Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
NESSUNO PARLA DEI CONTATTI DELLA RAGGI CON FRATELLI D’ITALIA PER UN APPOGGIO ESTERNO…. MA 5 FDI NON POTEVANO COMPENSARE I DIECI FEDELI ALLA LOMBARDI ED E’ SALTATO TUTTO (PER ORA)
Saltati metà Frongia (che resta assessore) e Romeo, ora scoppia un’altra lite: i consiglieri M5S
sono divisi sull’ipotesi di eleggere come vicesindaco l’assessore alle Partecipate, Massimo Colomban.
«Non è di Roma», dicono i critici.
Sul manager veneto chiamato dalla Casaleggio Associati potrebbe aprirsi un altro scontro intestino in un Campidoglio estenuato da inchieste, arresti e correnti.
La Raggi avrebbe voluto la promozione del giovane Andrea Mazzillo, assessore al Bilancio, i lombardiani hanno insistito sul presidente dell’Aula Giulio Cesare Marcello De Vito o il capogruppo Paolo Ferrara. E di fronte al nome imposto da Casaleggio e Grillo, i lombardiani hanno tentato di fare muro pretendendo l’estromissione completa di Frongia dalla giunta, ma la sindaca su questo non ha ceduto.
Ha fatto poi storcere il naso a molti il “lodo Raggi” per cui, anche se dovesse arrivare un avviso di garanzia alla sindaca, il nuovo codice etico M5S (deciso da chi?) non prevede l’obbligo di dimissioni.
Un tentativo maldestro di tutelarla, venendo meno a quella che è sempre stata l’impostazione del M5S in materia, segno che l’avviso di garanzia è dato per scontato.
Dopo due giorni di silenzio fa sorridere il ritorno in vita di Di Maio e Di Battista, entrambi pronti a dichiarare “l’avevamo detto alla Raggi che doveva allontanare Marra”.
Pensate che cuor di leone Di Maio oggi scrive “Marra se ne doveva andare e glielo dissi in faccia», tanto Marra dal carcere non può rispondergli a breve…
Mentre un Di Battista scosso, provato, quasi a disagio, posta un video su Facebook per sostenere la stessa tesi con tono dimesso.
Restano poi da assegnare i posti di assessore all’Ambiente (vedono Muraro), di capo di gabinetto (vedovo Romeo), di capo del Dipartimento Personale (vedovo Marra). di direttore generale di Ama, di dg di Atac.
Un risiko senza fine per una sindaca osservata speciale e che potrebbe finire nei guai giudiziari fino al collo.
Ma fa testo un retroscena di cui hanno solo marginalmente parlato alcuni giornali: Raggi prima di cedere aveva valutato la strada di mollare il M5S e restare sindaca sullo stile Pizzarotti.
Ma dei 29 consiglieri grillini, almeno 8-10 sono vicini alla Lombardo e non l’avrebbero seguita.
Da qui i contatti con Fratelli d’Italia che avrebbe potuto assicurare un appoggio esterno alla Raggi.
Operazione non andata in porto perchè i consiglieri della Meloni in Campidoglio sono solo 5 e non avrebbero potuto compensare i lombardiani.
In fondo sarebbe stato solo un ritorno alle origini per la Raggi e Marra: dal “raggio magico” di Virginia al “cerchio magico” dei Gabbiani di Rampelli.
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
MATTARELLUM E VOTO SUBITO CON PRIMARIE DI COALIZIONE
La “fase zen”, come la definisce lui stesso, è durata solo un paio di settimane. Solo due domeniche fa Matteo Renzi era furioso per la sconfitta referendaria, deluso e confuso.
Oggi davanti all’assemblea nazionale del Pd ripete: “Abbiamo straperso”. I delegati salutano con applausi e standing ovation i passati mille giorni di governo, che finiranno in un “libro documento”, dice lui.
Analisi della sconfitta qui e là , “abbiamo perso al sud, tra i giovani e sul web”, praticamente tutto.
Ma il segretario, pur con volto provato e all’inizio anche un po’ dimesso, è qui all’Ergife di Roma per rilanciare. Come se fosse stato appena eletto leader del Pd, come se alle spalle non avesse una storia di 3 anni al governo che lo hanno portato dal 40,8 per cento delle europee del 2014 al collasso politico.
Ad ogni modo, basta con lo zen e niente congresso anticipato del Pd. Bensì urne anticipate alla primavera, massimo giugno.
Con la nuova parola d’ordine: Mattarellum. Un obiettivo per il quale il segretario conta su un rinnovato asse: con Graziano Delrio.
Mentre Renzi parla, un’oretta di relazione che cambia verso al renzismo dalla vocazione maggioritaria all’ottica di coalizione, Paolo Gentiloni siede al tavolo della presidenza.
Il segretario non lo dice chiaramente, ma la sua è una chiamata al “voto subito”. Il neo-premier lo sa. E comunque ci pensa Delrio a dirlo: “Trovo omissiva la tua relazione, Matteo: il voto di domenica 4 dicembre ha detto che gli italiani vogliono andare a votare presto…”.
Un gioco delle parti. Significa che i renziani ortodossi, categoria nella quale ora il segretario stesso ascrive Delrio addirittura come ‘capo’ di questa componente, si muovono per riportare il paese alle urne al più presto possibile.
E’ la nuova fase di Renzi: il giglio magico Boschi-Lotti è saldamente piazzato al governo Gentiloni. Ma il nuovo corso si chiama Delrio.
“Il Pd ha bisogno di una terza via tra capitalismo e populismo — dice il ministro parlando all’assemblea – Noi l’abbiamo studiata ma non abbiamo dato una risposta sufficiente. Grazie Matteo per aver detto di voler ripartire da un ‘Noi’. Benissimo la conferenza programmatica proposta da Epifani, che parte dal basso per essere in sintonia con la pancia del Paese non per assecondarla…”.
Dalla vocazione maggioritaria alla coalizione di centrosinistra.
Mattarellum vuol dire questo. E per Renzi è un inedito assoluto. Tuttavia, dopo il fallimento delle riforme costituzionali e dell’Italicum con il suo premio di lista addirittura, il segretario Pd non si rassegna al proporzionale: vanificherebbe la sua leadership.
Ed è convinto di incrociare un mood prevalente tra gli elettori: andare al voto subito ma non con un ritorno al ‘Pentapartito’.
Lo dice: “Eravamo a un passo dalla terza repubblica, siamo tornati alla prima e senza la qualità della classe dirigente della prima….”.
Con i suoi insiste: “Noi diciamo maggioritario. Chi vuole il proporzionale, lo dica, ma a viso aperto”.
E’ una sfida al M5s e a Berlusconi, dal quale non si aspetta un sì convinto e subito. Mentre Salvini invece fa già sapere che a lui il Mattarellum piace: convincerebbe l’ex Cavaliere a fare l’alleanza con la Lega e a non giocare in proprio.
Ma soprattutto quella di Renzi è una sfida anche nel partito. “Vogliamo giocarci l’ultima possibilità di maggioritario o scivoliamo nel proporzionale? Il Pd faccia chiarezza”.
Renzi resta guardingo mentre si susseguono gli interventi dal palco dell’Ergife. C’è Andrea Orlando che marca la distanza e critica un ritorno alle “soluzioni anni ’90”. C’è Dario Franceschini che dice sì al Mattarellum, ma in realtà immagina un orizzonte temporale più lungo per il governo Gentiloni. Cioè urne sì, ma non a primavera.
C’è Gianni Cuperlo che preferirebbe “un congresso” prima di andare al voto. Francesco Boccia: “Dove l’abbiamo discusso il ritorno al Mattarellum? Si va al voto quando Mattarella lo riterrà ”.
Paradossalmente, l’unico sostegno senza subordinate al Mattarellum arriva dall’anti-renziano Roberto Speranza, poi attaccato con toni alquanto coloriti dal renziano Roberto Giachetti.
Alla fine bersaniani e cuperliani non partecipano al voto, ma l’assemblea approva: 481 sì, 2 no e 10 astenuti.
Il grosso del Pd gli dice sì non per convinzione ma per mancanza di alternative. Secondo i sondaggi, infatti, Renzi è ancora l’unico leader del campo Dem.
Ed è questo che gli dà la possibilità di immaginare già da ora la via del suo prossimo futuro: primarie nei gazebo per votare il premier del centrosinistra e tornare al voto al più presto.
Come convincerà il grosso dei gruppi parlamentari? Lui, dall’alto del suo ruolo di segretario ma non parlamentare e per questo senza stipendio, pensa di farlo battendo sul tasto vitalizi: maturano a settembre, non si vorrà mica alimentare il sospetto secondo cui i parlamentari Pd vogliono aspettare la pensione prima di sciogliere le Camere?
“Banale ogni considerazione sul vitalizio dei parlamentari…”, sottolinea non a caso Renzi in assemblea: quasi un inciso, destinato a diventare un mantra se sarà il caso. Ad ogni modo con i gruppi ci sarà un primo momento di discussione il 28 gennaio, 4 giorni dopo l’udienza della Consulta sull’Italicum.
E poi, è l’altra sua argomentazione, con il caos sulla giunta Raggi, il M5s ora è ai minimi storici, debolissimo: meglio che il Pd approfitti e apra la corsa alle urne subito.
“Guardo con molto interesse a ciò che Giuliano Pisapia sta costruendo”, dice il segretario all’assemblea Dem.
L’ex sindaco di Milano, schierato sul sì al referendum, è uno dei punti di riferimento della ‘costruenda’ coalizione che Renzi ha in mente. Pisapia come candidato alternativo a delle primarie che potrebbero anche includere un’altra personalità del Pd: esattamente come è successo quattro anni fa, quando fu Renzi a sfidare Bersani e perdere, nelle primarie cui parteciparono anche Vendola, Tabacci e Puppato.
La nuova fase è lanciata. I tre anni di governo sono già solo un ricordo sfocato.
“Non ho visto la politicizzazione del referendum”, ripete Renzi. Per lui è questo il vero motivo della sconfitta: il referendum è andato perso perchè sigle diverse e opposte si sono coalizzate nell’anti-renzismo, pur senza avere una proposta politica comune.
“Se voto politico è quel 59 per cento di no, non sottovalutino il voto politico del 41 per cento di sì con cui dovranno fare i conti…”, avverte. Sul perchè si sia creata questa strana coalizione, solo accenni. Troppo “notabilato” al sud, sconfitta tra i “giovani disincantati”, nelle periferie: letture più che analisi.
Ma è quanto gli basta per lanciare l’appello all’unità del Pd: “Non siamo un club di correnti dove ciascuno si costruisce una strategia personale, non torneremo ai caminetti: siamo il Pd che, se si fa un selfie, si vede che ha preso una bella botta…”. Per ora il Pd non si scinde, intrappolato dalla leadership di Renzi.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
SONDAGGIO SCENARI POLITICI PER HUFFPOST: ROSSI NON SUPERA NEANCHE IL 15%, EMILIANO IL 10% DEI CONSENSI
Nessuno nel Partito Democratico vale Renzi. 
E’ questo l’opinione che emerge da un sondaggio di Scenari Politici condotto per l’Huffington Post tra un campione di elettori dem.
La minoranza del partito si sta già organizzando in vista del prossimo congresso. Dopo la pesante sconfitta di Matteo Renzi al referendum costituzionale la sfida all’interno del Pd è aperta e già sono diversi i candidati in campo per occupare il ruolo di segretario dopo l’ex presidente del Consiglio:
Roberto Speranza e Enrico Rossi hanno già fatto sapere che saranno della partita, mentre è probabile ma ancora in forse la candidatura del governatore della Puglia Michele Emiliano.
E tuttavia nessuno al momento sembra avere molte chance di vittoria contro l’ex premier: per il 38,5 per cento degli elettori Pd nessuno dei possibili candidati anti-Renzi ha la credibilità per diventare la nuova guida del partito.
Il primo in classifica è il presidente della Regione Toscana Rossi, con il 14,8 per cento delle preferenze.
Dopo di lui il collega Emiliano, con il 9,8 per cento, e a seguire Massimo D’Alema (che non si candiderà ) con il 9,3 per cento.
Ci sono poi Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, Gianni Cuperlo, Roberto Speranza, Andrea Orlando e Francesco Boccia, con percentuali che via via diminuiscono.
Sempre secondo l’elettorato Pd Renzi dovrebbe anticipare il congresso e ricandidarsi alla guida del Partito Democratico: la pensa così il 36 per cento degli intervistati da Scenari Politici.
Per il 28 per cento sarebbe invece il caso che l’attuale segretario si prendesse un “anno sabbatico” e poi tornare a fare politica.
Per il 24 per cento l’ex premier dovrebbe chiedere le elezioni anticipate mentre solo per il 12 per cento degli elettori Pd Renzi dovrebbe abbandonare la politica, così come aveva promesso nei mesi di campagna referendaria.
A un campione di elettori di tutti i partiti è stato poi chiesto un’opinione sul governo Gentiloni, subentrato a quello guidato da Renzi dopo la sconfitta al referendum costituzionale.
Per il 68 per cento il giudizio è negativo mentre solo per il 32 per cento è positivo.
Non solo: per il 44 per cento bisognerebbe andare subito al voto una volta arrivato il giudizio della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, l’Italicum.
Per il 38 per cento invece sarebbe meglio aspettare la scadenza naturale della legislatura prima di nuove elezioni.
Solo per il 18 per cento bisognerebbe andare al voto più tardi ma subito prima della scadenza della maturazione della pensione per i parlamentari.
Tuttavia per l’82,8 per cento degli intervistati il “vitalizio” che scatta dopo solo 4 anni e mezzo di legislatura una volta raggiunti i 65 anni è un privilegio che dovrebbe essere cancellato.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
LE RESPONSABILITA’ DI GRILLO, DI MAIO E DI BATTISTA
I primi sei mesi di giunta di Virginia Raggi hanno racchiuso i casini che mediamente investono un’amministrazione di una grande città lungo il corso di una consiliatura, diluiti nei cinque anni e dunque di più facile gestione.
La prima cittadina, vittima di una cocciutaggine che ha dell’infantile, ha selezionato una classe dirigente palesemente inadeguata se non opaca per quanto riguarda numerose figure apicali.
E, peggio, l’ha difesa oltre ogni ragionevole convenienza politica contro le critiche esterne e l’esplosione di una violenta faida interna.
L’arresto di Raffaele Marra è il nodo scorsoio di una lunga corda che la stessa Raggi ha steso pazientemente e ostinatamente, in un totale e ingenuo sprezzo del pericolo.
E sul quale ha preso per i fondelli gli elettori, definendolo per quello che non è, uno dei 23 mila dipendenti comunali, non la figura potente e sfuggente sul cui ruolo di vertice nella macchina del Campidoglio ha condotto un lunghissimo braccio di ferro con l’opinione pubblica e i suoi stessi compagni di partito.
Come se avessero arrestato l’usciere dell’anagrafe, insomma.
Un insulto per l’intelligenza di chiunque l’abbia ascoltata.
Eppure stupisce il coro di peana contro l’intervento di Beppe Grillo e dei suoi colonnelli. La macchina di Roma è affare complesso, che per il palcoscenico che rappresenta tiene dentro il sangue della politica nazionale e la merda di un carrozzone amministrativo tra i più complicati e paludosi d’Italia.
Non esiste sindaco a Roma che governi ignorando la forza politica che ha condotto una difficile battaglia per insediarlo, o che rimanga in sella dopo esserne stato sfiduciato.
È questo aspetto a legare l’esperienza di Ignazio Marino a quella della Raggi.
Due figure che, per motivi diversi, erano considerate corpi estranei alle proprie appartenenze politiche e che hanno provato a governare non con, ma malgrado i rispettivi partiti.
Marino, che dal punto di vista comunicativo ha fatto tutto quello che era in suo possesso per apparire quel che non era, ha rifiutato seccamente l’aiuto/imposizione del Partito democratico per tirarsi fuori dalle secche in cui si era impantanato.
Rifiutando quel commissariamento – anticorpo duro, spesso sguaiato, molte volte improduttivo, che ha la politica per mettere una toppa là dove sta crollando tutto, ma pur sempre anticorpo – è andato a sbattere.
Anche perchè i Dem hanno evidenziato una cultura della democrazia dell’alternanza talmente immatura e sfibrata che si sono rifiutati di lasciarlo andare per la sua strada, il cui termine sarebbe stato stabilito cinque anni dopo dai cittadini romani, per farlo cadere nottetempo in un salto nel vuoto autolesionista e senza senso.
La Raggi, dopo sei mesi di contorsioni senza senso, aveva avanti due possibilità .
Rifiutare l’intervento esterno e andare verso le dimissioni o la caduta; o accettarlo e provare ad andare avanti, iniziando a governare e a fare politica, mediando tra interessi contrapposti e contrastanti.
Chi oggi invoca la prima strada e si straccia le vesti per la seconda, dimostra la stessa sfilacciata idea della democrazia e dei partiti. Quella per la quale si governa la capitale del paese da soli, contro tutto e contro tutti.
Come se il sindaco sia un’entità comparsa improvvisamente dal nulla, senza appartenenze e legami, impegnato in una sorta di guerra dochisciottesca senza lieto fine.
In questa folle rincorsa al peggio, il vero problema non è il commissariamento. Sono i commissari.
A partire da Beppe Grillo, che ha costruito dinamiche di selezione di classe dirigente che vanno avanti per botte di fortuna: ti va bene e ti capita una Appendino, ti va male ed ecco la Raggi.
È lo stesso Grillo attraverso l’impostazione dell’intero Movimento 5 stelle ad aver permesso a una ragazza evidentemente non preparata e dal passato pieno di non detti di arrivare alla poltrona di primo cittadino.
È lo stesso Grillo ad aver investito una larga fetta del capitale politico 5 stelle su una persona inadeguata – come hanno mostrato i condizionamenti destrorsi che ha subito e la scelta dei più stretti collaboratori – provandole a mettere cappelli (mini Direttorio, remember?) e disfacendoli, senza minimamente progettare prima, con accortezza e con minuzia, quel che sarebbe stato poi.
Per tacer di Luigi Di Maio, la cui benedizione alla giunta per propri interessi personali (leggasi: premiership) ha prima sbattuto sulla cacciata di Minenna e Raineri, per poi asserragliarsi in un silenzio che della trasparenza invocata come un mantra dal vicepresidente della Camera ha ben poco.
Quello stesso Di Maio rimasto avviluppato – per non averle sapute districare – in una lunga corrida di invidie, faide e vendette interne che hanno origini lontane, a partire dal Meetup romano la cui balcanizzazione non è stata assorbita in nessun modo dai vertici nazionali, generando quel che è sotto gli occhi di tutti.
Senza che gli esponenti più in vista tra i 5 stelle romani abbiano dato segnali di lungimiranza e visione prospettica, lavandosene le mani (Alessandro Di Battista), o infilandosi in una sfibrante lotta di posizione per poi chiamarsene fuori e aspettare lungo la riva (Roberta Lombardi, Paola Taverna).
Il problema non è dunque che il livello nazionale – la compensazione, la mediazione della politica sull’amministrazione – si interessi di Roma.
Il commissariamento, insomma, che è sì certificazione di un fallimento ma anche, almeno tentativamente, segnale che si è in cerca di una via d’uscita.
Il problema è che invece che costituire gli albori di una soluzione al problema, i commissari sono paradossalmente più unfit del commissariato.
Portando il disastro dei giorni di Marino ad un livello ancora più alto di inadeguatezza.
Pietro Salvatori
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
CAOS ALL’ASSEMBLEA PD… “VA BENE, MI CORREGGO: FACCIA DI BRONZO”
“Sulla legge elettorale mi sembra di trovarmi al gioco dell’oca. Ovviamente penso che il Mattarellum sia una legge straordinaria e importante. Ancora in queste ore rimango leggermente allibito quando leggo il novello Davide Roberto Speranza dire che è una sua proposta. Ho cercato parole ortodosse per dire cosa io penso. E penso: Roberto Speranza, hai la faccia come il culo. Quando avevi la possibilità di votare il Mattarellum alla Camera eri il capogruppo e hai detto no”.
Lo dice Roberto Giachetti in assemblea Pd. Sentite queste parole, si vede Matteo Renzi mettersi le mani nei capelli.
Una parte della platea applaude il vicepresidente della Camera ma una decina di delegati presenti in assemblea Pd insorgono e lasciano la sala tra urla e proteste. Interviene il presidente Matteo Orfini a redarguire Giachetti: “Non avresti permesso quando dirigi l’aula della Camera di usare espressioni del genere”.
Giachetti si difende: “La parola culo è sdoganata in tutto il mondo. Ma ok, mi correggo: faccia di bronzo”.
(da agenzie)
argomento: PD | Commenta »
Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
NEL 2013 LO VOLEVANO GIACHETTI, SEL E M5S, TRE MESI FA LA MINORANZA PD… DI COSA SI TRATTA?
Il Mattarellum è tornato di moda. 
Quando a proporre di ripristinarlo era stato Roberto Giachetti, che per portare avanti alla sua battaglia si era sottoposto a un estenuante sciopero della fame di pannelliana memoria, il Partito Democratico aveva nicchiato votando contro alla Camera.
Unici sostenitori della proposta erano stati i deputati di Sel e del Movimento 5 Stelle. Oggi, invece, è Matteo Renzi a proporre il ritorno al sistema elettorale del 1993.
È una scelta che raccoglie un’eredità importante, con cui Renzi ricolloca il suo progetto di Pd nel solco dell’Ulivo.
A proporre negli ultimi giorni il ritorno al Mattarellum, infatti, era stata Sandra Zampa (deputata e vicepresidente del Pd), storica portavoce di Romano Prodi. E proprio Prodi è stato il primo beneficiario del Mattarellum, con cui è riuscito a battere Berlusconi nel 1996 e portare la sinistra unita al governo per la prima volta.
Bisognerà vedere, adesso, se Movimento 5 Stelle e Sel continueranno a essere favorevoli al ritorno al Mattarellum (o, al posto loro, le diverse formazioni di centrodestra in Parlamento).
Ma intanto, come funziona?
Il Mattarellum, in vigore tra il 1994 e il 2005, è un sistema misto, che alla Camera prevede l’elezione del 75% dei deputati con collegi uninominali (in ogni collegio ogni lista presenta un solo candidato per collegio e vince chi prende più voti) e il 25% con un sistema proporzionale.
La soglia di sbarramento, per la parte proporzionale, è fissata al 4%.
Il voto per la Camera viene espresso attraverso due schede, una per il voto nel collegio uninominale e una per il scegliere tra le liste bloccate che concorrono per il 25% di seggi assegnati su base proporzionale.
A questi due meccanismi si aggiunge poi il cosiddetto scorporo dei voti, cioè un sistema per riequilibrare la distribuzione dei seggi che, per la parte uninominale, tende a svantaggiare i partiti più piccoli.
Lo scorporo consiste nel sottrarre a una lista (nella parte proporzionale) i voti ottenuti dai candidati collegati alla stessa lista e già eletti nella parte uninominale.
In questo modo, almeno nella parte proporzionale del Mattarellum, si dà più ossigeno ai partiti più piccoli, riducendo l’impatto di quelli più grossi già avvantaggiati con il sistema uninominale.
Per quanto riguarda il Senato, anche qui il Mattarellum si divide in un 75% maggioritario e un 25% proporzionale, con una sostanziale differenza per quest’ultimo.
L’assegnazione dei seggi del Senato, a differenza della Camera, avviene su base regionale e con un sistema di ripescaggio dei migliori candidati bocciati alla prova dell’uninominale (anche qui premiando, quindi, i candidati minoritari).
Il Mattarellum 2.0
Va notato che, oltre alla proposta Giachetti (bocciata in Aula nel 2013, ai tempi c’era il governo Letta) e a quella pressochè identica della Zampa, nei mesi scorsi era stata la minoranza del Pd a parlare di un Mattarellum 2.0 come alternativa all’Italicum.
Si sarebbe trattato di riprendere la vecchia legge elettorale arricchendola di un premio di maggioranza di massimo 90 seggi.
L’idea dei bersaniani era di scongiurare con questo premio di maggioranza lo stallo registrato nel 1994, quando Berlusconi non aveva abbastanza voti al Senato e aveva messo in piedi un governo con l’aiuto dei senatori a vita e l’uscita dall’Aula si un gruppo di senatori eletti con la Lista Segni.
Problemi di ieri e di oggi
Il fatto curioso è che nel 1994 il Mattarellum non funzionò come si sperava perchè l’Italia del dopo Mani Pulite si trovava a confrontarsi con uno scenario politico inedito: il bipolarismo aveva ceduto il passo a un accenno di tripolarismo, diviso tra il centrodestra di Berlusconi, la sinistra di Occhetto e il centro di Segni.
Oggi il tripolarismo, come noto, si è addirittura accentuato e, per quanto a destra la situazione sia fluida (per non dire confusa), la sfida non può esaurirsi a uno scontro diretto tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle (con l’Italicum, per dire, ci si sarebbe arrivati solo con il ballottaggio).
Da questo punto di vista la proposta dei bersaniani avrebbe senso per permettere all’Italia di avere un Parlamento in grado di produrre una maggioranza il giorno dopo le elezioni.
Del resto, come aveva rilevato alcuni mesi fa il professor Roberto D’Alimonte in una simulazione basata sui voti delle elezioni politiche del 2013 (quando il centrosinistra era al 29,5, il centrodestra al 29,1 e M5s al 25,5) e sui sondaggi degli ultimi mesi, il Mattarellum preso e applicato oggi rischierebbe di riportarci alla casella da cui siamo partiti tre anni fa: un Parlamento spaccato, M5S che non fa alleanze e una grossa coalizione Pd-Forza Italia per avere un governo
Francesco Zaffarano
(da “La Stampa”)
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
“NON SONO PER L’AMARCORD, LA POLITICA NON E’ DENUNCIA, E’ CAMBIAMENTO”
“Rispetteremo le scadenze statutarie”, per questo “niente congresso anticipato”, ha detto il segretario del Pd.
Quanto alla legge elettorale, Renzi ha proposto il ritorno al Mattarellum. “Vogliamo giocare l’ultima possibilità di avere un sistema maggioritario o scivoliamo verso il proporzionale? Io vi propongo di andare a guardare le carte in modo esplicito sull’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi: è la proposta che porta il nome del presidente Sergio Mattarella. Io dico andiamo a vedere. Il Pd c’è. Lo chiedo a questa assemblea. “E’ una proposta fatta di un articolo. Non c’è bisogno di inventarsi altro. E io lo chiedo formalmente: a Forza Italia, ai nostri alleati centristi, alla Lega Nord, alla sinistra e al M5S”, ha aggiunto Renzi.
L’inno di Mameli apre l’assemblea nazionale del Partito democratico.
Sul palco, ci sono i vertici del Pd, i dirigenti della segreteria e i capigruppo. In piedi, alla destra del segretario Matteo Renzi, canta l’inno il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni.
Sullo sfondo compare un enorme tricolore e la scritta “Ripartire dall’Italia”.
“Il congresso sarebbe stata la scelta migliore per ripartire all’interno del Pd. Dal giorno dopo ho pensato al congresso. Ma la prima regola del nuovo corso deve essere quella di ascoltare di più: io per primo – ha affermato Renzi – Ho accettato i suggerimenti di chi ha chiesto di non fare del congresso il luogo dello scontro sulla pelle del paese. Visto che siamo nella fase nuova, la fase zen, ho accettato l’idea di rispettare le regole scritte e le scadenze statutarie. Faremo il congresso nei tempi previsti dallo statuto”.
“Non mi vedrete a fare tour per l’Italia o giri in camper. È’ finito il tempo di riempire i teatri, anche se è una cosa bellissima. Vorrei essere capace di lavorare in modo meno organizzato, di fare più l’allenatore che non il giocatore. Come un talent scout, verrò a cercarvi uno per uno”, ha continuato il segretario.
“L’errore principale non è nemmeno la personalizzazione. Se il 59% è un voto politico, il 41 non è il voto dei giovani costituzionalisti. Il mio errore è stato non aver capito che il valore del referendum era nella politicizzazione, non nella la personalizzazione. Ma allora il 41% è il partito più forte che c’è in Italia e l’unica speranza”, ha affermato Renzi.
“Abbiamo perso, ho perso il referendum. E anche questo ha segnato in modo molto forte il dibattito politico europeo”, ha aggiunto Renzi.
“Faremo un’analisi molto dura, spietata, innanzitutto con noi stessi di quello che è accaduto al referendum. Un’analisi seria e severa, ma anche un sano senso di passione per la cosa pubblica devono segnare questa assemblea”.
“Per me i mille giorni sono il passato remoto”, dice Matteo Renzi in assemblea nazionale. “Io non sono per l’amarcord. La politica non è denuncia: la politica è cambiamento”, aggiunge.
Stoccata alla Raggi: “Qui a Roma voglio dire che la politica non è l’indicazione delle cose che non vanno, l’urlo di chi dice No e non propone un’alternativa. Se si fa così politica, il Paese non va da nessuna parte, si blocca il Paese. Se per bloccare la corruzione si bloccano le Olimpiadi, si blocca la propria città . E forse per bloccare la corruzione bisognerebbe scegliere meglio i collaboratori”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 18th, 2016 Riccardo Fucile
LOMBARDI ALL’ATTACCO, ANCHE CASALEGGIO JR SOTTO ACCUSA… DI MAIO IN MINORANZA NEL GRUPPO PARLAMENTARE
Mentre lapidano Virginia Raggi – con l’Ama paralizzata e il suo direttore generale dimissionario,
l’Atac semicommissariata, il bilancio di Roma da approvare e un buco da approfondire – Beppe Grillo se ne torna a Genova, Luigi Di Maio si defila, Alessandro Di Battista è eclissato.
Con la classica tecnica in uso nel Movimento, le correnti – disparate, in lotta e cattive – si sono provvisoriamente unite nella loro specialità : scaricare tutto su un capro espiatorio.
E dire che a novembre Grillo chiese a tutti i consiglieri capitolini cosa ne pensassero di Marra: risposero tutti, nessuno escluso, che era ok.
Di Maio, ormai in minoranza nel gruppo parlamentare, ieri suggeriva la linea «aspettiamo, stiamo fermi, passerà ».
Stavolta non può reggere, neanche all’interno.
Il fronte opposto è troppo vasto e trasversale, ma chi ha la capacità politica di chiedere il conto, sia al vicepresidente della Camera sia, notizia, a Davide Casaleggio, che hanno difeso fino all’indifendibile la Raggi, è solo Roberta Lombardi; che definì Raffaele Marra «un virus che infetta il Movimento».
Lombardi ha due pretoriani non proprio inattaccabili (Marcello De Vito presentò Raffaele Marra a Frongia, che da ieri alle sette di sera non è più vicesindaco: si è dimesso, la Raggi ha respinto le dimissioni ma resta solo come assessore; e Paolo Ferrara, il consigliere di Ostia, dove il M5S è pieno di ombre), ma è donna di temperamento e, sua dote, sa essere cattiva.
L’altro che può dire «ve l’avevo detto» è Roberto Fico, politicamente l’opposto di Di Maio, ma un temporeggiatore.
Fico aveva provato a dire qualcosa a Grillo per tempo, anche sui leaderismi di Di Maio, ma Grillo gli rispose «vengo a Roma, ci chiudiamo tu, Luigi e io in una stanza e risolviamo tutto».
La Stampa raccontò la rivolta, e Fico negò tutto, anzichè rivendicare quel suo ruolo di alternativa a un M5S scalato e permeabile ai poteri e alla destra.
Di Maio è talmente indebolito che adesso si può alzare un deputato tra tanti, Giuseppe Brescia, e chiamarlo su Facebook «piccolo stratega»: «Chi ha difeso questa linea scellerata (della Raggi, nda) dovrebbe smetterla di giocare al “piccolo stratega” perchè evidentemente non ne è in grado e arreca solo danno al Movimento».
La comunicazione ufficiale, che nel M5S è il trait d’union tra gruppo parlamentare e la Casaleggio associati, non esiste più.
I capi sono un’estensione di Di Maio, e Lombardi e Fico vogliono la loro testa.
È con loro Paola Taverna, colei che mandò la mail in cui informava Di Maio dei guai giudiziari di Muraro («Io col cerino in mano non ci resto»); la mail che Di Maio «non avevo capito».
Però anche il giro-Taverna, l’ex mini direttorio romano, non è al riparo da tempeste. Fu Stefano Vignaroli, per capirci, a introdurre alla Raggi Paola Muraro, altra catastrofe per la sindaca; Vignaroli a tenere un canale con Manlio Cerroni, il «re dei monnezzari». Anche Vignaroli non si vede in giro da tempo.
Carla Ruocco è vicina all’ex assessore Marcello Minenna (che non ha gradito, eufemismo, come Di Maio, dopo avergli promesso radiose sorti future, l’abbia scaricato in un secondo), il quale a sua volta ha rapporto di stima con l’ex capo di gabinetto della Raggi, Carla Raineri.
Ruocco agisce in queste ore in piena intesa con Fico. È donna con un canale telefonico aperto con Grillo.
E con Fico stanno i parlamentari piemontesi: persone legate agli ideali ormai andati del M5S, trasparenza, distanza dai poteri. Come i liguri. O quelli del Nord Est, di Federico D’Incà .
Una scheggia incontrollabile in questi giochi è rappresentata dalla corrente dei siciliani fatti fuori (per ora) dopo la storia delle firme false: Riccardo Nuti e Claudia Mannino.
A ottobre alcuni di loro accusarono (la cosa uscì sulla Stampa) i vertici della comunicazione alla Camera di «lavorare per le Iene con i nostri soldi». Anche da Palermo, la storia delle firme false si potrebbe rivelare un boomerang per chi internamente l’ha cavalcata.
In questa guerra di tutti contro tutti, con alleanze precarissime solo in chiave anti-Di Maio e anti-Raggi, anche Davide Casaleggio è clamorosamente messo in discussione, privo com’è del carisma del padre.
Si fida di poche persone (Max Bugani, David Borrelli, Carlo Martelli), con le quali però ha in mano il sistema informatico, specifiche dei codici e password, e può accendere o spegnere quando vuole la luce in questa stanza dove tutti menano le mani, intuendo che piantare la banderilla sulla schiena della Raggi può non bastare a salvare la baracca.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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