IL PROBLEMA DELLA RAGGI NON E’ IL COMMISSARIAMENTO, SONO I COMMISSARI
LE RESPONSABILITA’ DI GRILLO, DI MAIO E DI BATTISTA
I primi sei mesi di giunta di Virginia Raggi hanno racchiuso i casini che mediamente investono un’amministrazione di una grande città lungo il corso di una consiliatura, diluiti nei cinque anni e dunque di più facile gestione.
La prima cittadina, vittima di una cocciutaggine che ha dell’infantile, ha selezionato una classe dirigente palesemente inadeguata se non opaca per quanto riguarda numerose figure apicali.
E, peggio, l’ha difesa oltre ogni ragionevole convenienza politica contro le critiche esterne e l’esplosione di una violenta faida interna.
L’arresto di Raffaele Marra è il nodo scorsoio di una lunga corda che la stessa Raggi ha steso pazientemente e ostinatamente, in un totale e ingenuo sprezzo del pericolo.
E sul quale ha preso per i fondelli gli elettori, definendolo per quello che non è, uno dei 23 mila dipendenti comunali, non la figura potente e sfuggente sul cui ruolo di vertice nella macchina del Campidoglio ha condotto un lunghissimo braccio di ferro con l’opinione pubblica e i suoi stessi compagni di partito.
Come se avessero arrestato l’usciere dell’anagrafe, insomma.
Un insulto per l’intelligenza di chiunque l’abbia ascoltata.
Eppure stupisce il coro di peana contro l’intervento di Beppe Grillo e dei suoi colonnelli. La macchina di Roma è affare complesso, che per il palcoscenico che rappresenta tiene dentro il sangue della politica nazionale e la merda di un carrozzone amministrativo tra i più complicati e paludosi d’Italia.
Non esiste sindaco a Roma che governi ignorando la forza politica che ha condotto una difficile battaglia per insediarlo, o che rimanga in sella dopo esserne stato sfiduciato.
È questo aspetto a legare l’esperienza di Ignazio Marino a quella della Raggi.
Due figure che, per motivi diversi, erano considerate corpi estranei alle proprie appartenenze politiche e che hanno provato a governare non con, ma malgrado i rispettivi partiti.
Marino, che dal punto di vista comunicativo ha fatto tutto quello che era in suo possesso per apparire quel che non era, ha rifiutato seccamente l’aiuto/imposizione del Partito democratico per tirarsi fuori dalle secche in cui si era impantanato.
Rifiutando quel commissariamento – anticorpo duro, spesso sguaiato, molte volte improduttivo, che ha la politica per mettere una toppa là dove sta crollando tutto, ma pur sempre anticorpo – è andato a sbattere.
Anche perchè i Dem hanno evidenziato una cultura della democrazia dell’alternanza talmente immatura e sfibrata che si sono rifiutati di lasciarlo andare per la sua strada, il cui termine sarebbe stato stabilito cinque anni dopo dai cittadini romani, per farlo cadere nottetempo in un salto nel vuoto autolesionista e senza senso.
La Raggi, dopo sei mesi di contorsioni senza senso, aveva avanti due possibilità .
Rifiutare l’intervento esterno e andare verso le dimissioni o la caduta; o accettarlo e provare ad andare avanti, iniziando a governare e a fare politica, mediando tra interessi contrapposti e contrastanti.
Chi oggi invoca la prima strada e si straccia le vesti per la seconda, dimostra la stessa sfilacciata idea della democrazia e dei partiti. Quella per la quale si governa la capitale del paese da soli, contro tutto e contro tutti.
Come se il sindaco sia un’entità comparsa improvvisamente dal nulla, senza appartenenze e legami, impegnato in una sorta di guerra dochisciottesca senza lieto fine.
In questa folle rincorsa al peggio, il vero problema non è il commissariamento. Sono i commissari.
A partire da Beppe Grillo, che ha costruito dinamiche di selezione di classe dirigente che vanno avanti per botte di fortuna: ti va bene e ti capita una Appendino, ti va male ed ecco la Raggi.
È lo stesso Grillo attraverso l’impostazione dell’intero Movimento 5 stelle ad aver permesso a una ragazza evidentemente non preparata e dal passato pieno di non detti di arrivare alla poltrona di primo cittadino.
È lo stesso Grillo ad aver investito una larga fetta del capitale politico 5 stelle su una persona inadeguata – come hanno mostrato i condizionamenti destrorsi che ha subito e la scelta dei più stretti collaboratori – provandole a mettere cappelli (mini Direttorio, remember?) e disfacendoli, senza minimamente progettare prima, con accortezza e con minuzia, quel che sarebbe stato poi.
Per tacer di Luigi Di Maio, la cui benedizione alla giunta per propri interessi personali (leggasi: premiership) ha prima sbattuto sulla cacciata di Minenna e Raineri, per poi asserragliarsi in un silenzio che della trasparenza invocata come un mantra dal vicepresidente della Camera ha ben poco.
Quello stesso Di Maio rimasto avviluppato – per non averle sapute districare – in una lunga corrida di invidie, faide e vendette interne che hanno origini lontane, a partire dal Meetup romano la cui balcanizzazione non è stata assorbita in nessun modo dai vertici nazionali, generando quel che è sotto gli occhi di tutti.
Senza che gli esponenti più in vista tra i 5 stelle romani abbiano dato segnali di lungimiranza e visione prospettica, lavandosene le mani (Alessandro Di Battista), o infilandosi in una sfibrante lotta di posizione per poi chiamarsene fuori e aspettare lungo la riva (Roberta Lombardi, Paola Taverna).
Il problema non è dunque che il livello nazionale – la compensazione, la mediazione della politica sull’amministrazione – si interessi di Roma.
Il commissariamento, insomma, che è sì certificazione di un fallimento ma anche, almeno tentativamente, segnale che si è in cerca di una via d’uscita.
Il problema è che invece che costituire gli albori di una soluzione al problema, i commissari sono paradossalmente più unfit del commissariato.
Portando il disastro dei giorni di Marino ad un livello ancora più alto di inadeguatezza.
Pietro Salvatori
(da “Huffingtonpost”)
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