Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
DUE SONDAGGI CHOC PER IL PD: SE RENZI FA UN SUO PARTITO PRENDE IL 21% E IL PD CROLLA ALL’11%… SE RESTANO INSIEME PD AL 30%
“Se si vota prima del referendum, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell’esame della Consulta è tutto come previsto”.
E’ quasi ora di pranzo, al Senato il premier Paolo Gentiloni sta per prendere la parola per chiedere la fiducia dell’aula, in Transatlantico il ministro Giuliano Poletti traccia la sua previsione: elezioni in primavera per evitare il voto sul referendum sul Jobs Act sul quale la Consulta si esprimerà l’11 gennaio.
Nei capannelli di Palazzo Madama, tra cronisti e politici, si parla solo di questo.
“Poletti? Un matto”, ti dicono dal Pd esterrefatti per lo scivolone del ministro. Ma come nelle tragedie di Shakespeare, il ‘matto’, il fool dice sempre la verità .
E infatti quello di Poletti è proprio il piano di Matteo Renzi.
Elezioni ad aprile, referendum sul Jobs Act rimandato al 2018, sempre che la Consulta ammetta i tre quesiti (reintroduzione dell’articolo 18, eliminazione dei voucher, responsabilità e controllo sugli appalti).
Ma soprattutto: congresso del Pd a scadenza naturale: novembre 2017, dopo le elezioni. Prima del voto, presumibilmente a marzo, si terrebbero solo delle primarie di coalizione per la premiership.
Sì perchè nel suo ‘ritiro’ a Pontassieve ma in costante contatto con i fedelissimi a Roma, Renzi sta ragionando in termini di coalizione, guardando alla sinistra di Giuliano Pisapia, pensando al Dem Gianni Cuperlo, insomma la ‘sinistra del sì’ al referendum costituzionale.
“Il lavoro di costruzione di una coalizione di centrosinistra andrebbe di pari passo con il lavoro sulla legge elettorale”, dice all’Huffington un parlamentare di stretta osservanza renziana, ipotizzando “un proporzionale oppure un sistema con i collegi, tipo il Mattarellum”.
Insomma, è questo lo schema che sta inducendo Renzi alla ‘grande frenata’.
Domenica all’assemblea del Pd all’Hotel Parco dei Principi di Roma, il segretario Dem non lancerà alcun congresso anticipato del partito, a meno di decisioni dell’ultim’ora visto che dalla sconfitta del 4 dicembre in poi Renzi naviga abbastanza a vista.
Intanto, l’ordine del giorno dell’assemblea si mantiene vago: “Analisi della situazione politica e determinazioni conseguenti”.
E il resto del Pd?
Sul Jobs Act i bersaniani hanno idee diverse. “Ma quale voto, cambiamo la legge: è necessario intervenire subito a partire dai voucher”, dice Roberto Speranza.
Ma il neonato governo Gentiloni non ha alcuna intenzione di usare lo stesso schema che è stato usato per il referendum ‘No triv’. Cioè intervenire sulla normativa per evitare il referendum.
In quel caso, il governo riuscì a ridurre i quesiti da sei a uno solo, vincendo poi il referendum del 17 aprile anche grazie a dosi massicce di inviti all’astensione, compito al quale si sono applicati sia Renzi che Napolitano.
Ma sul Jobs Act questa via è preclusa. Ma intervenire significherebbe eliminare i voucher e soprattutto ripristinare il diritto alla reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa: ipotesi impossibile per il governo, per l’Europa.
Il Jobs Act è infatti il cuore delle riforme chieste dal dictat dell’austerity, ora è in crisi ma con strascichi che nessuno al governo vuole cancellare.
Dunque, elezioni ad aprile per evitare il referendum. “C’è modo e modo di arrivarci”, sussurrano nervose fonti di maggioranza del Pd, criticando Poletti.
Da parte sua, il ministro diffonde una nota di precisazione: “Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse ad elezioni politiche anticipate, la legge prevede un rinvio dei referendum. E’ un’ipotesi che io non ho ‘invocato’ e non dipende certo dalla mia volontà che questo possa accadere. Ogni interpretazione strumentale è, quindi, totalmente fuori luogo”.
Ma quel che è fatto, è fatto.
I renziani ritrovano almeno un’ombra del sorriso che hanno perso il 4 dicembre. Nel resto della maggioranza Dem ingoiano amaro, dai Giovani Turchi ai franceschiniani di Areadem.
Quello di Poletti è uno scivolone tutto suo, giurano fonti di governo. Insomma, dietro non c’è Renzi.
Però di fatto il ministro del Lavoro trascina in porto l’unica scialuppa di salvataggio per Renzi, leader ammaccato dalla sconfitta al referendum, travolto dalle critiche per essersi dimesso da premier restando però a Palazzo Chigi attraverso il governo Gentiloni con giglio magico incluso.
Ma ora, ragionano i suoi a Roma, visto che la minoranza chiede le dimissioni del segretario per poter anticipare il congresso, il segretario decide di non anticipare il congresso.
Si punta invece al voto ad aprile perchè la ‘bomba’ Jobs Act è temuta da tutti in maggioranza e al governo, non solo da Renzi. Dunque non hanno scelta che rimanere con lui.
Dopo la debacle del 4 dicembre, infatti, nel Pd danno per certo un altro sganassone elettorale se tra il 15 aprile e il 15 giugno (i tempi della Costituzione) si andasse al referendum sul Jobs Act.
E allora meglio evitare di far esprimere la volontà popolare sulla riforma del lavoro.
Il referendum verrebbe così posticipato al 2018: “Se alle elezioni vince il M5s, se ne occuperanno loro. Se vince il Pd, intanto avremo vinto…”, dice una fonte renziana.
I non renziani del Pd sono avvertiti. Renzi li tiene ormai quasi in ostaggio.
Lo aiuta un sondaggio di ‘Porta a porta’: un eventuale ‘partito di Renzi’ prenderebbe circa il doppio di un ‘Pd senza Renzi’.
Sia per Ipr che per Tecnè il Pd attualmente è al 30%.
Un ‘partito di Renzi’ avrebbe il 21% per Ipr e il 19% per Tecnè, mentre il “Pd senza Renzi” si fermerebbe all’11% per Ipr e al 14% per Tecnè.
“Ipotesi non realistica”, dice il vicesegretario Lorenzo Guerini. Ma ormai nel Pd vanno avanti per minacce e avvertimenti.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
VIVENDI SALE AL 20% DI MEDIASET E SILVIO AFFINA LA STRATEGIA PER TUTELARSI… E IL GOVERNO VA IN SUO AIUTO
Lo spirito degli inizi, quello della famiglia dalla “compattezza più assoluta”, e uno scouting
preliminare per tirare dalla propria parte gli azionisti minori del gruppo in caso fosse necessario rafforzare ulteriormente la posizione di forza contro l’avanzata dei francesi di Vivendi.
Passa per queste due mosse, secondo quanto spiegano fonti vicine al dossier, la strategia che il “gabinetto permanente” di Fininvest, capofila del gruppo Mediaset, sta mettendo in campo in queste ore, in una serie di riunioni e di contatti che vedono in prima linea Silvio Berlusconi.
Al fondatore della creatura televisiva, presa d’assalto dal colosso dei media transalpino guidato da Vincent Bollorè, salito oggi al 20% dell’azionariato dell’azienda di Cologno Monzese, spettano le parole più dure, che puntellano una linea senza sconti: “operazione ostile”, nessuna intenzione “di lasciare che qualcuno provi a ridimensionare il nostro ruolo di imprenditori”.
La difesa a oltranza, che si sostanzia di un terza barriera, pronta ad attivarsi da aprile, quando le regole in materia lo permetteranno: portare la quota di Fininvest ancora più su.
Il tutto in una cornice che suona come insolita, quella protettiva del Governo e del Pd, portata avanti dall’imprinting ultraliberista del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e dal vicesegretario dei dem, Lorenzo Guerini, pronti ad “azioni per mettere in sicurezza Mediaset”, definito un patrimonio nazionale.
C’è una convinzione che circola dentro Mediaset, quella cioè che Vivendi voglia prendere il bottino pieno, cioè tentare l’assalto all’intero gruppo.
Gli intenti dichiarati dei francesi, messi neri su bianco nel comunicato stampa diramato a inizio settimana, parlano della volontà di diventare un socio industriale, ma le parole di Berlusconi, che è ritornato a rinfacciare ai transalpini l’accordo sfumato ad aprile (“Non è certo questo il miglior biglietto da visita che Vivendi possa esibire nel riproporsi come azionista industriale della società ”) mettono in luce i dubbi e i tormenti della famiglia Berlusconi sul futuro dell’azienda.
I francesi, dal canto loro, proseguono nella road map indicata, seguendo la strada adottata dentro Telecom Italia, dove sono arrivati a conquistare il 23% dell’azionariato.
Compiuto il passo di arrivare dentro Mediaset con il 20%, per il gruppo francese si aprirebbero diversi scenari.
Quello più plausibile, spiegano le stesse fonti, è che Bollorè non miri a conquistare Mediaset, ma a mettere pressing su Berlusconi per fare di Mediaset una delle colonne portanti del progetto di una Netflix paneuropea, dove il Biscione può contare molto sul versante della produzione dei contenuti.
L’altra strada, quella della scalata, è ad oggi più difficile.
Di fatto Vivendi può chiedere la convocazione di un’assemblea straordinaria e provare a mettere tra i punti all’ordine del giorno la richiesta di un ingresso nel consiglio d’amministrazione, la cui scadenza naturale è fissata per il 2018.
Di fatto, però, in assemblea servirebbe un cospicuo numero di azioni per arrivare alla maggioranza richiesta e considerando il fatto che in sede di voto la quota di Fininvest vale quasi il 40%, attualmente è difficile immaginare uno scenario in cui i francesi possano arrivare, almeno nell’immediato, a far convogliare dalla loro tutti gli altri azionisti per provare a mettere sotto il Biscione.
Escluse le quote pesanti di Fininvest (38,2%) e Vivendi (20%), l’azionariato di Mediaset è molto frastagliato e composto da azionisti con piccole quote, in mano principalmente a fondi.
Anche ammettendo che tutti gli altri azionisti fossero dalla parte di Vivendi, difficilmente la posizione di Fininvest potrebbe essere messa in minoranza.
Per non lasciare nulla al caso, in casa Fininvest, spiegano le stesse fonti, gli advisor sarebbero comunque al lavoro in queste ore per sondare gli umori dei piccoli azionisti e capire da che parte starebbero nel caso la contesa tra la holding e i francesi dovrebbe configurarsi come uno scontro aperto nell’ambito di un’assemblea del gruppo Mediaset.
I timori che la scalata sia possibile, anche se non immediata, restano.
Ed è forte anche la consapevolezza che, nel bene o nel male, bisogna iniziare a convivere con il “nemico” in casa.
Incontrando i giornalisti nella sede romana di Mediaset, il presidente del gruppo, Fedele Confalonieri, ha detto: “Sarà dura, ma ci difenderemo”.
Una difesa che, come ha sottolineato lo stesso Confalonieri, non guarda solo all’esterno, alla concorrenza di Sky o di altri gruppi, ma anche all’interno, dove sarà necessario osservare con attenzione da quello che “succede nei corridoi”.
A Mediaset in questi giorni circola un’espressione che è emblematica di quanto non ci si fidi delle mosse di Bollorè: l’avanzata dei transalpini viene associata all’immagine del cavallo di Troia.
Dopo aver alzato la propria quota nell’azionariato e denunciato Vivendi per manipolazione di mercato, la strategia del “gabinetto permanente” ad Arcore va avanti senza sosta.
Chi sorride, intanto, è Mediaset: il nuovo rialzo in Borsa di oggi ha portato la crescita del titolo a +53% in un mese, riducendo la perdita annuale al 6,28 per cento.
Mentre Berlusconi prova a resistere all’assalto dei francesi, la torta si fa più interessante e anche più gustosa.
Di sicuro il Cavaliere ha dalla sua un ombrello, quello del Governo e del Pd, che si lega perfettamente alla linea dell’opposizione responsabile che lo stesso Berlusconi predica ai suoi da giorni: non attaccare il governo in tv, distinguersi da Salvini, collaborare sulla legge elettorale.
L’insieme di questi due elementi rafforza il partito del non voto.
Berlusconi in primis, che non vuole sentire parlare di elezioni anticipate, ora è convinto ancora di più della necessità di portare avanti questa sua linea.
Ora il tempo è da dedicare alla sua creatura, quella intorno a cui ha richiamato la sua famiglia e i suoi più fidati collaboratori.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
TRA RENZI E VERDINI E’ SEMPRE TUTTO CONCORDATO
Alle 13,30, appena finito il discorso di Paolo Gentiloni, Giuseppe Ruvolo vecchio democristiano siciliano in quota Verdini, vede il cronista e consegna la frase tombale: “Interrogato, il morto non rispose… Quindi usciamo dall’Aula e non votiamo la fiducia. Conti 18 senatori in meno”.
Il morto, nella metafora, è il governo. La non risposta riguarda i posti.
Riavvolgendo la pellicola del film.
Poche ore prima a via, Poli sede del partito verdiniano, va in scena lo sfogatoio: “Denis, fai quel che vuoi con Renzi. Lo devi aiutare a far cadere il governo? Bene, ma nel frattempo prendiamoci qualche posto, entriamo come sottosegretari e viceministri”.
I campani , ma anche i siciliani Scavone e Compagnone sono un fiume in piena.
Mesi e mesi a fare la stampella. E ora, nessuna ricompensa. Volano parole grosse. Qualcuno minaccia di “andarsene”. Sembrano già in uscita gli ex Scelta civica, Zanetti, Donghia, Della Vedova. Con Zanetti che si è offerto a “titolo personale”, per continuare a fare il viceministro.
Servono almeno sei posti. Quella vecchia volpe di Verdini asseconda, dice che ci sta provando, fa l’arrabbiato col governo, minaccia sfracelli.
La sostanza è che l’abbuffata sognata diventa un digiuno.
Vecchio cronista, Augusto Minzolini, ha fiutato l’aria: “Mi pare di capire – dice ordinando un caffè – che sono divisi in tre: quelli che sono rassegnati, quelli che vogliono posti e chissà se restano dentro, quelli che assecondano Verdini nel suo gioco”.
Gioco neanche troppo raffinato, per chi lo conosce.
Ecco Maurizio Gasparri: “Maddai, lo sai come è Denis. Vale più un posto all’Eni quando il governo farà le nomine che un sottosegretario. Scusa, ti devo ricordare che Denis ha messo Rocco Girlanda, l’ex sottosegretario, alle relazioni esterne dell’Anas? A lui che gliene frega del seggio, farà il lobbista, pensa al dopo e cura il rapporto con Renzi”.
Si aggiunge al siparietto anche un altro storico ex An, Altero Matteoli, toscano: “Solo chi non conosce il rapporto tra Verdini e Renzi può prendere sul serio questa sceneggiata. Questo è un dispetto a Mattarella e un modo per dire a Gentiloni ‘stai sereno’ quando sarà “.
Cioè in primavera, stando alle dichiarazioni del ministro Poletti a palazzo Madama. Per evitare il jobs act
È il paradosso del gran bazar di palazzo Madama, nel giorno della fiducia.
Lo spiega il senatore dem Federico Fornaro: “A voler essere cattivi si può dire che oggi i posti veri si promettono a chi è disposto a farlo cadere il governo, non a sostenerlo… L’aria è questa: i responsabili, diversamente dal passato, sono quelli che aiutano ad andare presto al voto”.
Gli altri, di segno opposto, sono i disponibili che sguazzano nella palude del Senato per rimanere quanto più a lungo possibile a palazzo Madama.
Eccoli all’arrivo di Luca Lotti, stretta di mano, anche un po’ ossequiosa: Serenella Fuxia, Maurizio Romani, Lorenzo Battista.
Sono gli ex grillini che vogliono una poltrona più vellutata. Poi arrivano le dichiarazioni di sostegno al governo degli ex Sel, in rotta col gruppo, Dario Stefà no e Luciano Uras: “Abbiamo ricevuto assicurazioni dal governo sul Mezzogiorno”.
Ci sono i posti da sottosegretari, quelli da viceministri, la vicepresidenza del Senato (lasciata libera dalla fedeli), la presidenza della commissione Affari Costituzionali (lasciata libera dalla Finocchiaro).
Ma c’è, soprattutto, la paura di andare a casa a non tornare mai più.
Paolo Naccarato, ex cossighiano oggi nel Gal, indossa una cravatta per lui storica, con quattro gatti, la cravatta che ironicamente Cossiga fece fare ai tempi dell’Udr.
Il suo ragionamento incarna l’anima di fondo del redivivo Senato: “Ho appena detto a Paolo Gentiloni che anche questa volta gli straccioni di Valmy rendono il proprio servizio al paese votando la fiducia al governo. Ora però, voi giornalisti dovete invertire il ragionamento, altrimenti il paese non capisce: in questa legislatura al Senato non esistono 161 senatori in grado di approvare una mozione di sfiducia. Cioè se uno presenta una mozione di sfiducia non ce la fa a farla approvare. Questa è l’ultima legislatura prima dell’uragano”.
A metà pomeriggio, il pallottoliere segna quota 169.
Come la prima fiducia del governo Renzi. La navigazione quotidiana è un’altra cosa. Riecco Ruvolo: “Figlio mio, li voglio vedere a qualche votazione delicata, quando nel Pd ci sono gli assenti, la sinistra Pd che li fa ballare. Sarà un Vietnam, fidati. L’ha scritta la frase del morto che non rispose? Mi dirà che avevo ragione”.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
PATRIZIA DEL VECCHIO ERA SULLA CRESTA DELL’ONDA ALL’EPOCA DI ALEMANNO… MIGLIAIA DI MULTE CANCELLATE A VIP E PERSONAGGI NOTI A ROMA
Dopo il caso di Vittoria Crisostomi un’altra nomina allegra della Giunta Raggi: il Corriere della
Sera Roma punta infatti oggi il dito su Patrizia Del Vecchio, che con il marito Gianmario Nardi costituiva la storica coppia d’oro del Campidoglio e oggi è diventata Direttore della «Direzione Valorizzazione del Patrimonio Culturale» della Sovrintendenza Capitolina.
Anche se, racconta Valeria Costantini, è indagata nella vicenda dei furbetti della ZTL:
Un incarico di non lieve importanza, che la vede valutare i progetti necessari a promuovere l’enorme quantità di beni, musei e siti della città . Con annesso avanzamento come dirigente da II a III fascia, si legge appunto nell’ordinanza numero 95, firmata lo scorso 9 novembre dalla Raggi, in cui si ripartivano compiti e ruoli della megamacchina amministrativa del Comune.
Una poltrona per due incarichi in teoria, visto che la funzionaria compare anche come «Direttore organismi partecipati e spazi culturali» — ad interim — nel Dipartimento Cultura del Campidoglio.
Un ruolo per cui, come da prassi, ha dovuto firmare le autocertificazioni (datate 15 novembre 2016), in cui dichiarava di non essere a conoscenza di «cause di incompatibilità e inconferibilità » per poter ricoprire tale incarico.
Nessun ostacolo apparente insomma. Solo che Patrizia Del Vecchio risulta indagata insieme ad altri dirigenti in un’inchiesta del sostituto procuratore Francesco Dall’Olio: migliaia di multe cancellate a vip e personaggi noti a Roma, hanno ricostruito le indagini della Guardia di finanza, grazie all’aiuto del pool di impiegati comunali conniventi. Le accuse variano dalla truffa all’abuso d’ufficio, per un danno all’erario da milioni di euro.
Ma questo non le ha impedito di passare ad altri incarichi:
Nella più recente, nuova rotazione grillina salvi ancora entrambi i coniugi: Gianmario Nardi (già consigliere nel cda di Ama e coordinatore dell’ufficio di contrasto all’abusivismo del centro storico nel 2013) è attualmente direttore della Direzione Programmazione e attuazione dei piani di mobilità .
Incarichi preziosi che negli anni hanno ben ripagato la coppia: per il coordinamento attività giuridiche dell’allora sindaco, stipendio da 132mila euro l’anno per la Del Vecchio, 145mila euro per il coniuge come ex capo Gabinetto.
(da “NextQuotidiano“)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
VIETARE LA PUBBLICA CARITA’: LA NUOVA FRONTIERA FORZALEGHISTA PER RECUPERARE I VOTI DEGLI INDIGENTI
«L’abbietto mestiere dell’accattone è una piaga sociale che è sempre esistita sin dal tempo delle repubbliche greche. (…) I legislatori hanno sempre cercato di risanare questa piaga, tentando di porre un argine all’accattonaggio nell’interesse della pubblica decenza, del buon costume e della pubblica sicurezza…».
Lo scriveva l’«Enciclopedia di polizia», di Luigi Salerno, «Ad uso dei funzionari e impiegati di P.S., ufficiali e sottufficiali dei carabinieri, degli agenti di polizia e della guardia di finanza, magistrati, avvocati, sindaci e segretari comunali», edizioni Hoepli, 1952.
Citava il rischio, lasciando in giro i questuanti, di «una menomazione del decoro nazionale».
Ecco, il sindaco forzista di Trieste Roberto Dipiazza e il suo vice leghista Pierpaolo Roberti, decisi a mostrare i muscoli vietando la pubblica carità e fissando una multa da 150 a 900 euro perfino per chi fa l’elemosina, anteponendo gli inviti evangelici a quelli securitari, potrebbero trarre ulteriori ispirazioni dalla lettura dell’enciclopedia citata, la quale liquida la «plebaglia» che «spesso non ha camicia addosso, nè scarpe ai piedi, nè tetto sotto cui riparare» spiegando che «il risparmio e la previdenza le sono sconosciuti». Se poi volessero andare fino in fondo, i guardiani del decoro triestino potrebbero fare un esposto contro Bergoglio Jorge Mario, extracomunitario, nato a Buenos Aires, alias Papa Francesco, per «istigazione recidiva all’elemosina».
Nell’udienza giubilare del 9 aprile 2016, infatti, dopo aver ricordato che «elemosina, deriva dal greco e significa proprio misericordia», ha detto: «Il dovere dell’elemosina è antico quanto la Bibbia. Il sacrificio e l’elemosina erano due doveri a cui una persona religiosa doveva attenersi». E insistito che è un dovere verso «il bisognoso, la vedova, lo straniero, il forestiero, l’orfano…».
Conclusione: «Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo». Ma si sa, il Papa non deve raccattare voti…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL GENERALE RAPETTO: “INDAGAI E FUI COSTRETTO A DIMETTERMI. I MIEI SUPERIORI ORA SANNO COSA MI HANNO FATTO?
“Il futuro ci darà ragione” diceva Wernher von Braun, anticipando la corsa verso lo spazio in
tempi in cui la missilistica era legata ai cruenti scenari di guerra.
Qualcosa di simile, in un contesto certo meno ambizioso, è scappato anche a me il 29 maggio 2012 quando ho annunciato ai miei ragazzi del GAT Nucleo speciale frodi telematiche che stavo per rassegnare le mie dimissioni.
Quel giorno — con la morte nel cuore — ho liquidato con una manciata di firme la mia vita in divisa.
Un’avventura cominciata il 30 settembre 1975 alla Scuola militare Nunziatella e durata quasi 37 anni all’inseguimento del sogno di fare qualcosa di buono per gli altri.
La Guardia di Finanza aveva pianificato la mia rimozione dall’incarico e la destinazione alla frequenza del corso all’Istituto per gli Alti studi della Difesa dove insegnavo da una quindicina d’anni.
Ci furono ben 11 interrogazioni parlamentari sulla mia curiosa vicenda e non servirono a nulla.
Ero colpevole di aver “incrinato i rapporti con una Amministrazione consorella” (i Monopoli) mi disse un giorno uno dei vertici GdF: nonostante i più o meno garbati consigli a rimuovere l’incomprensibile ostinazione e a desistere dall’occuparmi delle investigazioni sulle slot machine, la mia squadra — sola contro tutti — arrivò a ricostruire uno scenario sconfortante sul gioco d’azzardo nel nostro Paese.
A distanza di quattro anni e mezzo gli stessi personaggi che hanno animato quella straordinaria indagine saltano di nuovo fuori.
Non sono riuscito a provare gioia nel leggere che questi signori sono finiti in manette.
E’ più forte il ricordo delle mortificazioni del mio reparto e mie personali nel vedere il signor Amedeo Laboccetta diventare deputato della Repubblica, sedere quindi in Commissione Finanze e poi diventare membro di quella parlamentare Antimafia, dove si portò come assistente Francesco Corallo.
Lo stesso Francesco Corallo che alla fine del 2013 mi denunciò per diffamazione e non si presentò all’udienza in cui — lui latitante — io provavo il brivido, dopo mesi di angoscia e dolore, di trovarmi nel banco sbagliato.
L’archiviazione di quel giorno non ha cancellato i segni delle prepotenze subite anche dopo esser stato costretto a mollare quella che era la mia vita.
Vorrei, invece, sapere dai miei superiori di allora se hanno coscienza di quel che mi hanno costretto a fare.
Vorrei poi che la gente, vedendo come le cose possono evolvere e cambiare, non si arrendesse, non continuasse a piegare la testa.
Qualunque ne sia il costo.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
GLI ATTIVISTI CHIEDONO DI ENTRARE NEL FORUM, ARRIVA L’OK MA SUBITO DOPO GLI ADMIN METTONO OFFLINE IL SITO E DENUNCIANO UNA PRESUNTA MANOMISSIONE
Il MoVimento 5 Stelle a Palermo si spacca.
Il caso delle firme false ha mandato in vacca i rapporti interni nel Grillo di Palermo ma adesso la situazione sta sensibilmente peggiorando.
Tutto parte dalla denuncia del professore di educazione fisica Vincenzo Pintagro, testimone del caso delle firme, che il 6 dicembre denuncia su Facebook di non essere abilitato a commentare sul forum del M5S di Palermo: come lui altri attivisti, vicini o testimoni nel caso delle firme false. «Se qualcuno ha qualche dubbio su quali possano essere le regole della democrazia all’interno del M5S potrà contattarmi e sarò ben lieto di dare le opportune delucidazioni . Ma, se cerca ancora di fare ….il furbo, desidero essere chiaro una volta per tutte: è finita la stagione delle furberie ! E’giunto il tempo di allinearsi e seguire le regole, oppure si può sempre scegliere un’altra strada…», dice il prof chiamando in causa anche Luigi Scarpello e Romano Daniele.
Qualche giorno dopo Pintagro torna a scrivere e accusa: dice che il forum si trova «nelle mani del cognato di Riccardo Ricciardi e del fidanzato di Chiara Di Benedetto.
Pertanto, se da un lato dichiarano che “qualunque cittadino” si può avvicinare al M5S, con l’operato dei signori Marco Giulivi e Francesco Lupo». Due giorni fa annuncia che il suo account è stato finalmente validato.
Cosa è successo? È successo che Adriano Varrica, già candidato alle comunarie del M5S oltre che collaboratore parlamentare dei grillini a Bruxelles e involontario protagonista di una polemica per un tentativo di convocare una riunione per parlare delle firme false, si è preso la responsabilità di validare gli account in attesa.
Scrive Repubblica Palermo:
Varrica ieri aveva criticato Francesco Lupo, fratello della deputata Loredana Lupo e cognato di Riccardo Ricciardi (altro indagato), chiedendo un confronto sull’opportunità che i coinvolti nell’inchiesta della procura di Palermo prendessero parte alle attività pubbliche di M5S e auspicando maggiore trasparenza nell’utilizzo delle piattaforme informatiche del movimento. Non solo: Varrica, assieme ad altri attivisti, denuncia un’esclusione dal sito del meet-up “il Grillo di Palermo” di cui è stato fondatore.
Ma la decisione evidentemente non piace agli admin.
Mauro Giulivi e Loredana Ceruso, gli amministratori del forum, affermano di aver scoperto che “qualcuno”, dall’esterno, ha ammesso alla piattaforma senza alcuna autorizzazione una sessantina di militanti che erano da tempo in lista d’attesa.
La reazione di Giulivi è tranchant: il sito viene immediatamente oscurato.
“Voglio avere la certezza che nessun dato sia stato compromesso. Ho deciso quindi di sporgere denuncia contro ignoti anche a tutela dei dati personali di tutti”, scrive in una mail agli utenti. Giulivi, che è il compagno di De Benedetto e «uno dei pochi nutiani rimasti al mondo», fa parte quindi della corrente che è attualmente nei guai e vede quattro dei suoi esponenti (Nuti, Busalacchi, Mannino, Di Vita) sospesi d’autorità dal collegio dei probiviri per le firme false. «…mi sono avvicinato a questo cazzo di Movimento per spalare la merda dai giardinetti pubblici e non per cercare di far eleggere come Sindaco un mio amico..», scrive sempre lui su Facebook.
A questo punto scoppia il caos.
E distintamente vengono fuori le forze in campo: tra i dissidenti è molto popolare l’avvocato Ugo Forello di Addiopizzo il cui collega di studio difende la deputata regionale Claudia La Rocca, l’unica che davanti al pubblico ministero ha risposto alle domande del magistrato chiamando in causa gli altri attivisti e autoaccusandosi nella vicenda.
Forello era stato tra i candidati contro cui si erano scatenati una serie di veleni alla vigilia di Palermo5Stelle, così come il poliziotto e sindacalista Igor Gelarda, che su Facebook torna a chiedere l’intervento di Grillo, parlando anche di pubblicazione di foto “inappropriate” e di “veleni di ogni tipo”:
«Purtroppo ho l’impressione che il movimento palermitano si stia comportando come un qualsiasi partito, diviso tra correnti e odi. A questo punto, per evitare che si perda definitivamente la faccia, secondo me è necessario un intervento forte, io spererei proprio fisico, di Beppe Grillo su Palermo».
Ma Grillo oggi è a Roma per risolvere un’altra grana: quella delle dimissioni di Paola Muraro. In più nei giorni scorsi Riccardo Nuti, Giulia Di Vita e Claudia Mannino hanno chiesto di affrontare il caso della loro sospensione dal M5S durante l’assemblea plenaria di deputati e senatori a 5 Stelle di Roma.
È arrivato un no dai capigruppo ma la proposta, avendo raccolto il numero necessario di firme, dovrà essere comunque discussa in questi giorni.
La rissa di Palermo però probabilmente scatenerà ancora la rabbia dei vertici del M5S nei confronti dei “monaci” nutiani. Che rischiano così di fare la fine dei capri espiatori: la vicenda delle firme false a 5 Stelle parte in contemporanea con le Comunarie di Palermo e sicuramente non è estranea alla competizione.
Chi aveva in custodia le firme può aver collaborato con altri con lo scopo di mettere fuorigioco i candidati “sgraditi“.
Per avvantaggiarsene o per procurare vantaggio a chi ritiene un amico. Magari per avere qualcosa in cambio dopo. Anche se evidentemente gli è scappata la mano.
Oggi le Comunarie sono sospese. E se fossero indette è difficile che i candidati del Grillo di Palermo possano farcela, visto che volano stracci giudiziari.
Così come sarebbe difficile per gli onorevoli palermitani ripresentarsi per una riconferma della candidatura alle prossime elezioni politiche, ad oggi.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 14th, 2016 Riccardo Fucile
I GRILLINI NON GRADISCONO LE CONTESTAZIONI, SALVO QUANDO LE FANNO LORO…. E STA PER DIMETTERSI IL DIRETTORE DI AMA, NOMINATO APPENA TRE MESI FA DALLA RAGGI
Si è aperta con una rissa sfiorata, la riunione dell’Aula Giulio Cesare.
In apertura della seduta il Pd, nei richiami al regolamento, ha chiesto chiarimenti sulle dimissioni dell’assessore all’Ambiente Paola Muraro e sulle ripercussioni su Ama, ma il presidente Marcello De Vito li ha ritenuti inammissibili.
Quindi, dai banchi del Pd sono stati esposti dei cartelli di protesta con su scritto «di notte fa i video, di giorno dorme. Raggi in Aula».
Poco dopo il consigliere dem Orlando Corsetti si è avvicinato alla presidenza per poi avventarsi sotto i banchi del M5S protestando animatamente contro un collega pentastellato che avrebbe invitato a “cacciarlo”.
Una lite che ha acceso gli animi di alcuni membri dell’assemblea che per poco non è sfociata in rissa e che ha registrato un nuovo “round” quando il consigliere M5S Pietro Calabrese si è avvicinato alla presidenza protestando a sua volta per delle frasi «minacciose» che gli sarebbero state rivolte.
Intanto, dopo l’assessore Paola Muraro, che ieri ha dato le dimissioni, c’è un altra grana che agita il Movimento 5 Stelle e la giunta di Virginia Raggi a Roma.
Secondo fonti di agenzia Stefano Bina, il direttore generale dell’Ama (la società capitolina dei servizi ambientali) starebbe pensando di lasciare.
Bina è stato nominato poco più tre mesi fa.
A farlo riflettere sulla possibilità di un passo indietro, i cambiamenti nell’organigramma dell’azienda municipale capitolina decisi dalla neo amministratrice unica Antonella Giglio e portati avanti senza tenere conto delle sue osservazioni.
Oggi a Roma dovrebbero arrivare Beppe Grillo e Davide Casaleggio, che sarebbero decisi a far desistere Bina per evitare che scoppi una nuova grana in seno al Campidoglio.
(da “La Stampa”)
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