Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
L’ANNUNCIO A GIORNI AL CONGRESSO A TRIESTE DI FDI
Daniela Santanchè da piu’ di venti anni ha un rapporto professionale con La Russa
(tra i suoi primi incarichi fu collaboratrice dell’ex ministro della Difesa) ma nel tempo ha stretto anche un legame stretto con Berlusconi anche se, secondo rumors di Transatlantico, potrebbe rimanere fuori dalle liste di Forza Italia alle Politiche.
Ieri il suo nome è finito sul tavolo dell’ufficio di presidenza di Fratelli d’Italia.
Fonti parlamentari di Fdi spiegano che il suo passaggio nel partito di Giorgia Meloni sia imminente e potrebbe essere ufficializzato durante il congresso che si terrà a Trieste nei primi giorni di dicembre.
“Sarebbe un ritorno alle origini”, spiega chi la conosce bene, “il suo mondo e’ quello li'”.
“La sua storia – dice La Russa – è di destra. Se viene con noi? Chi vivrà vedrà , di ufficiale non c’è nulla…”.
Fonti parlamentari riferiscono che il Cavaliere sia tornato in pressing per convincerla a non lasciare FI, ma l’approdo in Fdi viene dato per imminente.
Santanchè è stata deputata della Camera dal 2001 al 2008 eletta in An. Nel 2008 entrò nel partito ‘La Destra’ fondato da Storace, con il ruolo di portavoce nazionale e successivamente come candidato alla presidenza del Consiglio.
(da agenzie)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
NIENTE POLTRONA, ADDIO ALLA MAGGIORANZA… LA LEGA ACCUSA FRATELLI D’ITALIA: “UN ASSESSORE SPETTAVA A NOI”…EVVIVA LA DESTRA DELLA LEGALITA’ E DEGLI IDEALI
Malumori in casa Lega per il mancato ingresso nella giunta di Nello Musumeci.
Il partito di Salvini aveva chiesto un riconoscimento per il risultato elettorale, ma alla fine nel governo è entrato Sandro Pappalardo, esponente di Fratelli d’Italia, il partito della Meloni con cui Noi con Salvini aveva fatto lista comune alle regionali, superando lo sbarramento del 5%, che ha permesso l’elezione all’Assemblea del leghista Tony Rizzotto.
Vista l’esclusione dalla giunta, il parlamentare ha deciso di abbandonare il gruppo parlamentare e andrà ora al gruppo Misto.
Un passaggio non di poco conto visto che con Rizzotto la già risicata maggioranza di Musumeci poteva contare su 36 deputati su 70 e adesso diventano 35, ovvero esattamente la metà dei parlamentari presenti all’Ars.
A questo punto è prevedibile che il governatore potrebbe avere qualche problema di numeri quando si tratterà di approvare i primi provvedimenti.
«Faremo un’opposizione costruttiva, valutando di volta i volta i singoli provvedimenti proposti dal Governo», ha detto Angelo Attaguile, segretario nazionale del movimento Noi con Salvini e deputato del Carroccio.
«Fratelli d’Italia non ha rispettato i patti siglati durante la campagna elettorale. E’ un comportamento da vecchia politica inconciliabile con noi». Il riferimento è al cosiddetto “patto dell’arancino” siglato a Catania tra Berlusconi, Salvini, Meloni e Cesa.
Secondo la Lega il posto in giunta era un atto dovuto dopo l’esclusione del Carroccio dal listino di Musumeci, dove, invece, aveva trovato spazio il partito della Meloni. «
Ho sentito Salvini, ovviamente c’è molta amarezza – spiega – e concorda con la nostra decisione di non fare un gruppo unico con FdI, ma di andare al Misto».
*«Con Musumeci non ci siamo sentiti nelle ultime ore – conclude Attaguile – d’altra parte non avevamo nulla da dirci, gli accordi erano tutti già stati fatti».
(da “La Sicilia”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
L’ISOLA DIVENTA METAFORA DEL CENTRODESTRA A LIVELLLO NAZIONALE… IN GIUNTA ENTRANO UOMINI DI CUFFARO E LOMBARDO… COMANDANO I CAPIBASTONE, ALTRO CHE NUOVA PRIMAVERA SICILIANA
Ancora una volta la Sicilia diventa una metafora del centrodestra, a livello
nazionale. Divisi dopo la vittoria, come erano divisi prima della vittoria con Matteo e Silvio Berlusconi che evitarono anche un comizio assieme a Palermo.
Il nuovo capitolo dell’insofferenza di Salvini, cresciuta in questi giorni di protagonismo mediatico del Cavaliere, si materializza sulla giunta di Nello Musumeci, partorita ben ventritrè giorni dopo il trionfo elettorale con tanto di fanfare sul “modello Sicilia”: “Se hanno ritenuto — dice il leader della Lega a Circo Massimo su Radio Capital – di preferire per la giunta uomini di Lombardo e Cuffaro lasciando fuori noi, ci hanno fatto un favore. Si preferisce il vecchio rispetto al nuovo”.
Gli uomini in questione sono: Roberto Lagalla, già assessore alla Sanità dell’ultimo governo di Totò Cuffaro alla Sanità , che andrà alla Formazione professionale; Toto Cordaro, storico avvocato di Vasa vasa nel processo per concorso esterno, che ricoprirà l’incarico di assessore al Territorio; entrambi hanno rastrellato oltre ottomila preferenze.
Il terzo nome, legato a Raffaele Lombardo, è quello di Mariella Ippolito, presidentessa dell’ordine dei farmacisti di Caltanissetta, che ha ottenuto le deleghe — pesanti — al Lavoro e alla Famiglia.
Complessivamente una giunta di “capibastoncini” fatta col Cencelli, riconducibile al peso elettorale dei grandi capibastone Saverio Romano, Raffaele Lombardo, Gianfranco Miccichè.
Molto poco autonoma e del “presidente”: un inverno dei partiti che gela la “primavera siciliana” promessa da Musumeci in campagna elettorale.
Tornando a Salvini. L’unico parlamentare eletto con Lega, Toni Rizzotto, passerà al misto, rendendo ballerini i numeri, essendo il 36esimo deputato della maggioranza su 70.
Toni Rizzotto, bandiera della purezza sicula salviniana, è il classico riciclato. Dipendente del comune di Palermo, dopo una lunga gavetta nella Dc, transita nell’Udc di Totò Cuffaro, che poi molla quando il governatore viene travolto dalle inchieste.
Il nuovo taxi è l’Mpa di Raffaele Lombardo, con cui approda all’Ars come deputato regionale. Nel 2012 finisce anche in una polemica: Lombardo lo piazza alla presidenza di “Lavoro Sicilia”, ma poi è costretto a rimuoverlo per incompatibilità . E nomina, al suo posto, la compagna di Rizzotto.
Il quadro è questo. Per completarlo occorre ricordare le inchieste che hanno coinvolto Luigi Genovese, figlio di Francantonio, indagato per riciclaggio, e Paolo Savona, indagato per appropriazione indebita.
Episodi che fanno lievitare l’alto tasso di “impresentabilità ” nella neo eletta Ars.
E allora la mossa di Salvini, in questo film di poltrone, potere e propaganda racconta essenzialmente due cose.
La prima ha a che fare con la Sicilia dove era previsto, sulla carta, che la Lega avesse un assessore. E invece, spiegano, “Musumeci si è impuntato perchè con un solo parlamentare ha ritenuto che non ci fossero le condizioni e lo ha dato a Fratelli d’Italia che di parlamentari, tra eletti e listino, ne ha tre”.
L’altra ha a che fare col livello nazionale, perchè è evidente che il leader della Lega è insofferente rispetto al ritorno di Silvio Berlusconi e ha deciso di cavalcare, per dirla con gli azzurri, la tigre giustizialista e di fare della questione degli impresentabili un punto fermo della sua narrazione: la richiesta di sottoscrivere le liste e i patti dal notaio, la contrarietà agli sconti di pena sui reati di sangue (Forza Italia si è astenuta), e più in generale le critiche a Berlusconi sul centrodestra da bar dello sport.
Ecco che la Sicilia è l’ennesimo capitolo di questa storia che andrà avanti fino alle politiche, grazie all’ipocrisia di una legge elettorale che non obbliga a un vincolo politico, si chiami programma o leader comune, ma che rende conveniente far finta di stare insieme per poi spartirsi il bottino di nominati e collegi.
L’alleanza tra Lega e Forza Italia non è in discussione, perchè altrimenti diventerebbe incerto ciò che è sicuro, ovvero tutto il Nord, ma, come in Sicilia, i giochi sulle alleanze vere di governo si faranno il minuto dopo il voto.
Ad Arcore hanno maturato la convinzione che, in fondo in fondo, Salvini non voglia andare al governo con Berlusconi ma preferisca di gran lunga stare all’opposizione dell’inciucio.
Nella convinzione — o speranza – che la prossima legislatura durerà poco. Divisi appunto, nonostante spiri un vento favorevole.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
MATTARELLA PRENDERA’ ATTO DELLA VOLONTA’ DELLA MAGGIORANZA
L’approvazione del biotestamento e della manovra economica saranno gli ultimi atti della legislatura. Il sipario su questi 5 anni di governi vari e di incertezze calerà con la fine dell’anno.
Al Quirinale in questi mesi hanno approfondito la materia in ogni suo aspetto.
E ora, anche se tecnicamente la legislatura finisce a metà marzo, perchè fa fede la prima seduta di questo Parlamento eletto nel 2013, e quindi si potrebbe dunque andare al voto a maggio, per Capodanno o al più tardi per i primi del 2018 Sergio Mattarella si prepara a prendere atto della volontà della maggioranza delle forze politiche di tornare al voto. Al massimo entro il 18 marzo.
Matteo Renzi infatti non è il solo a spingere per il voto a marzo. Con lui c’è mezza opposizione: Lega e M5S in primis.
Complicato insomma tirarla per le lunghe. La legislatura è finita e al Quirinale si preparano a prenderne atto.
Tanto che, secondo lo schema che preparano al Colle, diversamente da quanto si prospettava un mese fa, potrebbe non essere necessario che il premier Paolo Gentiloni salga al Colle per compiere un passo formale di dimissioni dopo l’approvazione definitiva della manovra economica, prevista entro Natale o al massimo tra Natale e Capodanno (la legge arriva in aula a Montecitorio il 19 dicembre, ha stabilito oggi la conferenza dei capigruppo).
Mattarella stesso invece potrebbe trarre le sue conclusioni, alla luce del dibattito politico in corso. E il presidente si prepara a trasferire questi ragionamenti nei discorsi che ben presto pronuncerà come ogni anno a dicembre.
Quello per gli scambi di auguri alle alte cariche istituzionali e con gli ambasciatori e poi il tradizionale discorso di fine anno.
Un segnale inconfutabile sul voto a marzo sta nel fatto che quest’anno la manovra economica comprende il decreto milleproroghe.
Di solito, questo decreto viene approvato dal Parlamento a gennaio. Contiene un po’ tutte le richieste rimaste fuori dalla legge di bilancio, un fritto misto di contenuti a seconda dei desiderata dei partiti, che ricorre ogni anno come la strenna a Natale.
Ecco, quest’anno la legge di bilancio non lascerà ‘code’ da esaminare ad anno nuovo. Entro questa settimana verrà approvata dal Senato, poi il passaggio alla Camera e il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva prevista entro Natale.
Dalla prossima settimana Palazzo Madama potrà invece esaminare la legge sul biotestamento, su cui ormai si è creata una maggioranza trasversale. Sarà l’ok definitivo: il testo non necessita di un altro passaggio alla Camera. In più, sempre entro la metà di dicembre, il Senato dovrà approvare il regolamento e la legge sugli orfani di femminicidi.
Lo ius soli invece – ca va sans dire – è sparito dalle agende parlamentari.
Tutti i partiti – a partire da Matteo Renzi e il suo Pd, tranne quelli più a sinistra o le aree di ispirazione cattolica tra i dem – ne temono gli effetti alle urne, di fronte ad una società che sembra andare verso destra.
Ma in questa situazione lo ius soli sarebbe un terno al lotto anche per il governo, un tunnel di incertezze dal quale l’esecutivo potrebbe uscire sfiduciato: battuto al Senato, insomma.
E non sarebbe una bella figura per Gentiloni e la sua squadra, alla vigilia delle elezioni. Tanto più che il premier e i suoi ministri potranno essere costretti a rimanere in carica per gestire gli affari correnti se dalle elezioni con il Rosatellum non uscirà un vincitore unico e dunque si farà fatica a formare un governo.
Si potrebbe determinare una situazione di incertezza anche a lungo termine, come insegna il caso della Spagna, del Belgio e ora anche della Germania, con la Merkel a gestire gli affari correnti dalle elezioni di settembre: tre mesi senza una maggioranza per formare un nuovo governo.
Uno scenario di precarietà istituzionale che ritorna in qualsiasi sondaggio sulle politiche in Italia.
Un ultimo studio di Ixè per Rai Radiouno dà il centrodestra vincente sul centrosinistra e sul M5s sia alla Camera che al Senato, ma senza una maggioranza per formare un governo. Ipotesi più probabile: la Grande coalizione Pd-Forza Italia.
Comunque, la legislatura è agli sgoccioli: un mese di vita. Lo è sempre stata nei pensieri del segretario del Pd, ma ora lo è decisamente anche al Quirinale.
Dove, alla luce di un attento studio della questione, basato anche sui precedenti storici, sono stati fugati tutti i timori rispetto ad una fine anticipata della legislatura, seppure di pochi mesi. Fugati i timori anche rispetto a un Gentiloni dimissionario in campagna elettorale.
Nel momento in cui si vota, infatti, il governo sarebbe comunque dimissionario. Ma ciò non toglie che, se la situazione lo richiederà , dovrà occuparsi degli affari correnti, in attesa che si formi una maggioranza per un nuovo esecutivo, dopo che gli italiani si saranno espressi alle urne.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
STRETTA FINALE SULLE PARLAMENTARIE: GLI ELETTI PARTIRANNO ALLA PARI CON I VOLTI NUOVI
“Aspettiamo le regole per le candidature, sperando di non apprenderle dal blog.
Vorremmo essere informati per tempo”.
Un deputato M5s, quasi al termine del suo primo mandato, attende con ansia insieme a tanti altri parlamentari di conoscere le modalità di selezione, ovvero come si svolgeranno le cosiddette ‘parlamentarie’: chi potrà candidarsi, in quanti collegi e in quali.
Ciò che è certo è che il voto spetta agli iscritti al blog, come sempre, e sulla base di questo saranno formate le liste, con possibile deroga sulla doppia candidatura purchè sia nel collegio uninominale e nel listino proporzionale corrispondente.
A stretto giro, forse già a dicembre, si comincerà .
I deputati e i senatori navigano a vista, mentre i vertici pentastellati, Davide Casaleggio, Beppe Grillo e Luigi Di Maio, sono al lavoro da tempo con la massima attenzione.
Poi le regole verranno sottoposte al consiglio direttivo composto da Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri.
I rumors che arrivano in Transatlantico a Montecitorio dicono che si stia ragionando su possibili deroghe “rese necessarie”, viene spiegato, a causa della nuova legge elettorale che prevede una parte di eletti con il sistema proporzionale e una parte di eletti nei collegi.
La stella polare per i grillini è stata per molto tempo il “no” alle doppie, per qualche partito anche triple, candidature nelle varie circoscrizioni. Ma adesso, complice il Rosatellum bis, qualcosa è cambiato.
In pratica “il rischio — si ragiona negli uffici pentastellati — è di candidare un nome forte, forse un attuale parlamentare, in un collegio perchè è colui che può prendere più voti. Ma in tanti collegi siamo deboli, soprattutto al Nord, e non è giusto penalizzare il candidato che rischia di restare fuori dal Parlamento”.
Così prende sempre più quota l’ipotesi di consentire, sempre se i voti del blog lo permetteranno, la doppia candidatura. Sia nel collegio sia nel listino proporzionale corrispondente.
Deroga che renderebbe felici molti parlamentari già molto preoccupati dai volti nuovi con cui dover competere.
Infatti Casaleggio e Grillo sarebbero orientati a indire parlamentarie che non facciano alcuna distinzione tra deputati e senatori uscenti e neo candidati.
Si parte tutti dallo stesso punto. In questo modo, con ‘parlamentarie uguali per tutti’, nessuno è al sicuro. Deputati e senatori uscenti ragionano sul fatto che, nelle piccole province soprattutto, è sufficiente una manciata di voti sul portale per ritagliarsi un possibile posto in lista.
Altro punto fermo, ed è anche su questo che si sta ragionando, è la necessità di fissare dei paletti che riducano al minimo il rischio di “imbarcare di tutto”, frase pronunciata più volte dallo stesso Grillo quando ha voluto stigmatizzare i tanti cambi di casacca che hanno segnato la prima legislatura grillina.
Difficile che di regole si parli durante l’assemblea congiunta dei parlamentari perchè ad occuparsene ci pensano soltanto i vertici.
Si farà invece un programma sulla campagna elettorale, che in parallelo al “rally” di Luigi Di Maio prevede una campagna serrata nei collegi, con iniziative per battere il territorio palmo a palmo.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
L’ATTIVISTA FABIO FOCHI SI LAMENTA DELLE RIUNIONI SEGRETE E VIENE CACCIATO
«Non riconoscendo a questo gruppo segreto, nel quale sono stato inserito, alcuna legittimità a esistere, stasera non parteciperò alla riunione segreta e al vostro processo contro le persone che hanno ancora il coraggio di dissentire»: Fabio Fochi, un attivista del MoVimento 5 Stelle piemontese che era anche stato scelto come assessore in caso di vittoria dei grillini alle elezioni regionali, ha scritto un post per lamentarsi dei metodi che a suo parere usano i grillini il 10 novembre scorso nel gruppo “Attivisti e Attiviste” del Movimento 5 Stelle Torino, “Gruppo segreto — 285 membri”, che non compare nella ricerca Facebook.
È stato cacciato e ora racconta la sua storia a Repubblica Torino:
Fochi era un iscritto al gruppo segreto, fondatore dei “gruppi di lavoro” tematici: pari opportunità , lavoro, sanità . Ora non compare più da nessuna parte. Cancellato. Resta iscritto ma non saprà più dove vengono convocate le riunioni, quali decisioni saranno assunte dal “direttorio” del movimento torinese.
«I dissidenti vengono silenziati — denuncia ora a Repubblica — Vittime di un cyberbullismo che è diventato la prima arma utilizzata, con post che sono spesso collage di dichiarazioni prese da attivisti che osano avere un pensiero critico».
Dopo l’uscita con polemiche dal gruppo regionale del 5Stelle di Stefania Batzella (subito cancellata dalla foto di gruppo), Fochi racconta le perplessità crescenti per il metodo, la delusione per un progetto sacrificato alla costruzione di un «sistema di potere».
Parla di «cordate occulte» e di «sondaggi su alcuni attivisti», «liste di proscrizione, black list dei soci che non accettano di essere controllati, educati e allineati».
Ci sono “untori a 5Stelle” che operano sul web, «persone che ripubblicano quello che hai scritto esponendoti a condanne e attacchi che seguono la pubblicazione».
Se davvero all’origine di tutto c’è la vicenda di Stefania Batzella, Fochi non deve avere certo i riflessi pronti visto che si è accorto il 10 novembre di un’abitudine piuttosto consolidata nel M5S, che soffre di scarsa democrazia interna.
Fochi in quel post spiega le ragioni per cui ritiene che le riunioni segrete, aperte solo ad alcuni soci o eletti del M5s, non rispettino i principi di trasparenza, correttezza e democrazia del Movimento.
«Non potete fare processi, non potete espellere i soci che non vi aggradano, ma avete il dovere, anzi l’obbligo, di rispettare le regole… Voi signori avete il divieto di creare cordate, così come partecipare ad associazioni, forse “occulte”, finalizzate a scalare l’Associazione M5s, a concentrare poteri e poltrone nelle mani di pochi, a controllare la libertà di pensiero».
Gli iscritti al gruppo segreto sono circa 280. Anche se, da quanto racconta Fochi, alle riunioni arriva in genere un centinaio di persone: «Ci sono alcuni parlamentari, consiglieri regionali e comunali, ma non tutti, attivisti a cui sono state riconosciute le caratteristiche per essere inseriti nel gruppo ristretto».
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
NESSUNA COMUNITA’ PUO’ ESISTERE SENZA POSSEDERE TACITE REGOLE DI INTERAZIONE TRA MEMBRI… L’OCCIDENTE L’HA RIMOSSA COME DIMENSIONE COLLETTIVA, MA IL RISCHIO E’ CATASTROFICO
Il processo centrifugo cui stiamo assistendo in Europa, di cui Brexit e
indipendentismo catalano sono solo due esempi, pone un problema cruciale, che ci rifiutiamo sistematicamente di affrontare.
Si tratta del problema posto dal senso di un’identità collettiva.
Tra le parole che godono di peggiore stampa nella riflessione pubblica contemporanea vi è certamente il termine “identità ”. “Politiche identitarie”, “rigurgiti identitari”, “identitarismo” sono espressioni con una connotazione reazionaria, assimilate spesso a posizioni di estrema destra.
L’origine di quest’assimilazione sta nell’identitarismo nazionalista della prima metà del XX secolo
Demonizzare le degenerazioni identitarie del ‘900 non aiuta a comprendere il fenomeno.
I nazionalismi sciovinistici di fine ‘800, che condussero poi ai due conflitti mondiali, furono a loro volta parte di un processo di reazione ai nuovi fattori disgregativi messi in campo dal neonato sistema del libero commercio transnazionale (prima forma della globalizzazione economica).
Inquadrare storicamente il fenomeno non serve a giustificare quelle degenerazioni, ma a comprendere come le istanze identitarie non siano meri “errori”, ma esigenze profonde, problematiche ma impossibili da rimuovere.
Nessuna cultura storica ha osteggiato l’idea di un’identità collettiva più sistematicamente di quanto abbia fatto l’Occidente contemporaneo, dominato da un senso comune liberale, maturato all’ombra della trionfante economia di mercato.
In questa cornice culturale ciascun individuo è invitato, e robustamente incentivato, a “trovare la propria strada”, a “imporsi con le proprie forze” in una competizione con tutti gli altri, a inorgoglirsi per la propria irriducibile originalità , ecc.
Che a questi tratti di brioso e combattivo ottimismo si accompagnino lati oscuri, come il logorio di ogni legame interpersonale, l’elevatissimo tasso di incomunicabilità , l’estrema difficoltà a trovare “affini” (sul piano amicale quanto sentimentale), ecc. è tema demandato ai “travagli personali”, ai “problemi psicologici” da risolvere privatamente, con la propria coscienza o il proprio terapeuta.
Questa rimozione di ogni tensione identitaria è però un atteggiamento erroneo, e potenzialmente catastrofico.
Nessuna comunità o società è mai esistita, o può esistere, senza possedere tacite regole di interazione tra membri che si riconoscono reciprocamente come tali. Ritenere che le “Grandi Società ”, diversamente dalle piccole comunità , possano fare a meno di questa dimensione tacita, avendola sostituita con leggi e regole formali, è un’illusione.
Nessuna legge o regola funziona da sola, e nessun guardiano può sorvegliarne ovunque l’ottemperanza. Leggi e regole funzionano se implementate partecipativamente dai cittadini, e questi lo fanno tanto più, quanto più si sentono investiti di un’identità collettiva. In assenza di questa dimensione di adesione volontaria possiamo aggiungere regole su regole e divieti su divieti, senza regolare un bel nulla.
Un’identità collettiva è una forma d’esistenza idealmente in grado di sussistere autonomamente e di riprodursi intergenerazionalmente.
Essa è il correlato collettivo di un mondo possibile. Per ciascun individuo riferirsi a un’identità collettiva è l’unica cosa che, in una dimensione laica, permette di concepire i propri atti, valori, successi, retaggi e auspici come qualcosa che potrà avere una possibile continuazione al di là dei limiti della caducità individuale.
È quella dimensione che idealmente consente di preservare il proprio senso e i propri valori nel tempo, riproducendo pratiche e istituzioni che fanno esistere un gruppo sociale e il suo mondo.
Trattandosi di pratiche, tradizioni, valori e istituzioni che consentono ad un gruppo e al suo mondo di autoriprodursi, le identità collettive non possono basarsi su attività circoscritte, hobby, e simili: metallari o filatelici, interisti o vegani, non formano autentiche identità collettive.
Un’identità collettiva può sostenere “appartenenze multiple”, ma solo in forma di diversi livelli di comprensività : identità famigliare, comunitaria, urbana, regionale, nazionale, europea, ecc.
La rimozione costante, alimentata dalle spinte concorrenziali del sistema economico, di ogni identità collettiva tende a generare ciclicamente reazioni di rigetto.
Così, l’ordinamento liberale, e la sua ricetta di frammentazione sociale, prepara sempre il terreno per le proprie negazioni, dall’autoritarismo aggressivo dei nazionalismi del primo ‘900, all’odierno identitarismo islamico antioccidentale tra immigrati di seconda generazione, a localismi e regionalismi vari.
L’esigenza identitaria è tanto ineludibile quanto sensibile a degenerazioni.
In Italia le reazioni identitarie degli ultimi anni hanno preso strade non di rado patetiche.
Il “recupero delle radici” in forma regionalista o localista si è convertito spesso in iniziative di imbarazzante provincialismo, in un crescendo incestuoso di sagre del salume nativo, festival del poeta di cortile, mostre dell’imbrattatele indigeno, ecc. In molte aree d’Italia sembra ormai obbligatorio, perchè un prodotto culturale venga sponsorizzato, che glorifichi qualche prodotto caseario o letterario locale, spesso di essenza intercambiabile.
A monte di questa tendenza sta un fraintendimento dell’idea di “identità ” che viene concepita come qualcosa di statico e retrospettivo-nostalgico, dimenticando che ogni identità storica degna di memoria è stata caratterizzata sì dalla coltivazione di quanto ereditato, ma in vista dell’assimilazione e conquista del buono altrui.
Un’identità non si ha. Un’identità si diventa, alimentandola, difendendola, costruendola.
Un’identità collettiva è quel luogo ideale dove possono verificarsi la concordia circa ciò che è degno di memoria, l’unità in ciò che è degno di essere sperato, la collaborazione in ciò che può essere progettato.
Un’identità forte non ha bisogno di essere coercitiva, essendo intrinsecamente persuasiva.
Un’identità forte consente maggiore, non minore libertà di quella presente in società destrutturate, proprio perchè può contare di più sul controllo sociale e sulla condivisione di obiettivi.
Sono le identità fragili a tendere all’aggressività , dovendo costruirsi costantemente un nemico, in quanto senza opporsi ad esso non saprebbero di quali contenuti godere.
Un’identità collettiva non viene all’esistenza perchè è utile: non appartiene alla sfera dei mezzi, quanto piuttosto a quella dei fini, o delle condizioni per la loro esistenza. Essa non “serve” a qualcos’altro, non dipende da alcuna utilità estrinseca, ma si presenta come una dimensione naturale di ciò che conferisce e nutre valore.
Per quanto rischiose siano le sue derive, la dimensione dell’identità collettiva è un orizzonte che non può essere cancellato: può essere soltanto, o coltivato, o lasciato marcire — in quest’ultimo caso con esiti tossici.
(da “L’Espresso“)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
SI E’ RIDOTTA A OFFERTA POLITICA DA FAST FOOD, INCAPACE DI INDICARE UNA STRADA… IL PARERE DI REGISTI, SCRITTORI ED EDITORI
Sembra un incubo vissuto a occhi aperti. Una sequenza alla David Lynch.
Invece è la sinistra: quella in cui «Renzi è come un attore che entra in ritardo con la battuta» e i suoi antagonisti «sono dominati dai machiavellismi»; quella che «resta fuori dalla battaglia ideologica fondamentale di questi anni»; è pronta «a fare resistenza più che a fare innovazione», «incapace di dire una parola definitiva», preda del “battibecco” e della scissionite – morbo che ne ha falcidiati più della spagnola e della peste nera -, priva di una “nuova idea di sè”, orba dei leader così come di uno «spessore culturale sufficiente a sostenerli».
Così, disarmati e depressi, più imboscati che arrabbiati, magari attoniti come particelle di sodio, la raccontano alcuni uomini di cultura, scrittori, editori, registi, che guardano da varie latitudini al frullatore incomponibile di Pd, Mdp, Campi progressisti, Sinistre Italiane, Possibili, Teatri Brancacci e altri cespugli.
Un mondo che, da D’Alema a Fratoianni, da Renzi a Grasso e Boldrini, di lampante ha al momento soprattutto la crisi che lo avvolge, e nel quale l’elettore è preso in mezzo in stile sparatoria.
Come ebbe a dire Paolo Virzì già un anno fa: «La mucca è nel corridoio, altrochè: sta muggendo per disperazione, perchè nessuno si occupa di lei».
Oggi la mucca è l’elettore, quello di sempre: muggisce per disperazione, non sa dove guardare, medita persino disertare le urne come non sospettava avrebbe fatto mai.
«La sinistra è il campo di un grumo nevrotico, che gli anni di Renzi — con quel suo modo di considerare irrilevante il discorso degli altri – hanno alla fine persino esasperato», sospira il regista Roberto Andò, che fra l’altro ai drammi di un segretario di sinistra ha dedicato un film (“Viva la libertà ”, 2013) e oggi la vede altrettanto nera: «Ma è chiaro», aggiunge, «che, mancando una personalità che catalizzi il meglio, continuare a mettere avanti questo grumo come imprescindibile la condannerà allo scacco. Ora facciamo i conti con piccole vanità , mentre è tremendo veder come sia a rischio un intero patrimonio, una eredità ideale, una radice forte che a poco a poco svanisce».
Mimmo Calopresti è sperduto: «La sinistra si è persa: ha cominciato qualche anno fa, sta andando avanti fino alla dissoluzione. Una volta l’ipotesi non votare per le persone di cultura era una specie di tradimento: adesso non è più un’idea così aliena. Io stesso ogni tanto ci penso».
È il “paradosso dell’elettore di sinistra”, chiarisce lo scrittore Diego de Silva: «Dovrebbe essere il destinatario dell’attenzione dei politici, invece è quello che si trova preso in mezzo tra i fronti, come in un conflitto. È chiamato a metterci una pezza, porgere l’acqua, dividere i litiganti».
Stavolta va ancor peggio: «L’abbiamo già visto con l’astensione in Sicilia. Il pericolo maggiore è che scatti una totale sfiducia, con la gente voltata dall’altra parte, la politica che va per conto suo».
A prevalere, dice l’autore di “Terapia per amanti”, è il senso del “disarmante”: «Nessun pensiero lungo, offerta politica da street food, oscillazioni degne del gossip, incapacità di prendere una strada: la ricomposizione, la costruzione di una alleanza, oppure un taglio netto».
Pisapia, Bersani, Speranza, Fratoianni e gli altri, dice, «sono tutti iscritti alla corrente possibilista, quella in cui non sai bene dove sei, come nelle relazioni amorose in cui ti vedi una sera, passi un weekend insieme, poi boh. Non c’è parola definitiva, e così non si va avanti».
Cioè uno c’era riuscito: «Renzi. Ha avuto un pensiero forte. Ma era sbagliato», dice De Silva con comicità forse involontaria.
Matteo come Quelo, il personaggio inventato da Corrado Guzzanti: la risposta è dentro di te, ma è sbagliata. Molto della realtà di oggi sta nella satira degli anni passati. Come una retrotopia capovolta, una allucinazione.
«Renzi una volta ha detto che gli è mancato dare spessore culturale alle sue proposte politiche: era una critica giusta, contro la cultura di sinistra».
Così l’editore Giuseppe Laterza parla di un universo più che sbiadito: da rivoluzionare, da ricominciare. «La sinistra è in crisi soprattutto da questo punto di vista: manca l’attrezzatura intellettuale, che va rinnovata», dice.
Un esempio? «È assente dalla vera battaglia di questi anni, quella tra i cantori della globalizzazione, e i sovranisti populisti: la sinistra non c’è, non c’è proprio, largamente per motivi culturali: non è stata capace – e faccio autocritica – di elaborare una offerta seduttiva, di valorizzare alcune idee e trasformarle in senso comune».
Oggi manca una “cultura nuova”, “una nuova ideologia” , mentre «c’è quella vecchia, che però non funziona, se non a sprazzi».
Quindi non è vero che il Pd ha generato mostri, come ha detto Andrea Orlando alludendo a Pietro Grasso e Laura Boldrini, eletti alle massime cariche istituzionali per volere dem.
O meglio: i mostri, se ce ne sono, non hanno colpe.
«Il problema non è di Fratoianni, di Boldrini, e nemmeno di Renzi. Il problema è se loro non hanno alle spalle una costruzione forte. De Gasperi o Togliatti erano dei giganti, ma non erano certo soli: avevano pantheon, elaborazioni, culture, mondi», chiarisce Laterza.
Vale anche per i temi di bruciante attualità , come l’immigrazione: «La Lega dice il suo facile no, ma noi chi gli contrapponiamo, Papa Francesco? Per ragionare sull’accoglienza e i suoi limiti, sull’identità nazionale e fiducia — che sono temi complessi – serve una attrezzatura mentale condivisa che probabilmente non c’è: non si può ridurre tutto solo alla lotta tra la linea di Minniti e quella di Delrio, o alla scelta della soluzione in base ai voti che conquista».
Senza una visione, il risultato rischia di esser quello di «essere continuamente sconfitti».
È d’accordo Roberto Andò: «Gli antidoti sono anzitutto culturali, e Renzi qualche piccolo passo lo aveva fatto, sul fronte della cultura come su quello dei diritti civili. Ma come puoi, dopo, non tenere la barra dritta per difendere lo ius soli? È suicida lasciare che prevalga la logica dei sondaggi. Si perde il senso della realtà , non si guardano i grandi processi, e il gesto napoleonico non serve, non basta».
A parallelo del vuoto culturale, c’è l’incapacità a cogliere quel che si muove davvero nella società .
La pensa così il giornalista e scrittore Christian Raimo, che tenta di trovare un filo logico a ciò che sta accadendo alla sinistra-sinistra (vaste programme).
«Stiamo per andare al voto con i tre figli turpi del berlusconismo, Salvini, Renzi e Grillo, dopo anni di eccesso di leaderismo, in cui si sono distrutte tutte le strutture democratiche in nome dei partiti leggeri. Rendo merito a chi in questi anni ha fatto resistenza, ma è ovvio che è molto difficile ricostruire, tanto più in campagna elettorale», dice.
Però, rimarca, «esistono delle battaglie di sinistra, dei fiumi carsici – come il nuovo movimento delle donne – che sono novità forti», e nessuno le coglie: «Se io fossi leader di sinistra me lo intesterei anche in forma strumentale, ma succede poco». Invece di parlare di alleanze, «cercherei di intercettare un consenso parlando a tutti quelli che, ad esempio, sollevano il tema delle molestie: non lascerei alle Iene il monopolio della questione».
Eppure. Prevalgono «gli sforzi machiavellici a mettersi insieme, che non corrispondono peraltro a possibilità reali di dialogo», nota Andò.
Si tentano, nota Raimo, «processi a freddo che sono profondamente sbagliati» nella costruzione della leadership («Boldrini, chi l’ha eletta? E Grasso? Persino Di Maio è più democratico»), preludono a «meccanismi ingovernabili», e che comunque «non ridurranno di un punto l’astensionismo, anzi».
«Ma, non so perchè, nessuno lo capisce. Forse gli va bene così?». Forse. Anche Pier Luigi Bersani del resto parla di «un popolo di sinistra fuggito nei boschi”».
«Io sono ormai nell’aperta campagna, quella oltre i boschi», puntualizza Raimo. Lontanissimo da tutti. Ma tutt’altro che solo.
«Mi sento disperso, come una particella di sodio», dice Calopresti: «Non ho mai avuto paura di votare per realtà piccole. Va bene anche essere in pochi. Ma se penso che tra poco bisogna andare a votare, è da disperarsi. Oggi credo ci sia davanti a noi qualcosa di – francamente – incomprensibile».
(da “L’Espresso”)
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Novembre 29th, 2017 Riccardo Fucile
“UN TRAGICO ATTO DI DISCRIMINAZIONE VERSO I PROPRI CITTADINI” RICORDANDO DECENNI DI CACCIA ALLE STREGHE
È un giorno storico per la comunità Lgbt canadese. 
Con le lacrime agli occhi, il primo ministro Justin Trudeau ha chiesto scusa a nome dello Stato alle migliaia di funzionari pubblici, poliziotti e militari, licenziati o rimossi per decenni a causa del loro orientamento sessuale.
L’occasione è stato il termine di una causa collettiva avanzata da tremila vittime che ora vedranno riconoscersi un indennizzo per un massimo di 100 milioni di dollari canadesi (66 milioni di euro).
“Un’epurazione che è durata decenni e resterà per sempre un tragico atto di discriminazione da parte del governo verso i propri cittadini (…), Che hanno perso la dignità , le carriere o hanno visto i loro sogni e le loro vite spezzate”, ha detto Trudeau in Parlamento.
“È con vergogna, tristezza e profondo rammarico per le cose che abbiamo fatto – ha continuato – che oggi sono qui e dico: abbiamo sbagliato, ci scusiamo, mi dispiace, ci dispiace”.
IL PERIODO DELLE PURGHE
Dagli anni ’40 ai primi anni ’90, il governo canadese mise in atto una vera e propria caccia alle streghe che portò al licenziamento di migliaia di persone. I funzionari pubblici sospettati di essere omosessuali o trans erano messi sotto controllo e sottoposti a duri interrogatori. Le stime indicano circa 9mila persone perseguitate.
Secondo LgbtPurge.com, il sito ufficiale della class action, gli agenti della sicurezza nazionale consideravano i lavoratori appartenenti alla comunità Lgbt come una minaccia perchè si credeva avessero una tendenza a simpatizzare con i comunisti.
Un’altra teoria in voga al tempo era che i gay e le lesbiche fossero più suscettibili al ricatto degli agenti stranieri e quindi più inclini a diventare spie.
Per gli investigatori la sfida principale era riuscire a capire le reali inclinazioni sessuali dei sospettati. Per questo negli anni ’50 fu commissionata la creazione di un dispositivo in grado di provare “scientificamente” l’omosessualità .
Un professore della Carleton University realizzò una macchina che la Royal Canadian Mounted Police ribattezzò Fruit Machine, dove il termine ‘fruit’ non sta per ‘frutta’ ma, riferito a una persona, è un termine dispregiativo usato per indicare i gay.
Secondo questa procedura, il soggetto indagato veniva messo su una sedia simile a quella di un dentista e gli venivano mostrate immagini pornografiche.
Il macchinario, secondo quanto spiega il sito, doveva registrare la risposta sessuale attraverso parametri come la dilatazione delle pupille, la sudorazione e le pulsazioni.
FINO AL 1992
Sebbene il Canada abbia depenalizzato gli atti omosessuali sin dal 1969, il programma continuò fino al 1992 rovinando decine di migliaia di vite, punendo le vittime anche con la reclusione e l’accusa di “grave indecenza e abuso fisico”.
IL CANADA DI OGGI
Una pagina nera della storia di un Paese che oggi invece è tra i più avanti nell’affermazione dei diritti Lgbt. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso venne legalizzato nei vari dipartimenti tra il 2003 e il 2005, facendo della nazione il primo paese americano e il quarto al mondo a concedere questa possibilità ai propri cittadini.
Proprio l’anno scorso Trudeau partecipò al Pride di Toronto: è stato il primo capo di governo a scendere a sfilare con le bandiere arcobaleno.
Parlando alla Camera dei Comuni il premier canadese ha detto che “il governo ha esercitato la sua autorità in modo crudele e ingiusto”. Il gruppo per i diritti degli omosessuali ha definito le scuse come “estremamente sentite e significative”.
Inoltre è di pochi giorni fa la proposta del governo di una legislazione che consentirà di cancellare in modo permanente i casellari giudiziari di coloro che sono stati condannati in passato per attività sessuale con partner dello stesso sesso.
(da agenzie)
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