Settembre 27th, 2016 Riccardo Fucile
BOSCHI E PARLAMENTARI IN MISSIONE IN SUDAMERICA
La carta segreta, quella che potrebbe fare la differenza, sono i compatrioti che votano oltre confine: circa
tremilioni-novecentomila persone, meno informate perchè meno sintonizzate, senza canali tivvù o giornali italiani.
Una prateria da arare, come si usa dire in politica, e che per questo il governo muovendosi per tempo molto in sordina ha già cominciato a seminare.
Perchè i nostri connazionali voteranno venti giorni prima del 4 dicembre – per posta – e bisogna muoversi subito: anche per questo la Boschi da ieri è in Sud-America, mission ad hoc, un ciclo di interventi sulle riforme istituzionali in vari consessi e con un tourbillon di incontri, cene e conferenze a stretto contatto con imprenditori, grandi elettori e personalità influenti in quei paesi.
Ma non è la sola, tutti i parlamentari Pd eletti all’estero sono mobilitati: il capo del Comitato per il Sì, Roberto Cociancich, è già pienamente compreso nel suo ruolo di ambasciatore: dopo esser stato in Svizzera, al Cern di Ginevra e a Berna, sta partendo per un tour in Canada e negli Stati Uniti.
Un altro che non si risparmia è Sandro Gozi, che organizza eventi e ha una sua e-news. Insomma la macchina è a pieni giri, il Comitato ha inaugurato la sede nella piazza dell’Ulivo a Roma, Santi Apostoli, dove orbita pure la task force di giovani fuoriclasse del web, deputati a rendere virali i messaggi che possono «bucare» la rete. Nulla sarà intentato: i comitati spontanei per il “porta a porta” sono lievitati a 4 mila, pure i manifesti per strada saranno usati – i 500 mila euro di finanziamento dovuto alla raccolta di firme e i 120 mila raccolti finora on line lo permettono.
Il primo è già pronto, non ha simboli Pd e suona così: «Cara Italia vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì».
E la novità è che come testimonial il premier proverà a coinvolgere i sindaci d’Italia, quelli che lo vorranno ovvio, i cittadini a contatto più diretto con gli italiani.
«Il clima è migliorato, i sì crescono man mano che la gente viene a sapere su che cosa si vota», diceva una settimana fa Matteo Renzi ai suoi ministri, convinto anche a dispetto di vari sondaggi, che il trend fotografi questa progressione.
E basterebbe ciò a spiegare la scelta dell’ultima data utile in calendario per un voto su cui il governo non può permettersi di fallire. Impossibile fallire dunque.
Concetto che senza perifrasi, come nel suo stile, il premier ieri ha rilanciato sul tavolo ovale al secondo piano di Palazzo Chigi. Spronando i titolari dei dicasteri del suo partito e di quello di Alfano a mettersi tutti in gioco, «perchè d’ora in avanti pancia a terra, girate l’Italia a spiegare i contenuti della riforma, che qui ci giochiamo tutto». Del resto lo dice perfino il Financial Times che se vincerà il Sì Renzi ne uscirà rafforzato, il suo governo ne ricaverà la spinta per arrivare al 2018 e per vincere le elezioni successive.
Ma in caso contrario, problemi seri. E dunque se si tratta di mettersi in gioco, «io sarò il primo a farlo, cerchiamo di fare una campagna sul merito, ma senza personalizzare», è l’invito ai ministri prima di congedarli da un Cdm durato quindici minuti in tutto.
Evocando la massima cautela, perchè nella war room si è capito che la polemica sul quesito la dice lunga su come le opposizioni staranno con le armi spianate.
Ormai la campagna ufficialmente è partita e l’inquilino di Palazzo Chigi già ieri sera in prima serata è andato da Del Debbio a Quinta Colonna.
E il perchè di questa scelta, un talk show popolare su un canale come Rete Quattro con un pubblico certo non schierato a sinistra, è semplice: per vincere bisogna convincere il target più moderato.
Questa la parola d’ordine che dall’alto in basso viene fatta circolare a tutti i livelli. Perchè saranno gli elettori moderati, la cosiddetta maggioranza silenziosa mediamente poco informata, a fare la differenza.
Il target che ancora sa poco o nulla del merito su cui sarà chiamato a votare. E che Renzi spera di conquistare, con un tour forsennato – solo questa settimana Milano, Verona, Perugia, Genova e Torino – provando a spersonalizzare anche se l’incipit la dice lunga: comincerà il 29 settembre a Firenze all’Obihall lì dove otto anni fa lanciò la sua candidatura a sindaco…
Carlo Bertini
(da “La Stampa”)
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Settembre 27th, 2016 Riccardo Fucile
LE INTERCETTAZIONI IN CARCERE A PARMA DEL “ER CECATO”, CAPO DI MAFIA CAPITALE
Con la mano sinistra mima il gesto di colpire, e dice: «Tranquilli, tanto qui la “cosa” andrà a finire con una cantonata».
La “cosa”, come la chiama Massimo Carminati, nella malavita conosciuto come “er Cecato” o “er Pirata”, è il processo a “mafia Capitale”. In cui Carminati è accusato di essere il capo della nuova organizzazione criminale romana che fino a pochi anni fa è andata a braccetto con politici di destra e di sinistra.
In carcere l’ex terrorista dei Nar si comporta da padrone, pur usando modi felpati come i grandi capimafia sanno fare.
E lo stato di detenzione non influisce sul suo potere anche all’esterno. Parla di politica e dei politici, di come si “aggiusterà ” il suo processo. Dei costruttori romani. E si confida con un boss palermitano di Cosa nostra vicino al latitante Matteo Messina Denaro.
Misteri dell’organizzazione carceraria che mette insieme due elementi pericolosi di mafie contigue.
Questa pubblicata da l’Espresso è la storia di “mafia Capitale” dopo mafia Capitale. Ovvero, dopo gli arresti che fecero tanto clamore.
Ed è il racconto di come “er Cecato” ancora riesca a impartire ordini e si comporti esattamente come quando a Roma era lui la legge.
Le intercettazioni svelano i piani politici e giudiziari di Carminati. “Er Cecato” è tanto sicuro che riuscirà a togliersi dai guai da mostrarsi sereno e pacato.
Guardarlo attraverso i monitor che proiettano la sua immagine nella grande aula bunker di Rebibbia durante le udienze è come rivedere le sembianze e i movimenti di importanti capimafia di Cosa nostra: Pippo Calò o Michele Greco. Sarà una coincidenza o forse una volontaria imitazione.
Sta di fatto che con questa calma apparente Carminati ha seguito dalla sua cella anche la campagna elettorale che ha portato ad eleggere il nuovo sindaco di Roma Virginia Raggi e i consiglieri comunali.
La televisione gli ha mostrato le azioni e le dichiarazioni dei candidati, i loro programmi elettorali, ma anche gli scontri e le accuse politiche che si sono scambiati. E non ha fatto una piega quando qualcuno di loro ha parlato di “mafia Capitale”. Anzi, è apparso perfino deluso che non siano stati fatti affondi precisi, da parte dei politici, su questa realtà criminale infiltrata nella pubblica amministrazione.
«La “cosa” scema, perchè ormai i commenti so’ finiti…», dice “er Cecato” ad uno dei familiari che lo va a trovare in carcere.
La conversazione è regolarmente intercettata e depositata agli atti del processo. Carminati ascolta i commenti dei politici su “mafia Capitale” e non riesce a darsi pace fino a quando sbotta: «La vera cupola a Roma sono i costruttori».
La bomba “er Cecato” la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio.
Il modo con il quale «è stato cacciato il sindaco» viene rimarcato nei discorsi fatti in carcere da Massimo Carminati, che però non usa per l’ex primo cittadino Ignazio Marino parole di elogio.
Si comprende che non stima questo medico prestato alla politica. I retroscena li apprende dalla lettura di due quotidiani che acquista ogni giorno.
Sono due giornali che hanno solo la cronaca nazionale, perchè quella locale è vietata dal regolamento penitenziario per i detenuti al 41 bis.
«Appena esco (dal carcere, ndr) voglio scrivere un libro su tutta questa storia», dice Carminati parlando con i familiari, e aggiunge: «Voglio raccontare i veri re di Roma», perchè «i giornali hanno creato il mostro».
È felice se lo si definisce terrorista nero, neo fascista, e quindi essere accusato di banda armata, ma non sopporta l’accusa di associazione mafiosa
Dalla sua cella osserva Roma, la studia, e vuole tornare a “governarla” presto.
Si intuisce quando Massimo Carminati parla con uno dei familiari e critica l’azione dei magistrati: «All’inizio avevano preso una direzione, e invece adesso la “cosa” gli sta anda’ più da un’altra parte. Mo stanno impicciati».
Per questo motivo ipotizza che potrebbe essere assolto, «e una volta libero vado avanti per st’autostrada». L’autostrada alla quale si riferisce non è certo quella della riabilitazione.
Le intercettazioni in carcere riescono a catturare ciò che il capo di “mafia Capitale” vorrebbe tentare di nascondere agli inquirenti.
Capita spesso a Carminati durante lo svolgimento dell’inchiesta giudiziaria di volere sfuggire alle microspie. Quando però pensa di esserne al riparo ecco che invece le sue conversazioni sono sotto tiro e catturate dagli investigatori.
E così che vengono registrate le sue migliori affermazioni che hanno aiutato gli inquirenti, e quindi l’accusa.
Affermazioni che ci riportano alla realtà criminale romana e a misurare l’ego di questo ex neofascista che si vanta spesso delle sue azioni nella malavita romana, dei suoi trascorsi accanto alla Banda della Magliana che era collegata con i boss palermitani di Cosa nostra. Ed ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia.
La scena registrata dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria si svolge fra le mura del super carcere di Parma.
Carminati parla con uno dei suoi tre “coinquilini”, come chiama i componenti del gruppo di socialità con i quali trascorre la giornata.
Appartato in un angolo, si confida con il detenuto più importante del gruppo, si tratta di Giulio Caporrimo, è un boss di Cosa nostra a Palermo, capo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, fedelissimo dei Lo Piccolo, ma soprattutto del latitante Matteo Messina Denaro.
Indagini dei carabinieri di Palermo, che hanno portato cinque anni fa all’arresto di Caporrimo, lo indicano come il referente a Palermo del ricercato trapanese.
Uno dei pochi con il quale lo stragista avrebbe avuto contatti fino al 2011.
Adesso Caporrimo trascorre le ore di socialità con Carminati, entrambi sono al 41 bis, e “er Cecato” intuendo il peso mafioso del palermitano – e non pensando di essere intercettato – gli confessa il suo passato e il suo presente: «Quando avevo 16 anni andavo in giro armato di pistola, quando poi i miei amici sono tutti morti ammazzati, io mi sono specializzato in quello che loro (i pm della procura di Roma, ndr) dicono e mi accusano, ma non hanno capito che gli piscio in testa se voglio».
Caporrimo, come sottolineano gli investigatori nella relazione depositata agli atti del processo, non commenta quanto detto dal suo compagno di cella. Rimane in silenzio. Per dirla con una massima siciliana «la migliore parola è quella che non si dice».
Questa “dichiarazione” che Carminati consegna al boss palermitano confermerebbe il capo di imputazione formulato dalla procura di Roma in cui si legge che è accusato di «avere fatto parte di un’associazione di stampo mafioso operante su Roma e nel Lazio, che si avvale della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici».
Con il ruolo di «capo e organizzatore, che sovrintende e coordina tutte le attività dell’associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma, nonchè con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti».
Il metodo di Carminati è molto vicino a quello del latitante Messina Denaro.
Entrambi creano consenso sociale sul territorio grazie al potere economico e intimidatorio che possiedono, e grazie a questo atteggiamento ricevono copertura e favoreggiamento.
Il trapanese e il romano hanno compreso che devono portare avanti gli affari del proprio clan senza sparare. È ciò che afferma lo stesso Carminati nella confessione a Caporrimo quando rivela di aver abbandonato la pistola quando aveva 16 anni, e di aver proseguito nella malavita in modo diverso. A Trapani continua a comandare Messina Denaro e non c’è alcuna vittima di mafia. A Roma come a Trapani c’è una mafia silente,
l’unica differenza è il dialetto: quello siciliano è mediaticamente etichettato come lingua dei mafiosi, il romanesco invece, si fa fatica a collegarlo ai clan criminali. Le vittime, però, hanno paura in entrambi i territori.
La violenza e il silenzio sono i due volti della paura, i due volti del potere costruito a Roma da Massimo Carminati.
Basta scorrere gli episodi raccapriccianti di cui è accusato. C’è una ragnatela di intimidazioni che serviva a terrorizzare imprenditori e commercianti caduti nella morsa del clan di mafia Capitale.
E ora che c’è il processo è bastata la presenza di Carminati in video collegamento per mettere paura, anzi per terrorizzare i super testimoni dell’inchiesta.
L’immagine del “Cecato” è ferma nel monitor, e nell’aula bunker a Rebibbia le vittime che devono deporre iniziano a tremare, e di conseguenza a ritrattare, a non ricordare, ad accampare scuse pur di non rispondere alle domande dei pm.
Pur di non rendere testimonianza qualcuno si è sentito male ed ha vomitato per la forte tensione accumulata. Paura e nervosismo come nei processi di mafia che si svolgono in Sicilia o in Calabria.
La presidente del tribunale in una occasione, vedendo le esitazioni di un teste e il nervosismo che lo avvolgeva, ha dovuto disporre che lo schermo su cui apparivano in video collegamento dal carcere Carminati e gli altri coimputati venisse girato contro la parete.
Un modo per evitare che il teste incontrasse lo sguardo degli imputati e ne fosse intimorito. E di questa potenza intimidatoria “er Cecato” ne è consapevole.
Come è consapevole del fatto che in giro a Roma c’è ancora tanta gente che gli è “fedele”. Per questo motivo Carminati si raccomanda ai familiari che lo vanno a trovare in carcere di «non accettare favori o regali da nessuno».
Tenta di dare un’immagine diversa del suo “peso” reale a Roma.
Come Totò Riina spiegava a suo figlio in carcere che lui stava benissimo nonostante tutti questi anni di detenzione, che era forte e non lo avrebbe piegato nessuno, anche Carminati tenta di fare lo stesso con i suoi familiari.
Vuole dimostrare quanto il suo carattere è forte nonostante il 41 bis: «Qui se non sei attrezzato, una persona normale dura venti minuti. Poi prende lo straccio e il secchio, si mette lì, e si asciuga le lacrime».
Carminati spiega che lui è forte: «Ho una concezione di me stesso talmente alta che più vanno avanti e mi trattano così, più alta diventa».
Un’alta concezione di se stesso che non gli fa perdere l’obiettivo che si è fissato. E non gli fanno perdere la testa nemmeno le centinaia di lettere che riceve mensilmente in carcere dai suoi fans.
Perchè uno come Carminati ha pure gli ammiratori. Ma lui si fa consegnare solo le missive di cui conosce il mittente, le altre le rifiuta.
In testa ha un solo un obiettivo: tornare libero.
Lirio Abbate
(da “L’Espresso”)
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Settembre 27th, 2016 Riccardo Fucile
IN CARCERE 12 BOSS. DUE PROPRIETARI TERRIERI E DUE OPERAI FORESTALI
Cade un’altra roccaforte dell’omertà mafiosa. 
A Corleone, paese simbolo di una lunga stagione di sangue e complicità , otto imprenditori ammettono di aver pagato il pizzo.
Una scelta senza precedenti nella terra in cui hanno continuato a comandare gli eredi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, il primo è al carcere duro dal 1993, l’altro è morto in cella il 13 luglio scorso.
Le parole di chi non vuole più sottostare alla legge del racket hanno fatto scattare un blitz: all’alba, i carabinieri del comando provinciale di Palermo hanno arrestato 12 persone, sono i nuovi boss di Corleone, questo dicono le indagini dei sostituti procuratori Sergio Demontis, Caterina Malagoli, Gaspare Spedale e dell’aggiunto Leo Agueci.
Il nome più autorevole fra gli arrestati è quello di Carmelo Gariffo, il nipote prediletto di Provenzano. Al funerale dello zio capomafia, era in prima fila davanti all’urna con le ceneri del vecchio padrino. Un’immagine simbolo.
Gariffo conosce i segreti della vecchia mafia corleonese. Perchè è stato più di un nipote prediletto, è stato a lungo il segretario di Bernardo Provenzano, è stato l’ultimo amministratore della rete dei pizzini distesa in lungo e in largo per la Sicilia. Lui era il codice “123”, Matteo Messina Denaro, ancora oggi latitante, era “Alessio”.
LE INTERCETTAZION
Gariffo era tornato in libertà da tre anni, i carabinieri del Gruppo di Monreale e della Compagnia di Corleone lo hanno intercettato mentre parlava di appalti ed estorsioni con il nuovo reggente del clan, Antonino Di Marco, un insospettabile dipendente comunale che organizzava i summit nel suo ufficio allo stadio di Corleone.
“Basta uno, non c’è bisogno di cento”, diceva Gariffo, parlando della riorganizzazione della cosca. E ancora: “Uno perchè non mi posso muovere, due perchè prima devo trovare una persona adatta eventualmente a comandare… però ciò non vuol dire che noialtri le cose non le dobbiamo fare e dobbiamo cercare di vedere come risolvere la situazione. Non facciamo cose affrettate”.
I carabinieri hanno intercettato tutti i dialoghi, poi hanno convocato gli imprenditori ricattati, che hanno ammesso di aver pagato.
LO SCIOGLIMENTO PER MAFI
Gariffo pretendeva un posto in un cantiere comunale, il sindaco Lea Savona si era rivolta ai carabinieri.
Ma non è bastato per evitare lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose, a metà agosto.
Secondo il consiglio dei ministri i nuovi boss del paese controllavano già senza problemi alcuni gangli vitali della vita amministrativa cittadina. Dalla gestione dei rifiuti alla mensa scolastica, ai tributi soprattutto: la nuova società incaricata (neanche a dirlo, controllata dal parente di un boss) aveva fatto scendere la riscossione di oltre quaranta punti percentuali, dal 73 al 25 per cento.
I boss e i loro familiari, ma anche alcuni politici locali, non pagavano tasse. Corleone zona franca.
Dice il colonnello Giuseppe De Riggi, il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo: “L’organizzazione mafiosa aveva alzato barriere che sembravano impenetrabili, puntava a controllare un intero territorio in modo esclusivo. Ma le indagini e le risposte positive arrivate dagli imprenditori hanno superato tutte le barriere, anche grazie ai giovani di Addiopizzo, che ci hanno accompagnato in questo percorso in provincia”.
GLI ARRESTAT
Gariffo poteva contare su un gruppo di fedelissimi: l’allevatore Bernardo Saporito gli faceva da autista; l’operaio forestale stagionale Vincenzo Coscino, da gregario.
Il giudice delle indagini preliminari Fabrizio Anfuso ha firmato un’ordinanza di custodia cautelare anche per un altro forestale a contratto, Vito Biagio Filippello. Fra gli arrestati, il capo cantoniere Francesco Scianni, il figlio del capomafia Rosario Lo Bue, Leoluca, e Pietro Vaccaro, gli ultimi due sono allevatori; in cella pure gli omonimi Francesco Geraci, nipote e figlio di un capomafia deceduto, sono imprenditori agricoli.
Hanno ricevuto un’ordinanza in carcere per le estorsioni Antonino Di Marco, Vincenzo Pellitteri e Pietro Masaracchia, boss già arrestati qualche mese fa; Masaracchia era stato intercettato mentre parlava di un progetto di attentato contro il ministro dell’Interno Angelino Alfano.
Libertà vigilata, invece, per due proprietari terrieri: Gaspare e Pietro Gebbia, padre e figlio, si erano rivolti al clan per uccidere un parente, che ritenevano di troppo nella divisione di un’eredità .
(da “La Repubblica”)
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Settembre 27th, 2016 Riccardo Fucile
IL TYCOON INCALZATO SU TASSE E TRASPARENZA PERDE NETTAMENTE IL PRIMO CONFRONTO TV
Cento minuti senza esclusioni di colpi.
Il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump rispetta tutte le aspettative della vigilia, con l’ex segretario di Stato che sfodera dal primo all’ultimo minuto una sicurezza da statista esperta, e il tycoon che gioca la carta dell’outsider, provando a presentare la sfidante come in perfetta continuità con l’amministrazione Obama.
Inizio difficile per Trump, che viene incalzato ripetutamente su economia, lavoro e tasse. Hillary prova subito a marcare la differenza con l’avversario, ricordando come da giovane sia cresciuta in una famiglia del ceto medio e sottolineando invece come Trump abbia vissuto una vita molto più agiata: “Donald è molto fortunato nella vita…ha preso in prestito 14 milioni da suo padre e crede seriamente che più si aiuta la gente ricca e meglio si sta”.
L’ex first lady insiste sul tema del fisco se sulla dichiarazione dei redditi che l’imprenditore non ha voluto presentare. “C’è qualcosa che Donald Trump sta nascondendo”, dice. “Forse non è poi così ricco come dice di essere forse non fa donazioni…deve 600 milioni di dollari a banche straniere o forse non vuole che gli americani sappiano che non paga le tasse”, rincara la candidata democratica.
“Renderò nota la mia dichiarazione delle tasse quando Hillary Clinton pubblicherà le sue email”, replica lui. Poco dopo, la Clinton fa pubblicamente ammenda per il cosiddetto emailgate: “Ho commesso un errore”.
Il candidato repubblicano arranca e rientra in carreggiata solo quando il dibattito verte su sicurezza e politica estera, attaccando in particolare ripetutamente la Clinton per alcune scelte incoraggiate da segretario di Stato, come la riapertura dei rapporti con l’Iran.
Clinton non risparmia critiche per il presunto passato razzista dell’avversario. Donald Trump – dice – “ha una lunga storia di comportamenti razzisti”.
“Donald – aggiunge – ha iniziato la sua carriera nel 1973 con una causa avviata contro di lui dal Dipartimento di stato per discriminazione razziale”.
Si scaldano gli animi sul finale, quando Trump accusa la sfidante di non avere forza e resistenza fisica per fare il presidente.
“Prima di parlare Donald deve dimostrare di poter visitare 112 paesi come ho fatto io da segretario di Stato”, replica lei che a sua volta accusa Trump di avere ripetutamente insultato le donne.
Dell’intero dibattito – conclusosi con una stretta di mano quasi cordiale – resta impressa una delle battute più riuscite pronunciate da Hillary Clinton, rispondendo a Trump che la criticava per essersi preparata le risposte. “Donald mi critica per essermi preparata per il dibattito. Volere sapere per cosa altro sono preparata? Sono preparata per essere presidente”.
Alla fine dei conti, chi esce vincente dal confronto?
Il giudizio finale del pubblico sembra essere abbastanza netto. Secondo un sondaggio della Cnn, Hillary Clinton vince con il 62% delle preferenze degli intervistati, a fronte del 27% di Donald Trump.
(da agenzie)
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Settembre 27th, 2016 Riccardo Fucile
CLINTON RIESCE A FAR APPARIRE TRUMP COME UN RICCO CORROTTO… DONALD IMPREPARATO
Preparatissima, cattivissima e antipaticissima, Hillary. Impreparatissimo, mentalmente disorganizzato e a
tratti agitato, Donald.
Il primo round del faccia a faccia fra i candidati presidenziali va a una Hillary che affonda l’avversario con argomenti diremmo “di sinistra”, descrivendolo cioè come un privilegiato, un figlio di papà , un ricco e anche un disonesto.
Il tipo di persona insomma contro cui il partito democratico intende battersi, dice la candidata, applicando quella che in Italia chiameremmo una sostanziosa “patrimoniale”, con aumento delle tasse e fine di ogni sconto fiscale.
Look presidenziale in anticipo – abito in rosso secondo il codice preferito delle matrone di Washington, capelli sempre più simili al caschetto di Margaret Thatcher – in grande forma fisica, alla faccia di chi la voleva semimorta, e senza una smagliatura di nervi, Clinton ha fatto al meglio quello che quello che al meglio sa fare: ha esibito la sua mostruosa preparazione e la sua altrettanto mostruosa aggressività : al povero Donald non ha risparmiato nulla.
Donald invece, a sorpresa, non è riuscito viceversa a far passare la Clinton per un membro dell’elite, distaccata dalla vita reale del popolo americano, soprattutto bianco. Afflitto da un problema di sinusite scontento, arruffato nei suoi argomenti, Trump è apparso anche privo di quella verve, energia e quel fascino da simpatico mascalzone che lo hanno lanciato in questa strepitosa campagna elettorale.
Persino le sue accuse all’avversaria – aver aiutato l’Isis, non stroncandolo all’inizio, aver fatto perdere posti di lavoro all’economia americana, aver incasinato il mondo, il medioriente, e avere un pessimo carattere e scarsa energia – sono state poste in maniera così strampalata da non aver nemmeno spettinato un capello del rigido caschetto biondo della candidata democratica.
Eppure la partita non era del tutto scontata.
Il confronto stavolta è stato organizzato senza rigidità dei tempi, a favore di una fluidità di replica fra i due regolata ma non interrotta dalla forzata liturgia degli orologi.
Un formato che favoriva la spontaneità , e in cui Trump poteva essere molto a suo agio.
Ma sui tre round in cui è stato grosso modo scandito il confronto, proprio lui è apparso in difficoltà fin dal primo scontro, quello sulla crisi economica, che pure avrebbe dovuto offrirgli l’argomento più forte del suo carnet.
Ci ha sicuramente provato – il suo tema principale è infatti il lavoro che sta sparendo dagli Stati Uniti insieme alle aziende che stanno trasferendo le proprie fabbriche in paesi altri, come il Messico.
“Migliaia di posti di lavoro che vanno via e che non torneranno più”, accusa Trump, per colpa dei democratici che hanno fatto disastrosi accordi commerciali, e scandisce il lungo elenco dei grandi stati industriali, il Michigan, la Pennysilvania, l’Ohio, il New England.
Sono gli stati della classe operaia e media, bianca, spesso cattolica, la spina dorsale del voto democratico da tempo afflitta da sfiducia nei propri leader e oggi come mai, nella sua componente più forte, i maschi bianchi, attratta da Trump, che ne promette la difesa, e avversa ad Hillary.
E’ il punto di forza della campagna del repubblicano – tagli delle tasse, rilancio del nazionalismo economico, muri commerciali invece che aperture commerciali, scontro con la Cina che manipola il mercato Americano.
E Hillary in questa prima parte appare all’inizio vulnerabile. Come di questi tempi fanno i democratici in tutto l’Occidente parla di nuove tecnologie, web, innovazione, energia rinnovabile. Trump ha facile gioco a dire che sono fumisterie – e nelle sue parole si sentono gli umori di tutti i pub d’America a sera, densi di scontento e birra, nelle ore prima di andare a casa. “Disaster, disaster” è la parola d’ordine di Donald.
Ma Hillary capisce e gira bene il suo discorso. Lascia il lavoro e parla di lui, o meglio parla della rendita di gente come lui.
Ricorda che lui è un privilegiato “che ha iniziato la sua carriera con i soldi di papà “, lo descrive come uno che non ha mai davvero provato com’è il mondo reale a differenza di lei che viene da un padre che lavorava davvero.
Parla di uno che è contro le tasse perchè non le paga. E a questo punto il gioco si fa davvero duro: con abilita e scientifica crudeltà Hillary spiega tutte le ragioni per cui non paga “forse perchè non sei cosi ricco? Forse perchè non puoi dichiarare tutti I tuoi affari? Forse solo perchè non le hai mai pagate?”.
Donald cerca di buttare nella mischia le 30mila email. Hillary sorride, non raccoglie e continua a sparare su Donald: racconta che ha conosciuto tanti dei suoi dipendenti che lui ha “fregato”, gente rovinata, gente che non è stata pagata tra cui, svela Hillary, un architetto che ha costruito una Clubhouse per lui e che è in quel momento presente nel pubblico.
Donald si agita, ma la replica è debole “non è vero, mi amano tutti, mi amano tutti”. Far pagare ai ricchi viene a questo punto a Hillary come una naturale conseguenza, una patrimoniale dal sapore sandersiano al grido di ” Donald, il trickle down non funziona”, con abile richiamo alla famosa ricetta del primo Reagan, e il cerchio si salda.
La Clinton si reinsedia dalla parte della giustizia sociale e Trump dalla parte dei cattivi.
Perso questo primo round, il resto è solo una caduta libera per il repubblicano.
La Nato, l’Isis , la frizione sulla Russia, nulla gli riesce più bene.
Mentre Hillary non gli risparmia più nulla: razzismo , disprezzo delle donne, processi avuti in passato, e persino sfottò sui libri non letti.
Il tutto chiamandolo sempre Donald, in terza persona, come si fa con i camerieri quando se ne parla ad altri. Molto molto poco simpatico. Ma molto molto Hillary.
Alla fine della serata le famiglie dei due candidati salgono sul palco.
Ma I Trump salutano e vanno via subito. Rimangono invece I due Clinton, a lavorarsi la platea fino all’ultimo.
Come si deve per un ex Presidente e un futuro Presidente.
(da “Huffingtonpost”)
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