosiddetto Direttorio.
Ed è presente – e organizzato – nella società e sul territorio. Dove ha continuato a utilizzare la “dis-intermediazione “- ad ogni livello – come uno dei principi fondativi.
Per questo, anche per questo il M5s va preso sul serio. Perchè non intercetta più solo – e soprattutto – la “sfiducia” – democratica.
Non esercita solo la “contro democrazia” (tematizzata da Pierre Rosanvallon), la “democrazia della sorveglianza”. Il controllo democratico. Ma è spinto dalla domanda – e dalla ricerca – di governo, espressa da gran parte dei suoi elettori.
Che puntano, per questo, su leader cresciuti ” nel” partito. Pardon: nel Non-Partito. Oggi: il “Partito del M5s”. Rappresentato dai Di Maio, i Di Battista. E da altri “Cittadini”, ancora poco noti.
Per questo oggi – anche se non da oggi – conviene prendere sul serio il M5s.
E i suoi attivisti, i suoi elettori, i suoi leader: non chiamateli più “grillini”.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
INTERVISTA A CECILIA STRADA: “UN MODO PER ONORARE UNA PERSONA SOLARE E APPASSIONATA CHE LAVORAVA PER I DIRITTI DEI PIU’ DEBOLI”
“Stiamo costruendo il nuovo Centro di maternità ad Anabah, in Afghanistan, per dare più
diritto alla cura a mamme e bambini e più lavoro e formazione alle donne impiegate nel Centro. E, d’accordo con la famiglia, abbiamo deciso che la nuova struttura sarà dedicata a Valeria Solesin”.
Questo il post apparso sul profilo Facebook di Cecilia Strada, presidente di Emergency, l’organizzazione non governativa che da più di vent’anni cura strenuamente (e gratis) tutti i malati e i feriti delle guerre, della povertà , delle ingiustizie, degli interessi striscianti e del terrore nel mondo.
E Valeria era una di loro.
Una scoperta, una rivelazione che è suonata così naturale. La ragazza veneziana trucidata al Bataclan di Parigi era stata una volontaria di Emergency.
Perchè Valeria voleva rendersi utile al mondo. Voleva contribuire a mitigarne le troppe sofferenze e convulsioni. Valeria voleva capirlo, questo mondo.
A cominciare dalle ragioni degli altri, dei più distanti. Con l’ottimismo della volontà e anche quello della ragione. Prima che il suo sogno finisse come sappiamo.
Il nuovo centro di maternità in Afghanistan che sarà intitolato a Valeria Solesin è una struttura che dà lavoro a sole donne, in un Paese dove la mortalità materna è 115 volte più alta di quella italiana.
La nostra intervista a Cecilia Strada parte da qui.
“È un pensiero che Emergency ha avuto subito dopo aver saputo del suo coinvolgimento in questa drammatica vicenda. Naturalmente, abbiamo aspettato di parlarne prima con la famiglia. E a loro la nostra proposta è parsa una bella cosa. A quel punto abbiamo cominciato a ragionare su che tipo di struttura dedicarle. Il nostro poliambulatorio a Marghera, vicino, quindi, a casa sua? Alla fine abbiamo deciso per il centro di maternità in Afghanistan perchè si prende cura delle madri, dei bambini, della salute delle donne; e della loro piena occupazione. Tutti aspetti che per Valeria erano molto importanti: un’esperienza per la costruzione dei diritti e per le donne, per il lavoro delle donne. Un posto per non dimenticarla mai”.
Valeria ha fatto parte di Emergency. Che ricordo trattenete di lei?
“È stata una nostra assidua volontaria: a Venezia prima, e a Trento poi. I volontari del gruppo di cui ha fatto parte la ricordano come una ragazza davvero in gamba, appassionata, solare, studiosa, sveglia. Una gran bella persona”.
“La nostra dignità è dovuta e dedicata a tutte le Valerie che lavorano, studiano, soffrono e non si arrendono”. Lo ha detto Alberto Solesin, padre di Valeria, durante i funerali laici e di Stato della ragazza uccisa al Bataclan.
“Ripensando a Valeria non voglio isolare la sua immagine dal contesto in cui lei viveva a Parigi. L’università , l’Istituto nazionale di studi demografici, i bistrot, le birrerie dove amavano incontrarsi tante ragazze e ragazzi come Valeria. Gioiosi, operosamente rivolti a un futuro che tutti, mi pare, assieme a lei vogliono migliore”
Con Valeria e gli altri ragazzi sterminati al Bataclan è stata colpita, forse deliberatamente, la “generazione Erasmus” come la definisce il premier Matteo Renzi. La nostra “Meglio Gioventù Europea”. Perchè proprio lei, perchè proprio loro?
“Non sono in realtà particolarmente stupita per quanto è accaduto, perchè l’esperienza del terrorismo, che è anche l’esperienza della guerra, è appunto sinonimo di “vittime civili”. Sono vent’anni che lavoro in Emergency e non conosco una situazione di violenza, di conflitto, di terrorismo, di guerra in cui a farne le spese non siano stati i civili. Magari attraverso “bombardamenti chirurgici” e “droni intelligenti”. Poi, di volta in volta tra i civili massacrati, tra quelli che non c’entrano niente puoi trovarci i ventenni, i 25enni, i bambini, i vecchi contadini… questa è la tragica realtà dei conflitti moderni. A morire non sono i combattenti. A morire nella stragrande maggioranza dei casi sono i civili”.
Emergency, citandovi, “da oltre vent’anni risponde all’orrore della violenza con la pratica dei diritti”. Anche la battaglia contro l’Isis può essere combattuta con un sovrappiù di civiltà ? O la guerra è ormai inevitabile?
“Noi muoviamo da una considerazione inequivocabile, fermo restando che non devono essere le organizzazioni non governative come la nostra a trovare le soluzioni, ma l’Onu e gli organismi sovranazionali. Il dato di fatto è questo: sono quindici anni che il mondo è impegnato in una guerra senza quartiere contro il terrorismo, e i risultati non sono certo entusiasmanti se pensiamo a Daesh, ai morti di Beirut, Parigi, Kabul e in Siria tutti i giorni. Nella nostra esperienza la guerra non è uno strumento che ha funzionato. Per contro, sempre per il nostro vissuto personale, ci sembra che la pratica dei diritti sia un modo efficace e molto più economico di mettere in campo degli antidoti alla violenza e al fanatismo. Noi quindi andiamo avanti così”.
Salvaguardare i diritti: e poi?
“Occorrerebbe anche molta onestà intellettuale. Bisogna controllare seriamente i flussi finanziari: da dove arrivano i fondi, le armi e gli appoggi politici al terrorismo? E poi, più “banalmente”: chi li compra i reperti archeologici con cui i miliziani dell’Is fanno un sacco di soldi? Non certo i cittadini iracheni, o quelli siriani e afghani. E il petrolio di contrabbando dal Califfo chi se lo compra? Va potenziata l’attività di intelligence e migliorato il lavoro di chi si occupa delle attività di “deradicalizzazione…”.
Un’inquietante figura si aggira e moltiplica nel cuore dell’Europa: il “foreign fighter”.
“Gli ultimi attentati perpetrati su suolo europeo sono stati organizzati da cittadini europei, non da gente arrivata dall’Iraq o dalla Siria. Come è possibile che un ragazzo nato a Bruxelles si faccia saltare in aria a Parigi? Occorre allora secondo noi un maggiore impegno nell’attività di deradicalizzazione. Per esempio spiegando alle famiglie, e agli insegnanti, come riconoscere i campanelli d’allarme, come evitare gli arruolamenti e le affiliazioni, “deradicalizzandoli” prima che sia troppo tardi. Troviamo frustrante che la risposta sia sempre e soltanto questa: “Più guerra, più bombe”. Così facendo continueremo a contare i morti. Anche a Parigi”.
Chi arma Daesh?
“Per anni ci hanno raccontato che, grazie ai satelliti, si riesce a vedere persino un foglio formato A4 sul marciapiede sotto casa nostra. Ma allora come è possibile che non si riescano a identificare i flussi di armi? Basterebbero i semplici metodi ordinari di intelligence e di polizia; gli strumenti della lotta alla mafia. E Falcone non ha mai proposto di bombardare la Sicilia per sconfiggere la mafia”.
Viviamo in un pianeta incattivito?
“È da decenni che lavoriamo in zone di guerra. Dal ’99 siamo in Afghanistan, dove crescono ogni anno le vittime civili; dal ’95 in Iraq, dove negli ultimi due anni abbiamo aperto dei centri sanitari nei campi degli sfollati e dei fuggiaschi dalle violenze e dai bombardamenti. Siamo in Africa, con centri di chirurgia d’urgenza per cercare di porre un argine a guerre civili combattute anche a colpi di machete. Le vittime dilagano dappertutto. La violenza va a spirali. La guerra, il terrorismo procedono per spirali: era inevitabile che prima o poi saremmo stati toccati anche in posti in cui ci sentivamo completamente al sicuro. Ma non può esserci un posto sicuro in un mondo pervaso dalla violenza”.
Condivide la posizione di non interventismo aperto del governo Renzi?
“Non mi è chiarissimo quello che intende fare il governo italiano, con dichiarazioni del tipo: “Siamo al vostro fianco ma poi vedremo come”. Credo che il nostro governo, al di là di essere con la Francia, debba ragionare in proprio. Chiedendosi per esempio: in quale modo le armi da noi esportate in Medio Oriente, in Nord Africa, in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo possono far sì che il mondo diventi sempre più violento? È possibile che tra i nostri alleati ci siano Stati che sostengono direttamente o indirettamente il terrorismo? Finora non ho sentito nessun discorso del genere”.
Perchè ci commuoviamo per le vittime di Parigi e molto di meno per chi di terrorismo muore in Mali, in Tunisia o in Palestina?
“Da un lato gioca l’immedesimazione: tutti avremmo potuto essere al Bataclan, tutti siamo stati una volta a Parigi e lo stesso non può dirsi per Baghdad o Damasco. Ma qui un ruolo assolutamente centrale lo rivestono i media. È un percorso cominciato dopo l’11 settembre. Le vittime dell’attacco alle Torri gemelle ci vennero giustamente raccontate a fondo. Conoscemmo le loro facce, i loro nomi, le loro passioni: ognuno di loro è diventato parte del nostro album familiare, della nostra storia. Lo stesso meccanismo si è replicato a Parigi, ma questo non accade quando un attentato terroristico spazza via duecento innocenti in Afghanistan o in Iraq. In quel caso i giornali si limitano a un trafiletto. Quelle vittime non vengono raccontate come tutte le vittime meriterebbero, e così non penetrano nel nostro immaginario collettivo. Non potremo mai sentirle vicine. Non potremo mai capirle”.
Dopo venerdì 13 novembre sta rimontando, in tutta Europa, l’avversione nei confronti dei migranti. “Avete aperto le frontiere, queste sono diventate un colabrodo e ora non lamentatevi se in mezzo a immigrati e rifugiati regolari si annidino, a frotte, gli invasati dell’Isis” recita certa retorica destrorsa.
“Il proliferare dei foreign fighters insegna che le frontiere c’entrano ben poco. E allora, e a maggior ragione creiamo dei corridoi umanitari, controllati, delle possibilità di arrivare in Italia in modo legale, in aereo, per i richiedenti asilo e per chi scappa da guerre atroci. Non solo per salvargli la vita, ma anche per una questione di sicurezza”.
La caccia al clandestino cripto-terrorista: questo è quello che desideravano gli jihadisti?
“Sicuramente il razzismo e l’islamofobia sono un grande regalo all’estremismo perchè forniscono delle ghiotte occasioni di propaganda. Ogni profugo accolto in Europa è una sconfitta per Daesh. Ogni profugo respinto è un regalo che gli facciamo”.
Maurizio Di Fazio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
RAPPORTO DELL’AGENZIA EUROPEA DELL’AMBIENTE: NEL 2012 OLTRE 84.000 VITTIME… TRE I KILLER: MICRO POLVERI SOTTILI, BIOSSIDO DI AZOTO E OZONO
L’Italia è il Paese dell’Unione europea che segna il record del numero di morti prematuri rispetto alla normale aspettativa di vita per l’inquinamento dell’aria.
La stima arriva dal rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea): il Belpease nel 2012 ha registrato 84.400 decessi di questo tipo, su un totale di 491mila a livello Ue.
I killer.
Tre i ‘killer’ sotto accusa per questo triste primato. Le micro polveri sottili (Pm2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono, quello nei bassi strati dell’atmosfera (O3), a cui lo studio attribuisce rispettivamente 59.500, 21.600 e 3.300 morti premature in Italia.
Il bilancio più grave se lo aggiudicano le micropolveri sottili, che provocano 403mila vittime nell’Ue a 28 e 432mila nel complesso dei 40 Paesi europei considerati dallo studio.
L’impatto stimato dell’esposizione al biossido di azoto e all’ozono invece è di circa 72mila e 16mila vittime precoci nei 28 Paesi Ue e di 75mila e 17mila per 40 Paesi europei.
Pianura Padana più colpita.
L’area più colpita in Italia dal problema delle micro polveri si conferma quella della Pianura Padana, con Brescia, Monza, Milano, ma anche Torino, che oltrepassano il limite fissato a livello Ue di una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria, sfiorata invece da Venezia.
Considerando poi la soglia ben più bassa raccomandata dall’Oms di 10 microgrammi per metro cubo, il quadro italiano peggiora sensibilmente, a partire da altre grandi città come Roma, Firenze, Napoli, Bologna, arrivando fino a Cagliari.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
MILANO DOMINA, SARDEGNA FANALINO DI CODA… SI VA DA UNA MEDIA DI 34.000 EURO A 22.000
Il cuore della Lombardia ha gli stipendi più alti della Penisola, quello della Sardegna i più
poveri.
E’ la provincia di Milano, infatti, a garantire le retribuzioni annue lorde più pesanti, secondo la rilevazione dell’Osservatorio Jobpricing, con un livello che supera i 34.500 euro.
Nel medio-campidano, invece, si scende sotto la soglia di 22.500 euro, per una sforbiciata di oltre un terzo dell’assegno.
Nel mezzo, tutte le altre province, con una tendenza che non stupisce: vincono le regioni del Centro-Nord, le più attardate sono quelle del Mezzogiorno.
Se si raggruppano i risultati per regioni, infatti, la Lombardia si issa al primo posto con retribuzioni lorde medie di oltre 31mila euro, e sul podio si accompagna con Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna.
Quarto il Lazio, con poco meno di 30mila euro, anche se Roma è fuori dalla top ten delle province meglio retribuite con un risultato di 30.126 euro.
Si tratta di una rilevazione che – a differenza di quella svolta per esempio dall’Istat (che accorpa più redditi: da lavoro dipendente, da pensione, da attività in proprio, da rendite, per poi suddividerli per i componenti della famiglia) – riguarda il dato puntuale relativo al lavoro dipendente, nel suo luogo di produzione (che può esser diverso dalla residenza), con l’esclusione di autonomi e Pa.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 30th, 2015 Riccardo Fucile
UN “TRAVOLGENTE” BERGOGLIO INCONTRA LA COMUNITA’ MUSULMANA CENTRAFRICANA: “SIAMO FRATELLI, CHI CREDE IN DIO E’ UOMO DI PACE”
“Nessuna violenza in nome di Dio”. Sono parole di pace quelle di Papa Francesco stamane, all’inizio della visita nella moschea principale di Bangui, nel quartiere musulmano di Koundoukou nella Repubblica Centroafricana.
“Tra cristiani e musulmani siamo fratelli ha detto il Papa – dobbiamo dunque considerarci come tali, comportarci come tali. Sappiamo bene che gli ultimi avvenimenti e le violenze che hanno scosso il vostro Paese non erano fondati su motivi propriamente religiosi. Chi dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace”.
“Cristiani, musulmani e membri delle religioni tradizionali – ha aggiunto – hanno vissuto pacificamente insieme per molti anni. Dobbiamo dunque rimanere uniti perchè cessi ogni azione che, da una parte e dall’altra, sfigura il Volto di Dio e ha in fondo lo scopo di difendere con ogni mezzo interessi particolari, a scapito del bene comune”.
Nell’ultimo giorno in Centrafrica il Papa ha ricordato gli ultimi fatti drammatici di cronaca.
“Insieme diciamo ‘No’ all’odio, alla vendetta,alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio”, perchè “Dio è pace, salam”, ha spiegato Bergoglio.
“In questi tempi drammatici, i responsabili religiosi cristiani e musulmani hanno voluto issarsi all’altezza delle sfide del momento. Essi hanno giocato un ruolo importante per ristabilire l’armonia e la fraternità tra tutti. Vorrei assicurare loro la mia gratitudine e la mia stima – ha detto Bergoglio – . E possiamo anche ricordare i tanti gesti di solidarietà che cristiani e musulmani hanno avuto nei riguardi di loro compatrioti di un’altra confessione religiosa, accogliendoli e difendendoli nel corso di questa ultima crisi, nel vostro Paese, ma anche in altre parti del mondo”.
Al suo arrivo alla moschea di Koudoukou, il papa ha chiesto ai suoi ospiti di essere condotto davanti al mihrab, il punto di maggior devozione all’interno della moschea ed è rimasto in silenzio e grande raccoglimento per alcuni minuti.
Ad accogliere Bergoglio nello stadio Barthelemy Boganda di Bangui, per la messa nella ricorrenza liturgica di Sant’Andrea Apostolo, una folla di 20.000 cristiani.
Il Pontefice ha compiuto un giro nel complesso sportivo a bordo della papamobile e ha salutato i fedeli. “Ogni battezzato deve continuamente rompere con quello che c’è ancora in lui dell’uomo vecchio, dell’uomo peccatore, sempre pronto a risvegliarsi al richiamo del demonio – e quanto agisce nel nostro mondo e in questi tempi di conflitti, di odio e di guerra – per condurlo all’egoismo, a ripiegarsi su sè stesso e alla diffidenza, alla violenza e all’istinto di distruzione, alla vendetta, all’abbandono e allo sfruttamento dei più deboli”, ha detto il Papa celebrando la messa.
(da agenzie)
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Novembre 29th, 2015 Riccardo Fucile
AL BALLOTTAGGIO M5S BATTE PD 51,5% A 48,5%… PD BATTE CENTRODESTRA 57,5% A 42,5%… M5S BATTE CENTRODESTRA 62,4% A 37,6%… IL PROBLEMA PIU’ IMPORTANTE? IL LAVORO PER IL 49%… LA SICUREZZA SOLO PER IL 13%
Ben tornati al bipolarismo. L’Italicum e il suo ballottaggio non c’entrano. E soprattutto
sembra non entrarci più il centrodestra.
Il confronto finale tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle è ormai una realtà di gran parte dell’elettorato.
“Il bipolarismo italiano — scrive il politologo Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore — è sempre più imperniato tra un partito che fa politica stando al governo e uno che fa anti-politica stando all’opposizione. Oggi il voto tende a concentrarsi sempre di più su questi due attori. Gli altri sembrano essere dei comprimari”.
Le sorprese del sondaggio di Demetra per il Centro italiano studi elettorali della Luiss e pubblicato dal Sole non stanno tanto nello scenario di ballottaggio che conferma la tendenza di tutti i sondaggi dell’ultimo mese e di tutti gli istituti di rilevazione (cioè una vittoria di misura dei Cinque Stelle) quando ai risultati che raccoglierebbero Pd e M5s.
I democratici risalgono infatti oltre il 35 per cento, segnatamente al 35,6: “solo” 5 punti in meno del 40,8, spesso definito eccezionale (nel senso di eccezione).
Sono peraltro 10 punti in più di quanto raccolto dal Pd di Pierluigi Bersani nel febbraio 2013 (25,6).
Per giunta il 40 per cento, sufficiente per conquistare il premio di maggioranza senza il turno di ballottaggio, non è così lontano.
Movimento 5 Stelle sopra al 30%
Il centro dei dati del sondaggio sta tuttavia nel risultato dei Cinque Stelle che per la prima volta superano quota 30: per Demetra oggi potrebbe arrivare fino al 30,8.
Con questo schema per gli altri partiti non ci sarebbe alcuna speranza neanche di ballottaggio: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia — tutti insieme — raggiungerebbero non più del 28,7, con la nota a margine da ricordare per cui la somma aritmetica dei risultati singoli (rispettivamente 13, 12,7 e 3 per cento) non sempre corrisponde alla performance di una coalizione.
Altri sondaggi in queste settimane hanno dato il M5s in una forbice tra il 26 e il 28, ma, sottolinea D’Alimonte, i “sondaggi sono strumenti molto imprecisi, ma non sono inutili. Servono non a indovinare esiti, ma a rilevare tendenze“.
E qui la questione, aggiunge il politologo, è che il Movimento è stabilmente “il secondo partito italiano. E senza Matteo Renzi a guidare il Pd e il governo molto probabilmente sarebbe ancora il primo. Come nel 2013″. Insomma, altro che voto di protesta, estemporaneo, destinato ad “asciugarsi”.
Il partito più credibile? Nessuno
Secondo D’Alimonte, che in origine fu uno degli “ideatori” delle prime versioni dell’Italicum, “in questo momento la rabbia degli italiani, la loro voglia di cambiamento — la stessa che ha portato il Renzi rottamatore al successo — è ancora così forte” da spingere il M5s. Una rabbia che è fotografata dalle risposte ad un altro quesito: “Qual è il partito che secondo lei è più credibile nel realizzare i seguenti obiettivi?”.
Per quasi tutte le opzioni date (corruzione, costi della politica, Europa, criminalità , immigrazione, economia) la risposta è nessuno.
“Gli scettici e i delusi — spiega D’Alimonte — dominano la scena. La sfiducia continua ad essere la caratteristica distintiva di questa fase della politica italiana. Un sentimento diffuso che tocca tutti i ceti e tutte le zone del Paese. In questo quadro spicca il fatto che il M5s sia considerato credibile quanto il Pd. E su alcuni temi più del Pd“.
Al netto dello scetticismo, infatti, su questioni come costi della politica e lotta alla corruzione il M5s è ritenuto più credibile.
Si rovesciano i rapporti quando si parla di economia e relazioni con l’Unione Europea, dove il Pd è visto più affidabile. Sostanziale parità , invece, su lotta alla criminalità e questione immigrazione (per queste ultime voci, ovviamente, batte tutti la Lega Nord).
I risultati di lista
Secondo il sondaggio Demetra, dunque, il primo partito è il Pd con il 35,6.
A seguire il Movimento Cinque Stelle con il 30,8.
Poi Forza Italia e Lega Nord con il 13 e il 12,7 per cento e Fratelli d’Italia che acciuffa il 3 per cento necessario ad entrare in Parlamento.
Malissimo, secondo la rilevazione elaborata per il Sole 24 Ore, le forze politiche a sinistra del Partito democratico: Sinistra Italiana non va oltre lo 0,6 per cento e se si somma al 2,3 di Sel, tutta quell’area non supera il 2,9.
Sempre secondo questo sondaggio è un disastro anche per Area Popolare: Ncd e Udc insieme si assestano all’1,1, cifra ben lontana dalla soglia di sbarramento fissata nell’Italicum.
Ballottaggi: il centrodestra perde con tutti, M5s vince con il Pd
Nelle simulazioni di ballottaggio c’è la conferma che Renzi deve sperare che il rivale del secondo turno sia il centrodestra: il Pd vincerebbe infatti contro un listone di Berlusconi, Salvini e Merloni con il 57,5 contro il 42,5.
Stravincerebbe, oggi, anche il Movimento Cinque Stelle contro il centrodestra, evidentemente accaparrandosi una fetta di voti dell’elettorato di centrosinistra. L’unico confronto che finirebbe con un testa a testa sarebbe quello tra democratici e Cinque Stelle: vincerebbero questi ultimi 51,5 a 48,5.
Il primo problema? Il lavoro
Dalle altre risposte nel sondaggio emerge che innanzitutto il problema più importante per il 49 per cento di chi risponde resta di gran lunga il lavoro (disoccupazione, precariato), al secondo posto — staccatissima — c’è la sicurezza addirittura al 14. Secondo gli intervistati la situazione economica dell’ultimo anno è rimasta uguale (39%) è peggiorata (26) e nei prossimi mesi non si aspetta cambiamenti (rimarrà uguale per il 45%).
La maggioranza è d’accordo con l’abolizione dell’Imu così come la vuole il governo Renzi (54,7).
Buone notizie per Renzi, infine, come sottolinea anche D’Alimonte, per quanto riguarda il referendum sulle riforme istituzionali si terrà in autunno gli intervistati si dicono favorevoli nel 68% dei casi.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL SULTANO E LO ZAR TROPPO SIMILI PER ANDARE D’ACCORDO… ENTRAMBI NOSTALGICI DEL LORO GRANDE PASSATO: QUELLO OTTOMANO E QUELLO RUSSO
Sono la fotocopia uno dell’altro, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Vladimirovic Putin. 
Troppo uguali, caratterialmente e politicamente, per andare d’accordo. Troppo arroganti e fieri per mostrare cedimenti, ancor meno pentimenti.
Leggiamo che cosa ha detto Erdogan per tentare di smorzare la tensione dopo l’abbattimento del Sukhoi SU-24 russo: «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo. Spero che una cosa del genere non accada più».
Come se si fosse trattato di uno sfortunato caso del destino in una partita comunque sporca. Manca vistosamente la parola dispiacere per la morte di un essere umano, ancorchè militare, ancorchè combattente.
Figurarsi le scuse, parola ignota al lessico di Erdogan. Come a quello di Putin, peraltro: un sultano e uno zar non si scusano
Il loro codice di comportamento, interno e internazionale, è la legge del taglione.
Alla gelida dichiarazione di Erdogan Putin ha risposto ufficializzando, con la firma di un decreto, una rappresaglia che era già in atto: un boicottaggio economico della Turchia.
Il Cremlino si intende benissimo di queste cose, le ha provate a lungo con l’Ucraina, anche prima di annettersi la Crimea e invadere il Donbass con militari travestiti da miliziani volontari senza insegne e stellette.
Ieri l’assassinio, ancora avvolto in una nuvola di mistero, dell’avvocato Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi di Diyarbakir, già imprigionato il mese scorso per aver sostenuto che il Pkk non è un’organizzazione terroristica, ha aggiunto un tocco di sinistra criminalità politica a questo gioco degli specchi.
Morì misteriosamente, a due passi dal Cremlino, il 27 febbraio di quest’anno, anche Boris Nemtsov, uno dei più irriducibili oppositori di Putin.
Per mano di un “sicario”, dissero gli inquirenti moscoviti.
Le proteste di piazza (a Mosca i funerali furono una manifestazione politica, ieri a Istanbul ci sono stati incidenti) non hanno scalfito l’imperturbabilità dei poteri politici.
Putin si dolse dell’omicidio di Nemtsov con molta misura, quasi con fastidio. Come ha fatto ieri Erdogan dopo la morte di Elci: lo ha chiamato «questo incidente ».
Un sultano e uno zar non hanno pietà per i loro avversari politici. E non se ne curano: ci pensano “altri” a sistemarli.
Quando non sono “sicari” destinati a restare anonimi, sono i giudici a fare da longa manus del potere.
In Russia finì in galera Mikhail Khodorkhovskij, il magnate del gas che si era messo di traverso con la forza della sua immensa ricchezza ai giochi di Putin; e poi, dentro e fuori, tra carcere e arrestri domiciliari, toccò ad Aleksej Navalny.
In Turchia, appena due giorni fa, i giudici hanno incriminato Can Dundar, il direttore del quotidiano Cumhuriyet, e il capo dell’ufficio di Ankara, accusandoli di terrorismo e di spionaggio.
È lo stesso giornale che a maggio aveva documentato i giochi ambigui di Erdogan in Siria, fotografando tra l’altro le forniture di armi ai ribelli turkmeni, gli stessi che, guarda caso, hanno sparato ai piloti russi del Sukhoi abbattuto mentre scendevano con il paracadute.
Basta ricordare l’uccisione di Anna Politkovskaja, nel 2006, per sottolineare che i giornalisti indipendenti sono poco graditi in Russia come in Turchia, che peraltro oggi è ancora più illiberale della Russia secondo la classifica di Reporter senza frontiere.
Una fotografia del novembre 2005 mostra Erdogan, Putin e Silvio Berlusconi (l’unico oggi fuori servizio effettivo) con la mani incrociate, come i vincitori su una coppa appena conquistata, alla cerimonia per il gasdotto Blue Stream.
Era il suggello di quella che sembrava un’amicizia, umana oltre che politica, destinata a durare a lungo e cementata da una solidissima cooperazione economica.
Ancora a dicembre Erdogan aveva srotolato il tappeto rosso per la visita di Putin nel suo nuovo palazzo presidenziale da 600 milioni di dollari ad Ankara.
In realtà gli interessi economici nascondevano quella che un diplomatico turco, che aveva assistito ai colloqui tra i due, aveva definito «una forte antipatia reciproca ».
In fondo non bisogna essere Freud per intuire che non possono amarsi due populisti, nazionalisti, nostalgici degli Imperi che furono (il Russo e l’Ottomano), marziali nella testa e maschilisti nel “body language”, forti di consensi popolari che non sono minimamente scalfiti dalla loro scarsa propensione per la democrazia (i sondaggi danno Putin trionfante ad ogni rilevazione, così come le elezioni del 1 novembre hanno dato a Erdogan una chiara e netta maggioranza).
La Siria ha aggiunto all’antipatia personale una rivalità politica, che è diventata acuta nel momento in cui, dopo i tragici eventi parigini, Erdogan ha visto un progressivo cambiamento di umori e di linea, da parte di governi ma anche dei maggiori osservatori di politica internazionale, nei confronti dell’intervento militare di Putin contro gli islamisti di Daesh.
E certo non ha migliorato i rapporti il duro intervento di Putin al tavolo del recente G20, proprio a Antalya in Turchia, quando ha accusato alcuni dei Paesi seduti attorno al tavolo di finanziare e armare i macellai dell’Is.
Non si pecca di eccesso di malizia, o di dietrologia, a pensare che l’abbattimento del Sukhoi sia un incidente cercato, perfino desiderato.
«Alla fine della fiera – ha scritto proprio Aleksej Navalny nel suo blog – sono entrambi soddisfatti. E’ solo un peccato per il pilota. Per che cosa è morto?».
Paolo Garimberti
(da “La Repubblica”)
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Novembre 29th, 2015 Riccardo Fucile
“NAPOLI, BELLE EPOQUE” DELLO STORICO FRANCESCO BARBAGALLO: LA NARRAZIONE DI UNA GRANDE CAPITALE CULTURALE, A CAVALLO TRA ‘800 E ‘900
«Fino alla Grande guerra Napoli è ancora una capitale europea. Dopo non lo sarà più».
Finisce così, con un pizzico di malinconia, il bel libro di Francesco Barbagallo, storico di fama che sulla sua città molto ha scritto.
Ora Laterza pubblica Napoli, Belle à‰poque che si potrebbe forse definire una «narrazione storica», un nuovo tassello che arricchisce le opere di rilievo di Barbagallo, su Francesco Saverio Nitti, sulla storia della camorra, sulla modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia.
Un’altra citazione, pagina 131: «Nell’Ottocento e nel primo Novecento Napoli era ancora una città di grande bellezza».
E poi: allora una enorme massa di popolo e plebe affollava anche i quartieri del centro ed era dedita a mille mestieri.
Non manca un’autocritica. Barbagallo racconta come, tra Ottocento e Novecento, Napoli sia stata anche una grande capitale culturale, con la sua famosa Università , l’Accademia Pontaniana, il Circolo filologico fondato da Francesco De Sanctis, le grandi riviste di Nitti, «La Riforma Sociale» e di Benedetto Croce, «La Critica», oltre alle numerose grandi biblioteche, i teatri, i giornali, la musica, il cinema.
E aggiunge: «Sembra giunto il momento di rivedere i giudizi troppo critici, espressi anche da chi scrive, sulle classi dirigenti napoletane nell’Italia liberale perchè, nonostante i loro evidenti limiti sul terreno politico amministrativo e delle iniziative industriali, il confronto con le classi dirigenti del settantennio repubblicano va tutto a vantaggio dei bistrattati aristocratici e borghesi della Belle à‰poque, che a Napoli non si svolgeva solo nel Salone Margherita con le belle sciantose».
E in quella comparazione tra passato e presente viene in mente il massacro del mondo di oggi che Francesco Rosi ha raccontato nel suo film Le mani sulla città e vengono in mente le pagine del Mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, del Resto di niente di Enzo Striano, di Mistero Napoletano di Ermanno Rea.
È un’impresa non facile raccontare Napoli anche per chi ne conosce le viscere.
Francesco Barbagallo è riuscito a farlo con rigore, senza noia accademica.
I personaggi grandi, il Croce, Arturo Labriola, Giustino Fortunato, ma anche quelli che al loro tempo ebbero influenza ed esercitarono potere senza lasciare eredità e con loro gli uomini e le donne privi di nome, la plebe, la piccola borghesia, rivivono, segnati dai caratteri e dal costume del tempo. (Spicca il racconto del grande amore di Benedetto Croce, i vent’anni di vita appassionata con Angelina, la bellissima Donna Nella che morì nel 1913 lasciando il filosofo in una cupa disperazione).
Agli inizi del libro siamo nei decenni di fine Ottocento, tra l’ennesimo colera, nel 1884, la prima pietra della legge del Risanamento posata nel 1889 da Umberto I.
Ci fu allora furia di fare: si costruì la funicolare di Chiaia e quella di Montecalvario, fu isolato il Maschio angioino, liberata la piazza del Municipio, nacque la galleria Umberto, di fronte al teatro San Carlo, con il Salone Margherita che non avrà nulla da invidiare al Moulin Rouge e alle Folies Bergère.
Le sciantose erano famose come i calciatori oggi, Armand d’Ardy (‘A frangesa), Lilly Freeday, Lina Cavalieri, Clèo de Mèrode, «Le diseuses dalle voci smaglianti, le scatenate gommeuses del can-can».
Con le loro mosse e mossette fecero perdere la testa a borghesi doviziosi, a ufficiali dell’esercito regio, a aristocratici.
Fra gli altri, anni dopo, a Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, comandante della X Armata di stanza a Napoli.
La vita pareva correre, la festa di Piedigrotta era conosciuta nel mondo, come le canzoni, Funiculì Funiculà , Te voglio bene assaje , Era di maggio di Salvatore Di Giacomo e Mario Costa. L’industria della canzone napoletana era fiorente.
Anche la retorica dei figli di mamma gonfiava la musica del golfo.
«I figli sono figli» e basta, come nella commedia di Eduardo De Filippo, Filumena Marturano .
La madre mediterranea aveva a Napoli il suo porto sicuro protetto dallo stereotipo dei «mangiatori di maccheroni» nel paese di Pulcinella che piaceva tanto soprattutto agli stranieri.
Non tutto era rose e fiori. Ragazzetti pastori di 7-8 anni lavoravano 14, 15, 16 ore al giorno, con un salario minimo di 17 cent., «Piccoli proletari costretti ad andare al lavoro all’una dopo mezzanotte», scriveva «La Propaganda», settimanale socialista nato nel 1899.
La crisi premeva, la corruzione dilagava, i capitali stranieri, belgi, francesi, del Nord Italia erano una ghiotta preda.
Sugli affari pesava la camorra. Nel 1900 fu istituita una commissione d’inchiesta sui mali di Napoli presieduta dal senatore Giuseppe Saredo.
È impressionante ritrovare nelle mille pagine della Relazione l’attualità del fenomeno: «Il male più grave, a nostro avviso, fu di aver fatto ingigantire la camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni. (…) Collo sviluppo della camorra, la nuova organizzazione elettorale a base di clientele, di servizi resi e ricambiati in corrispettivo del voto ottenuto, sottoforma di protezione, di assistenza, di consiglio, di raccomandazione, rese possibile anche lo sviluppo della classe dei faccendieri o intermediari, che nel periodo anteriore al 1860 erano già un elemento indispensabile per il traffico degli affari».
Contro l’inchiesta Saredo si scatenarono in molti.
Tra i più eccitati Eduardo Scarfoglio, il fondatore e il direttore del «Mattino» che incitò i napoletani alla rivolta e insultò quelli del Nord «dagli occhi foderati di prosciutto».
Fu un giornalismo becero il suo, che ha fatto scuola e seguita a farla. Come giudicava lo sciopero? «Uno scoppio di quello spirito tirannico delle plebi cui i capitalisti hanno il dovere di resistere».
Con quel suo quotidiano menar colpi da ogni lato, è esperto in avvertimenti e minacce, sempre immischiato nei giochi del potere, degli affari, delle clientele.
Si firma Tartarin, ha un panfilo di 36,6 metri, è ricchissimo, «Non vi ha uomo al mondo, per povero che sia, che non possa avere uno yacht», ama dire.
Insulta il re mentre sua moglie, la scrittrice Matilde Serao, sparge nei suoi celebri «Mosconi» miele e incenso sulla regina Margherita.
È amico di D’Annunzio che ha sempre bisogno di soldi e pubblica sul suo giornale elegie, sonetti, saggi e una parte del romanzo Il trionfo della morte .
Barbagallo racconta con rigore e con minuzia lo sviluppo economico napoletano: la nascita dei grandi magazzini Mele, i tentativi di Nitti per un avvenire industriale della città fondato sull’energia elettrica.
Il saggio si conclude negli anni che precedono l’inizio della Prima guerra mondiale quando viene meno la capacità mediatrice giolittiana e i conflitti di classe esplodono con violenza.
Le lotte operaie lasciano allocchita la borghesia sorretta da Scarfoglio e dai giornali d’ordine.
La guerra porta lavoro all’industria meccanica con le forniture militari, ma i napoletani, per il 90 per cento, sono contrari: «La guerra – scrive Barbagallo – si sarebbe rivelata un pessimo affare per Napoli e per tutto il Mezzogiorno. La spesa pubblica avrebbe sempre più privilegiato le aree già sviluppate del Nord, negli anni di guerra e della riconversione industriale del ventennio fascista».
È un libro serio, sereno, di grande contemporaneità questo Napoli, Belle à‰poque .
Fa capire com’è antica (e sempre attuale) la lontananza dei governi dai problemi del Sud. Italia .
Corrado Stajano
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL SINDACO PORTA I LIBRI DELLA MUNICIPALIZZATA IN TRIBUNALE: “BUGIARDO, AVEVI PROMESSO CHE L’AVRESTI SALVATA”…QUATTRO CONSIGLIERI M5S SI SFILANO
Non più anarchica e scanzonata, non più comunista e ribelle, non più messicana e fancazzista, non più abbronzata e berciante. Non più infradito e pugni chiusi.
Livorno valica un altro crinale e diventa Livorno la sudicia.
Se una città si misura dal livello di spazzatura lungo le strade, le foto che arrivano dal cuore di Livorno ne documentano lo stato di salute, sono il chiaroscuro di una radiografia. Non è sciatteria e qui non c’è nemmeno la camorra a cui dare la colpa.
E’ piuttosto uno sciopero degli spazzini perchè il sindaco porterà i libri dell’azienda dei rifiuti in tribunale.
E’ l’epicentro di una crisi che nasce amministrativa, diventa politica e per il momento non è ancora ambientale e sanitaria.
Responsabilità e alibi si mescolano alla velocità della luce, il copione è anche un po’ banale: il Pd dice al M5s che è roba da dilettanti, il M5s ribatte che il buco è colpa del Pd, il Pd dice che però il sindaco ha cambiato idea, il sindaco risponde che però se mette i soldi lì poi deve tagliare asili, strade, dio-solo-sa-cosa.
Qualunque sia la ragione primordiale, quel paesaggio di sacchetti accatastati nella zona pedonale di una città europea del ventunesimo secolo, a un passo dal Mercato delle vettovaglie e dai Fossi medicei, è il fermo immagine del momento più difficile, per certi versi drammatico, da quando Nogarin e i Cinque Stelle governano la città , cioè dalla sera in cui — 18 mesi fa — trionfarono al ballottaggio su quel poco che rimaneva del Pd.
Il sindaco contestato, i dissidenti, la maggioranza vacilla
Drammatico, sì. “Buffone!”, “Bugiardo!”: le grida contro il sindaco, dentro l’aula più grande del municipio sono un’incrinatura nel palazzo di vetro dei Cinque Stelle: rischia di essere la fine della luna di miele, ammesso che quell’intesa tra il nuovissimo sindaco e la vecchissima città sia davvero mai iniziata.
Una crisi con cinquanta sfumature di buio, comprese le solite scissioni interne agli stellati che sono uguali a quelle in Parlamento (dissidenze, urla, minacce di espulsione, gara a chi è più grillino, lacrime) e soprattutto una maggioranza a sostegno della giunta che comincia a essere groggy: lunedì prossimo si pronuncerà il consiglio comunale e in 4 hanno annunciato che non voteranno la decisione del sindaco.
Il capogruppo Alessio Batini si lascia andare contro uno dei dissidenti (“Da stasera sei fuori”), i 4 moschettieri ribattono che loro li manda via solo Grillo e che è sempre più evidente la differenza tra il M5s nazionale e quello livornese.
Fatto sta: senza quei 4, i voti scendono da 20 a 16 (compreso il sindaco) in un consiglio che è fatto di 33. Il voto di lunedì non è vincolante, ma diventa un crash-test per Nogarin per capire se dietro di lui c’è una maggioranza politica o solo le tabelle del suo assessore al Bilancio.
Il soccorso di Grillo: “Piena fiducia in Nogarin”
Un passaggio stretto stretto, nella seconda città più grande amministrata dal M5s, che cade a 6 mesi dalle elezioni comunali di Roma, Milano, Napoli, Bologna, Torino.
Sarà anche per questo che Beppe Grillo ha subito issato la bandiera per sostenere il sindaco sempre fedele: “Il Movimento 5 Stelle dà piena fiducia alla giunta Nogarin e sposa la scelta intrapresa: per governare serve responsabilità e coraggio. In alto i cuori”. “E’ una scelta — prosegue in una nota sul blog — che solo il Movimento 5 Stelle poteva prendere, perchè non abbiamo le mani legate, non dobbiamo servire poteri forti, non abbiamo ‘debiti elettorali’ da saldare”.
Il Pd, aggiunge, “non ha riscosso le tariffe per il servizio, strizzando l’occhio agli evasori e danneggiando tutti i cittadini onesti” e ha “fatto di questa azienda il proprio manipolo“, mentre la giunta Nogarin lavora per riconsegnare alla città “una società efficiente e sana: sempre e solo per il bene di tutta la collettività , perchè questo significa essere del Movimento 5 Stelle: avere come bussola il bene comune e non difendere mai soltanto una parte”.
L’epicentro: Aaamps, 26 milioni di euro di rosso. “Colpa del Pd”
Il centro di tutto si chiama Aamps, acronimo di “groviglio di casini”.
Su quell’azienda è aperta anche un’inchiesta penale e si è soffermata perfino un’ispezione del ministero dell’Economia.
E’ l’impresa che raccoglie i rifiuti, di proprietà al cento per cento del Comune, circa 250 dipendenti tra impiegati, tecnici, operai, quadri. Poi ci sono un’altra quarantina di precari e altri 200 dipendenti dell’indotto. Aaamps ha chiuso il bilancio 2014 con 21 milioni di euro di rosso: in gran parte incassi della tariffa sui rifiuti mai riscossi durante gli anni di management nominato da giunte di centrosinistra. In gran parte crediti inesigibili che il Comune ora ha messo a bilancio, spalmandole sulle bollette Tia di tutti, abbattendo così il rosso a 11 milioni.
Ma ora il Comune, dice il sindaco, non ha soldi per ripianare i conti di un’azienda così male in arnese.
Così ha deciso di portare la società in concordato preventivo: porta i libri in tribunale. Ecco il perchè di tutto l’ambaradan. I dipendenti si sentono fregati due volte, perchè sostengono che fino all’ultimo Nogarin avesse parlato di ricapitalizzazione dell’impresa. Cosa impossibile, allarga le braccia ora lui, significherebbe tagliare per 7 milioni e mezzo il bilancio: “Abbiamo provato tutte le simulazioni, ma non c’è scelta”.
Chi contesta, non cede: “Noi continuiamo l’agitazione fino a lunedì. Siccome abbiamo visto che abbiamo un sindaco che è molto flessibile nelle decisioni — ironizza il segretario della Cgil Maurizio Strazzullo — che sia flessibile anche in questa decisione e torni indietro”.
La gestione M5s: 4 cambi di dirigenza in un anno
Il primo capo d’imputazione all’amministrazione Nogarin è proprio la gestione M5s dell’azienda.
In un anno è cambiata tre-quattro volte la dirigenza. Il primo amministratore unico era un fedelissimo dei Cinque Stelle che veniva da Massa, trombato un paio di volte alle Comunali e alle Europee: Nogarin lo presentò come una specie di Steve Jobs (disse proprio così).
La cronaca racconta che è finita malissimo, con il fedelissimo sospeso dall’incarico e di fatto emarginato, poi reintegrato per paura di una causa, messo in sicurezza.
Il motivo della crisi di questi giorni, secondo l’ex sindaco Alessandro Cosimi (Pd, ora senza cariche), è una scelta quasi incomprensibile del timone grillino: hanno voluto, spiega, “sciogliere tutti i nodi in un solo bilancio, come se una banca decidesse di mettere tutte le sofferenze nel bilancio di un solo anno”.
Quello che invece è certo è che nell’agosto scorso il sindaco Nogarin esultava, come si può vedere in giro su google: abbiamo salvato la società dei rifiuti, evitato il crac. Tre mesi dopo quelle frasi fanno un brutto rumore.
Protezione civile allertata: “Chiudete bene i sacchetti”
Così, mentre Cinque Stelle e Pd da mesi si lanciano addosso i sacchi pieni di immondizia per decidere di chi è la colpa di questo troiaio, il sindaco deve allertare la Protezione civile e si ritrova a doversi raccomandare: se trovate i cassonetti pieni, andate a gettare la spazzatura in uno vuoto un po’ più in là , e i sacchetti, vi prego, ben chiusi.
I livornesi alzano gli occhi al cielo e fanno un respirone, ma con il naso chiuso da pollice e indice: si erano illusi di rovesciare tutto con un solo voto, come se quell’urna del ballottaggio fosse un vaso di Pandora alla rovescia, un po’ come fanno con un dè quando hanno voglia di chiudere un discorso.
Ma la realtà delle cose è molto più complicata, non esiste la bacchetta magica e in questo momento nessuno lo sa meglio del sindaco alieno, il Noga, o Gagari’, con la enne troncata affettuosamente, a ricordare non l’astronauta, ma il tortaio, quello che vende il cinque e cinque nel negozio, poveretto, a pochi metri da dove ora si innalzano i mucchi maleodoranti.
La maledizione delle partecipate
Il mondo appare ribaltato. Da una parte ci sono Grillo che parla di decisione presa “responsabilmente” e “scelta difficile ma necessaria” e il suo sindaco che sfida la selva di fischi e le grida belluine dei contestatori che lo interrompono più volte, scandendo sottovoce: “E’ inutile che facciate il tifo da stadio, non è cambiato niente”.
Questa volta quelli che si fanno venire le vene ingrossate al collo e il viso rosso e la voce fioca sono dall’altra parte del bancone. “E ‘un siamo al Seve’.
E ‘un sei il cassiere del Seve’ qui, qui devi gesti’ una città ” urlano all’assessore al Bilancio, Gianni Lemmetti, laddove il Seven è una discoteca in Versilia di cui Lemmetti anni fa faceva, appunto il cassiere, cioè il responsabile amministrativo.
Ecco il secondo capo d’imputazione, legittimo o no, fondato o no: la mancanza di un passato politico, una competenza nell’amministrazione pubblica.
Di certo c’è che quella delle nomine per le partecipate è stato un sentiero di croci, con affidamenti di incarichi, nomine, cambi in corsa, dimissioni, scazzi, incompatibilità , disponibilità , sostituzioni e ritiri in tutte le aziende in cui la nuova amministrazione aveva promesso un cambio di passo: farmacie, autobus, teatro, società per la “reindustrializzazione”, case popolari.
Non c’è stata pace per nessuna delle società comunali. Il direttore generale del Comune, nominato un anno fa, è indigesto a una parte del meetup.
E il caos oscura l’arrivo dell’Esselunga
Sia come sia, ovunque siano le responsabilità (se nel passato remoto o nel passato prossimo), la classe dirigente di questa parte costiera della Toscana dovrebbe comunque conoscere il pericolo della risacca: quella rabbia con la quale era stato abbattuto il “regime del Pd” nel 2014 non è finita nel nulla.
Ora rischia di tornare indietro e trascinare via quel che resta. Peccato, perchè proprio oggi, per volontà dell’M5s, l’Esselunga, l’anti-Coop, è finalmente in città .
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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