IL PIANO DI RENZI: ELEZIONI AD APRILE CON PRIMARIE DI COALIZIONE, CONGRESSO PD TRA UN ANNO
DUE SONDAGGI CHOC PER IL PD: SE RENZI FA UN SUO PARTITO PRENDE IL 21% E IL PD CROLLA ALL’11%… SE RESTANO INSIEME PD AL 30%
“Se si vota prima del referendum, il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell’esame della Consulta è tutto come previsto”.
E’ quasi ora di pranzo, al Senato il premier Paolo Gentiloni sta per prendere la parola per chiedere la fiducia dell’aula, in Transatlantico il ministro Giuliano Poletti traccia la sua previsione: elezioni in primavera per evitare il voto sul referendum sul Jobs Act sul quale la Consulta si esprimerà l’11 gennaio.
Nei capannelli di Palazzo Madama, tra cronisti e politici, si parla solo di questo.
“Poletti? Un matto”, ti dicono dal Pd esterrefatti per lo scivolone del ministro. Ma come nelle tragedie di Shakespeare, il ‘matto’, il fool dice sempre la verità .
E infatti quello di Poletti è proprio il piano di Matteo Renzi.
Elezioni ad aprile, referendum sul Jobs Act rimandato al 2018, sempre che la Consulta ammetta i tre quesiti (reintroduzione dell’articolo 18, eliminazione dei voucher, responsabilità e controllo sugli appalti).
Ma soprattutto: congresso del Pd a scadenza naturale: novembre 2017, dopo le elezioni. Prima del voto, presumibilmente a marzo, si terrebbero solo delle primarie di coalizione per la premiership.
Sì perchè nel suo ‘ritiro’ a Pontassieve ma in costante contatto con i fedelissimi a Roma, Renzi sta ragionando in termini di coalizione, guardando alla sinistra di Giuliano Pisapia, pensando al Dem Gianni Cuperlo, insomma la ‘sinistra del sì’ al referendum costituzionale.
“Il lavoro di costruzione di una coalizione di centrosinistra andrebbe di pari passo con il lavoro sulla legge elettorale”, dice all’Huffington un parlamentare di stretta osservanza renziana, ipotizzando “un proporzionale oppure un sistema con i collegi, tipo il Mattarellum”.
Insomma, è questo lo schema che sta inducendo Renzi alla ‘grande frenata’.
Domenica all’assemblea del Pd all’Hotel Parco dei Principi di Roma, il segretario Dem non lancerà alcun congresso anticipato del partito, a meno di decisioni dell’ultim’ora visto che dalla sconfitta del 4 dicembre in poi Renzi naviga abbastanza a vista.
Intanto, l’ordine del giorno dell’assemblea si mantiene vago: “Analisi della situazione politica e determinazioni conseguenti”.
E il resto del Pd?
Sul Jobs Act i bersaniani hanno idee diverse. “Ma quale voto, cambiamo la legge: è necessario intervenire subito a partire dai voucher”, dice Roberto Speranza.
Ma il neonato governo Gentiloni non ha alcuna intenzione di usare lo stesso schema che è stato usato per il referendum ‘No triv’. Cioè intervenire sulla normativa per evitare il referendum.
In quel caso, il governo riuscì a ridurre i quesiti da sei a uno solo, vincendo poi il referendum del 17 aprile anche grazie a dosi massicce di inviti all’astensione, compito al quale si sono applicati sia Renzi che Napolitano.
Ma sul Jobs Act questa via è preclusa. Ma intervenire significherebbe eliminare i voucher e soprattutto ripristinare il diritto alla reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa: ipotesi impossibile per il governo, per l’Europa.
Il Jobs Act è infatti il cuore delle riforme chieste dal dictat dell’austerity, ora è in crisi ma con strascichi che nessuno al governo vuole cancellare.
Dunque, elezioni ad aprile per evitare il referendum. “C’è modo e modo di arrivarci”, sussurrano nervose fonti di maggioranza del Pd, criticando Poletti.
Da parte sua, il ministro diffonde una nota di precisazione: “Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse ad elezioni politiche anticipate, la legge prevede un rinvio dei referendum. E’ un’ipotesi che io non ho ‘invocato’ e non dipende certo dalla mia volontà che questo possa accadere. Ogni interpretazione strumentale è, quindi, totalmente fuori luogo”.
Ma quel che è fatto, è fatto.
I renziani ritrovano almeno un’ombra del sorriso che hanno perso il 4 dicembre. Nel resto della maggioranza Dem ingoiano amaro, dai Giovani Turchi ai franceschiniani di Areadem.
Quello di Poletti è uno scivolone tutto suo, giurano fonti di governo. Insomma, dietro non c’è Renzi.
Però di fatto il ministro del Lavoro trascina in porto l’unica scialuppa di salvataggio per Renzi, leader ammaccato dalla sconfitta al referendum, travolto dalle critiche per essersi dimesso da premier restando però a Palazzo Chigi attraverso il governo Gentiloni con giglio magico incluso.
Ma ora, ragionano i suoi a Roma, visto che la minoranza chiede le dimissioni del segretario per poter anticipare il congresso, il segretario decide di non anticipare il congresso.
Si punta invece al voto ad aprile perchè la ‘bomba’ Jobs Act è temuta da tutti in maggioranza e al governo, non solo da Renzi. Dunque non hanno scelta che rimanere con lui.
Dopo la debacle del 4 dicembre, infatti, nel Pd danno per certo un altro sganassone elettorale se tra il 15 aprile e il 15 giugno (i tempi della Costituzione) si andasse al referendum sul Jobs Act.
E allora meglio evitare di far esprimere la volontà popolare sulla riforma del lavoro.
Il referendum verrebbe così posticipato al 2018: “Se alle elezioni vince il M5s, se ne occuperanno loro. Se vince il Pd, intanto avremo vinto…”, dice una fonte renziana.
I non renziani del Pd sono avvertiti. Renzi li tiene ormai quasi in ostaggio.
Lo aiuta un sondaggio di ‘Porta a porta’: un eventuale ‘partito di Renzi’ prenderebbe circa il doppio di un ‘Pd senza Renzi’.
Sia per Ipr che per Tecnè il Pd attualmente è al 30%.
Un ‘partito di Renzi’ avrebbe il 21% per Ipr e il 19% per Tecnè, mentre il “Pd senza Renzi” si fermerebbe all’11% per Ipr e al 14% per Tecnè.
“Ipotesi non realistica”, dice il vicesegretario Lorenzo Guerini. Ma ormai nel Pd vanno avanti per minacce e avvertimenti.
(da “Huffingtonpost”)
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