Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
IL LEGHISTA STREPITA SOLO PER FAR SAPERE CHE E’ ANCORA VIVO, MA ORMAI I GIOCHI CENTRISTI SONO FATTI E DOVRA’ SOPPORTARE PURE TOSI
A leggerla così, tutto d’un fiato, la dichiarazione di Salvini sembrerebbe davvero ultimativa. Sembrerebbe. U
na specie di game over sul film andato in scena negli ultimi giorni, complice l’assenza della grande politica dal palinsesto, ovvero la cosiddetta “quarta gamba” del centrodestra. In mattinata, in un’intervista a Repubblica, aveva sciorinato un repertorio altrettanto ultimativo su “poltronari”, “autoriciclati”, “presunti responsabili che in questi anni hanno votato la fiducia ai governi di centrosinistra”.
In verità , non solo non c’è nessun game over, ma siamo solo all’inizio di una lunga trattativa su liste, assetti e, perchè no, poltrone, fatta di posizionamenti, asticelle negoziali poste in alto, minacce di rottura.
Per orientarsi in questa “trattativa” occorre tener presenti due questioni.
Una di carattere politico generale, che spiega i toni sempre un po’ sopra le righe del leader della Lega su tutto. E riguarda l’esigenza (di Salvini) di non adeguarsi e appiattirsi sullo schema — e sulla narrazione — berlusconiani, di un centrodestra uguale, nell’assetto, nella leadership e nelle parole d’ordine a quello degli ultimi vent’anni. Insomma, Berlusconi-centrico.
Assetto, parole d’ordine e rinnovato protagonismo del Cavaliere che hanno già prodotto effetti nei sondaggi con Forza Italia stabilmente sopra il 16 e stabilmente primo partito nel centrodestra.
L’altra esigenza ha a che fare con la “sostenibilità “, da parte di Salvini, dell’operazione quarta gamba, da sempre mal digerita perchè, detta in modo un tranchant, rischia di togliere posti nei collegi e anche spazio politico alla Lega (vai alla voce: sud).
La verità è che il veto non riguarda la “quarta gamba” tout court, ma alcuni dei suoi protagonisti. Uno su tutti: Flavio Tosi.
Fonti leghiste assolutamente affidabili spiegano che il nome dell’ex sindaco di Verona ha su Salvini l’effetto che un manto rosso produce su un toro: “Solo su quello si rischia la rottura vera”.
I motivi sono fin troppo evidenti: Tosi, che sulla sua candidatura alle regionali consumò il suo strappo con la Lega, andrebbe a togliere consenso al Carroccio e ai suoi candidati nella regione dove — è una certezza più che una probabilità — Salvini farà il pieno degli eletti.
Sugli altri la questione è più complessa.
Problematica da accettare anche la candidatura di Enrico Zanetti, che è stato a lungo nel governo Renzi, anche se non al punto da provocare rotture drammatiche.
Già accettato invece il nome di Maurizio Lupi, il cui sostegno al governo Letta prima e Renzi poi, di cui ha fatto parte fino alla vicenda del rolex al figlio, è caduto nell’oblio in virtù di una solida collaborazione in regione Lombardia, dove Lega e Cl gestiscono da anni governo, potere e “poltrone”.
Ecco, c’è “riciclato” e “riciclato” nella bilancia leghista con tanti pesi e tante misure. Dice una fonte alta vicina a Berlusconi: “Il punto è molto semplice. Salvini, nel dire che ha solo due interlocutori, ovvero la Meloni e Berlusconi, vuole scaricare il costo dell’operazione sugli altri e non pagare in termini di collegi. Dice: se li volete, date posti vostri, caricateveli voi”.
E qui il ragionamento (e la trattativa) incrocia la manovra centrista.
Silvio Berlusconi ha dato la sua benedizione a fondere le forze in un unico contenitore, dove staranno assieme l’Udc di Lorenzo Cesa (lo scudo crociato da solo vale mezzo punto in percentuale) e “Noi con l’Italia” di Fitto e Lupi.
Al momento dalla lista restano fuori Sgarbi e Parisi, due che peraltro non creano alcun problema a Salvini.
L’obiettivo della fusione è provare raggiungere il tre per cento al proporzionale. Ed è proprio sul proporzionale che ognuno potrà mettere chi vuole, senza veti.
A partire da Tosi, il cui problema è stato già affrontato e che sarà candidato (nel proporzionale appunto) lontano dalla Padania.
Ecco: è solo una trattativa. Ed è solo all’inizio.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
I GIORNALISTI PARAGONE E CARELLI, L’ANTIBANCHE LANNUTTI, L’ESPERTO DELLA FARNESINA MONTANARI
La svolta post movimentista, l’apertura alla cosiddetta società civile, per ora ha il volto di
Gianluigi Paragone ed Emilio Carelli.
Due giornalisti ai quali sono state aperte le porte del blog, pur non essendo iscritti, per presentare la propria candidatura alle parlamentarie che serviranno a scegliere i candidati alle elezioni politiche del 2018.
Insieme a loro, tra i volti nuovi, in Emilia Romagna, c’è quello di Marco Montanari, osservatore per l’Ocse e l’Unione Europea, consulente della Farnesina, capo delegazione di missioni in Georgia e in Afghanistan, e attualmente consigliere politico della missione Ue in Niger.
E poi ancora, da tempo dichiaratamente vicini ai pentastellati, nella corsa verso la Camera e il Senato ci sono Elio Lannutti, già parlamentare con Italia dei Valori nella sedicesima legislatura, e l’attrice Claudia Federica Petrella, attivista da qualche anno.
Paragone, giornalista televisivo, è stato il primo a intervistare Luigi Di Maio appena incoronato capo politico e candidato premier durante la kermesse di Italia 5 Stelle a Rimini.
Il suo nome, come candidato circola ormai da più parti, e lui su Facebook ci gira intorno, non conferma e non smentisce: “Se sono rose fioriranno, se son stelle brilleranno”.
Un giro di parole che lascia capire che è in gara. Anche se di gara, in questo caso, non si può parlare perchè i nomi dei cosiddetti candidati civici potrebbero non partecipare alle parlamentarie, ma una volta data la disponibilità , a discrezione del capo politico, dovrebbero coprire un collegio uninominale.
Ma non è escluso che qualcuno di loro partecipi anche alla selezione per il listino bloccato. In campo c’è anche l’ex direttore di Sky Emilio Carelli e volto noto della tv, corteggiato dai 5Stelle ha dato in queste ore il via libera alla sua candidatura.
Discorso a parte poi per Elio Lannutti, da tempo vicino al mondo pentastellato, in prima linea nelle battaglie degli ultimi anni, in particolare quelle sulle banche, amico di Beppe Grillo e spesso nei corridoi della Camera dove può entrare poichè è ex parlamentare di Italia dei Valori.
Si è candidato, non solo alle elezioni del 2001, ma anche a quelle del 2008 quando è stato eletto senatore.
Il nuovo regolamento M5s dice che il candidato “non dovrà aver mai partecipato a elezioni di qualsiasi livello, nè aver svolto un mandato elettorale o ricoperto ruoli di amministratore e/o di giunta o governo, con forze politiche diverse da M5s a far data dal 4 ottobre 2009”. Formalmente Lannutti è stato candidato l’ultima volta nel 2008 e il nuovo regolamento grillino sembrerebbe essere fatto proprio per lui.
Facendo leva sulla dicitura “a far data”, dunque “a partire da”, l’ex senatore Idv dovrebbe riuscire a candidarsi poichè il suo mandato è iniziato nel 2008, anche se è durato fino a marzo 2013. Comunque i vertici, di fatto, possono decidere autonomamente chi candidare nei collegi uninomali. Infine c’è Claudia Federica Petrella, attrice di teatro.
Questi sono per adesso i nomi che circolano, quelli che arrivano dalla società civile e in quanto volti nuovi dovrebbero essere i portatori di voti nei collegi insieme ai big pentastellati, tra cui Luigi Di Maio.
I vertici però vorrebbero tenere ancora le carte coperte. Scaduto il tempo per presentare la candidatura, alla fine è stata fatta una corsa contro il tempo e contro un sistema in tilt tra le proteste degli attivisti, Di Maio, Davide Casaleggio e Beppe Grillo passeranno alla scrematura dei nomi poichè è a loro che spetta l’ultima parola sull’ammissibilità o meno dei candidati.
Per conoscere i numeri e soprattutto i nomi bisognerà aspettare due settimane, cioè il momento delle parlamentarie, solo allora saranno resi noti i concorrenti che potrebbero essere anche diecimila.
Nel frattempo i vertici cercheranno altri nomi della società civile da piazzare nei collegi. Fino a quando non saranno ultimate tutte queste operazioni resterà tutto in stand-by.
(da “Huffingtompost”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
L’ULTIMA TAPPA DI UN VIAGGIO TRA TUTTI I PARTITI DEL CENTRODESTRA, DOPO FORZA ITALIA E FRATELLI D’ITALIA… UN SINDACATO TRAVOLTO DALLO SCANDALO CENTRELLA CHE SOTTRASSE 500.000 EURO
Prima la stagione che ha strizzato l’occhio a Forza Italia, con Renata Polverini alla guida.
Poi quella nazionalista a fianco di Giorgia Meloni e ora l’accordo con la Lega di Matteo Salvini.
È la parabola dell’Ugl, il sindacato da sempre vicino alla destra, che negli ultimi dodici anni ha toccato tutte e tre le anime di quel mondo.
Meglio, le tre gambe per usare un’espressione in voga nel centrodestra che si prepara al voto del 4 marzo. A ufficializzare l’ultima metamorfosi del sindacato è stato lo stesso segretario del Carroccio: “Abbiamo fatto un vertice con il sindacato Ugl con cui abbiamo confermato un accordo di reciproca lunga e proficua collaborazione sia in Italia che all’estero”.
L’apparentamento con un sindacato è una novità per la Lega e viceversa.
Il matrimonio tra un sindacato e il partito sovranista quanto frutterà al Carroccio in termini di voti? Una radiografia del sindacato, con i relativi numeri, è indicativa in tal senso.
L’Ugl è un sindacato radicato principalmente al Sud. A inizio 2015, secondo una rilevazione effettuata dall’Inps, contava circa 1 milione e 900mila iscritti. Numeri lontani dai sindacati confederali (la Cgil, sempre tre anni fa, dichiarava 5 milioni e mezzo di tesserati, la Cisl poco meno di 4,3 milioni e la Uil 2,2 milioni), ma soprattutto molto distanti da quelli dell’era Polverini.
Quest’ultima, tra il 2006 e il 2010, è stata la stagione d’oro a livello di riconoscimento “politico”. Il sindacato guidato da Polverini, infatti, era sempre invitato da palazzo Chigi ai tavoli più caldi.
E non a caso l’Ugl ha raggiunto il suo picco, in termini di peso, con la firma al piano Colaninno per salvare Alitalia e la riforma del modello contrattuale voluta da Confindustria.
Stagione che però è finita tra le polemiche per lo scandalo delle tessere gonfiate.
Nel gennaio 2010, i quotidiani Europa e Libero svelano l’arcano: il sindacato ha gonfiato il numero di iscritti per avere un peso maggiore ai tavoli con le altre sigle.
In un’intervista al Riformista, Polverini dichiarò che l’Ugl non si era comportata in modo diverso rispetto agli altri sindacati. Il caso finì anche in Parlamento, con un’interrogazione presentata dal Pd all’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi.
Chiusa la stagione Polverini, in casa Ugl inizia il mandato di Giovanni Centrella, che guiderà il sindacato dal 2010 al luglio del 2014.
Eccezion fatta per la vertenza Fiat (mondo da cui proviene essendo stato operaio nello stabilimento di Pratola Serra), l’Ugl non è più sugli scudi.
L’era Centrella si chiude con uno scandalo interno: la Guardia di Finanza entra nella sede del sindacato, a Roma, e perquisisce gli uffici del segretario e della coordinatrice della segreteria generale Laura De Rosa.
L’accusa è pesantissima: associazione a delinquere finalizzata all’appropriazione indebita aggravata dei fondi del sindacato.
Secondo la procura di Roma, Centrella, la moglie e De Rosa avrebbero sottratto 500mila euro al sindacato attraverso prelievi di contanti, ricariche di carte di credito e bonifici sui conti della coppia. Soldi spesi, sempre secondo l’accusa, per acquistare abiti firmati, borse, gioielli e orologi di marca.
Archiviato il mandato di Centrella all’Ugl arriva prima Geremia Mancini (dal luglio 2014 all’ottobre 2014) e poi Francesco Paolo Capone, tutt’ora in carica.
Sono anni in cui il sindacato si avvicina a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Nel 2017 l’ultimo passaggio: a dicembre il segretario dell’Ugl partecipa alla giornata contro lo ius soli organizzata dalla Lega a piazza Santi Apostoli, a Roma.
Oggi arriva l’accordo annunciato da Salvini, ultima tappa del viaggio dell’Ugl tra le anime dell centrodestra.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
SOLO ITALIA E FRANCIA HANNO BANDITO QUELLI NON BIODEGRADABILI, LA DIRETTIVA COMUNITARIA DICEVA ALTRO… FESTEGGIA IL LEADER ITALIANO DELLA PRODUZIONE DI POLIMERI, LA NOVAMONT GUIDATA DA CATIA BASTIOLI
Il divieto è scattato al grido di “Ce lo chiede l’Europa”. 
Ma Bruxelles, a ben guardare, non c’entra nulla con il diktat che dall’1 gennaio impone ai consumatori italiani che acquistano frutta e verdura di confezionarle in sacchettini di plastica biodegradabile e compostabile rigorosamente usa e getta e a pagamento.
E’ stato il governo Gentiloni, con un emendamento infilato la scorsa estate nel Dl Mezzogiorno durante il passaggio al Senato, a imporre un diktat che la direttiva comunitaria del 2015 non prevedeva affatto.
Il testo europeo, infatti, si focalizzava soprattutto sulle borse in plastica per insacchettare la spesa (quelle che in Italia sono state messe fuori legge già dal 2012) e precisava esplicitamente la possibilità di escludere dalle misure le bustine trasparenti per frutta e verdura.
Tanto che solo la Francia ha imboccato la stessa strada dell’Italia, mentre la maggior parte degli stati membri si è limitato alle buste per la spesa in plastica tradizionale, mettendole a pagamento.
Risultato: mentre i benefici ambientali del provvedimento italiano rimangono da verificare, a guadagnarci sarà chi produce polimeri a base vegetale e sacchettini in bioplastica.
A partire dal leader italiano del comparto, la piemontese Novamont guidata da Catia Bastioli, che ha inventato la bioplastica biodegradabile e compostabile Mater-bi.
Bastioli nel 2011 ha partecipato alla Leopolda e nell’aprile 2014, due mesi dopo l’insediamento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, è stata da lui nominata presidente della partecipata pubblica Terna. A metà novembre 2017, poi, il segretario Pd durante il suo tour in treno ha visitato l’azienda e incontrato a porte chiuse i vertici
Un mercato ghiotto
Secondo le prime stime della società di consulenza specializzata Plastic Consult, il mercato dei sacchettini per l’ortofrutta in bioplastica potrebbe valere in Italia circa 100 milioni di euro all’anno, per un volume di circa 25mila tonnellate. Un mercato ghiotto.
E nei giorni scorsi Il Giornale ha sottolineato come la novità legislativa “farà ricco” il gruppo della chimica verde Novamont, maggiore produttore italiano di biopolimeri e tra i leader mondiali del settore.
“Ma non è così. Oggi sul mercato ci sono dieci diverse aziende chimiche attive a livello mondiale”, dice a ilfattoquotidiano.it Stefano Ciafani direttore generale di Legambiente e tra i maggiori sostenitori della legge.
Novamont è da anni partner dell’associazione, che comunque assicura “coerenza e libertà ”. Se è vero che Novamont non è l’unico produttore di bioplastica, certo è che la misura farà lievitare il giro d’affari di queste aziende.
E proprio il gruppo con sede a Novara si è mosso in anticipo commissionando a Ipsos, lo scorso ottobre, un sondaggio da cui è emerso che il 71% degli intervistati ipotizzava un esborso economico per i sacchetti e il 59% valutava il costo di 2 centesimi per sacchetto del tutto accettabile.
Dati frutto dell’ampia attenzione sul fronte delle plastiche a base vegetale registrata negli ultimi anni in Italia e in Francia?
Nessun obbligo nella direttiva
L’Italia è stato il primo Paese europeo a mettere al bando i sacchetti in plastica per la spesa a partire dal 2012.
Un divieto che da una parte non ha dato i frutti sperati (secondo Assobioplastiche il 60% dei sacchetti è ancora irregolare) e dall’altra è costato all’Italia anche una procedura di infrazione europea, poi chiusa e sfociata in una direttiva che chiede invece a tutti gli stati membri maggiore sensibilità sul problema dell’uso troppo massiccio di sacchetti di plastica.
La direttiva europea prevede azioni per diminuire queste quantità , ma lasciando libertà di movimento.
Si propone di darsi degli obiettivi di riduzione o, in alternativa, di far ricorso alla leva economica: le buste a pagamento da parte dei consumatori, insomma, sono una delle possibilità , non un requisito inviolabile.
Non solo: Bruxelles precisa anche che “gli stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron («borse di plastica in materiale ultraleggero») fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi”. La decisione di sottoporli a restrizioni, dunque, è tutta dei governi nazionali.
Lo stop ai sacchettini tradizionali solo in Italia e Francia
La Francia è l’unico altro Paese europeo dove, al pari dell’Italia, le buste in plastica per la spesa sono vietate dal 2016 e i sacchettini trasparenti per l’ortofrutta sono stati banditi dal 2017.
Nel resto dell’Europa la soluzione più diffusa è un costo fisso delle buste: i negozianti non possono più dare ai clienti sacchetti in plastica gratuiti nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna, Croazia, Svezia, mentre in base ai dati della Commissione europea sul recepimento della normativa — i cui termini sono scaduti a novembre 2016 — Germania, Danimarca, Austria, Grecia e Finlandia mancano ancora all’appello.
E se in Italia, secondo Legambiente, nonostante la carenza dei controlli e un divieto applicato solo a metà l’uso di buste della spesa si è dimezzato in favore di borse riutilizzabili, al momento sull’uso di queste ultime per l’ortofrutta rimane una certa confusione: escluso dal ministero dell’Ambiente per motivi igienico-sanitari e ammesso da quello dello Sviluppo economico. Si attende ora il pronunciamento del ministero della Salute.
Un tema su cui le maggiori associazioni ambientaliste non si sono finora nemmeno espresse.
Il direttore generale di Legambiente però assicura: “Se si riesce a modificare la normativa sanitaria per consentire l’uso di sacchetti riutilizzabili anche per frutta e verdura, è una misura che va promossa e praticata come già avviene per le buste della spesa. Bisogna fare un’azione di pressing sul ministero della Salute”.
Sarebbe l’unica misura in grado di disincentivare davvero la produzione di imballaggi.
In una lettera indirizzata dal ministero dell’Ambiente ai responsabili delle principali insegne di supermercati, si legge che l’obbligo di pagamento è stato introdotto con l’obiettivo di “avviare una progressiva riduzione della commercializzazione delle borse in plastica ultraleggere più inquinanti”.
Ma senza alternative, il costo da pagare in più, anche se limitato (il Mise ha autorizzato i supermercati anche a vendere i sacchettini sottocosto) rimane di fatto una nuova tassa.
Effetti sul mare ancora poco chiari
Ancora da approfondire rimangono gli aspetti ambientali della questione. Più evidenti quelli legati alla sostituzione del petrolio con materia prima vegetale, anche se solo parziale: i sacchettini in bioplastica, infatti, secondo la legge italiana, devono già contenere il 40% di materia prima rinnovabile dal 2018 e la quota dovrà essere portata al 50% dal 2020 e al 60% dal 2021.
Più dibattuto il tema degli impatti della bioplastica sull’ambiente marino. Legambiente sollecita da tempo la messa al bando delle borse in plastica tradizionali in tutto il bacino del Mediterraneo per la salvaguardia del mare e la stessa Novamont, in una conferenza delle Nazioni Unite a dicembre 2017 ha presentato i suoi test di biodegradabilità delle bioplastiche in acqua marina: “Alti livelli di biodegradazione sono stati raggiunti in tempi relativamente brevi (meno di 1 anno), suggerendo che il Mater-Bi può essere adatto alla realizzazione di oggetti in plastica con alto rischio di dispersione in mare (ad esempio, attrezzi da pesca)”, ha annunciato l’azienda.
Ma ci sono studi scientifici che sono più critici sulle buste biodegradabili e consigliano maggiori approfondimenti. “I potenziali effetti delle borse biodegradabili sulle praterie dei fondali sabbiosi, che rappresentano gli ecosistemi più comuni e produttivi nelle zone costiere, sono stati ignorati”, si legge nella ricerca pubblicata da un gruppo di studiosi dell’università di Pisa a luglio 2017 sulla rivista “Science of the Total Environment”. Il tema, spiega ancora l’articolo degli scienziati pisani guidati da Elena Balestri, richiede maggiore attenzione, perchè questi sacchetti “non sono velocemente degradabili nei sedimenti marini” e possono alterare la vita sul fondale.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
I NEET SONO 2,3 MILIONI, PIU’ DI QUANDO E’ PARTITO IL PIANO DI INSERIMENTO LAVORATIVO DEL GOVERNO
Quasi 150mila giovani inattivi in più nonostante gli 1,5 miliardi di fondi messi a disposizione dall’Unione europea negli ultimi quattro anni per finanziare Garanzia giovani, il piano che avrebbe dovuto favorirne l’ingresso nel mercato del lavoro. Programma che lo scorso luglio è stato rilanciato mettendo sul piatto altri 1,3 miliardi da spendere di qui al 2020.
Poco importa se, al netto degli annunci sessisti (“cercasi impiegata di bella presenza”) sul portale ufficiale e delle lungaggini burocratiche per ottenere pagamenti e attestati di partecipazione, i risultati non si vedono affatto.
Anzi: gli ultimi dati Istat, come rilevato dal presidente della fondazione Adapt Francesco Seghezzi, mostrano che tra il secondo e il terzo trimestre 2017 i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono alcun percorso formativo sono aumentati di ben 205mila unità , toccando quota 2,3 milioni.
Sono il 25,5% degli italiani in quella fascia di età , contro una media Ue del 14,2%. Paradossalmente erano di meno (2,29 milioni) nel maggio 2014, quando il ministero del Lavoro attraverso l’Agenzia nazionale delle politiche attive ha avviato la sperimentazione di Garanzia giovani.
I soli ragazzi inattivi — quelli che non hanno un lavoro e non lo cercano — sono passati in questi tre anni e mezzo da 1,29 a 1,44 milioni.
Secondo l’agenzia Ue Eurofound, il costo sociale dei Neet per l’Italia è di oltre 35 miliardi tra mancati guadagni, gettito fiscale perso e trasferimenti monetari.
Dopo lo stage solo il 27% viene assunto
Il fatto è che, come rivela l’ultimo rapporto della stessa Anpal, meno della metà (47,9%) degli 1,1 milioni di giovani italiani che si sono registrati al programma sono stati oggetto di un intervento di “politica attiva”, cioè quelli mirati a un inserimento nel mercato del lavoro.
Tra questi fortunati, poi, più del 70% si è visto offrire dal centro per l’impiego — o più spesso (nell’80% dei casi) dall’agenzia per il lavoro privata che l’ha preso in carico, da Adecco a Manpower a Randstad e Umana — un tirocinio.
Uno stage in azienda della durata di pochi mesi, dunque, retribuito con un massimo di 500 euro al mese.
E con poche prospettive di trasformazione in un contratto: il tasso di inserimento occupazionale dopo il tirocinio si fermava, lo scorso giugno, al 26,7%. Anche da qui, secondo Seghezzi, deriva l’aumento dei Neet registrato da Istat nel semestre successivo. “Non essendoci stato un baby boom nella classe 1998 o nella classe 1993, che sono quelli che escono dalla secondaria o si laureano quest’anno, non mi do molte altre spiegazioni per un aumento di 200mila unità ”, spiega. Solo il 15% delle azioni di politica attiva, attesta il rapporto, si è tradotto in un’assunzione con il bonus occupazionale, cioè l’incentivo alle assunzioni a tempo determinato e indeterminato, che nell’ambito di Garanzia giovani sono agevolate con bonus pari rispettivamente al 100% e al 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro fino a un massimo di 8.060 euro l’anno.
A un anno dalla fine del programma la percentuale di occupati crolla
Nel complesso, sui 376.178 ragazzi che al 30 giugno 2017 avevano concluso un percorso con Garanzia giovani meno del 46% risultava occupato.
Non solo: i dati raccolti dalla direzione generale Occupazione della Commissione Ue mostrano che, diversamente da quanto avviene nel resto d’Europa, la percentuale tende a calare notevolmente con il passare dei mesi.
A fine 2016 la quota di giovani che affermavano di trovarsi una “situazione positiva” era del 70% sei mesi dopo l’uscita dal programma, ma inferiore al 40% dodici e diciotto mesi dopo.
“Probabilmente dipende dal fatto che i risultati positivi che si registrano dopo sei mesi includono persone che stanno ancora partecipando all’offerta accettata alla fine del programma”, si legge in un rapporto del febbraio 2017. A questo nei rapporti Anpal non si fa cenno.
Quanto al fondo Selfiemployment, nato nel marzo 2016 per concedere finanziamenti agevolati per l’avvio di iniziative “di autoimpiego e autoimprenditorialità “, sui 113 milioni a disposizione solo 12,4 sono stati impegnati. Solo 378 le domande accolte, sulle oltre 1.500 presentate.
“Offerte di lavoro mascherate da stage”
L’altro problema è che i tirocini offerti, secondo i ragazzi iscritti al programma, sono spesso lavori a bassa specializzazione “mascherati” da stage. Sulle pagine Facebook attivate dalle Regioni, che sono gli enti responsabili di tradurre in pratica il piano nazionale facendo da raccordo con i Centri per l’impiego, si trova di tutto.
Nella stragrande maggioranza dei casi l’offerta è per corsi di formazione gratuiti e, ovviamente, tirocini (anche in altri Paesi europei).
In Sicilia vanno fortissimo i “corsi di europrogettazione“, ovvero la formazione necessaria per scrivere e presentare progetti europei, in Campania ce ne sono per acconciatori, barman e addetti alla logistica, in Toscana per “operatore agricolo“, addetto al giardinaggio e sarto. In Veneto si va da quello per chi vuol fare il graphic designer al percorso per aspirante banconiere di prodotti alimentari freschi: 80 ore di formazione e 320 di stage.
Poche le offerte di un contratto a tempo determinato. In compenso ci sono agenzie per il lavoro che cercano — sempre “per tirocinio” — baristi, camerieri, commessi, venditori di auto, addetti a officine meccaniche.
“Offerte di lavoro mascherate da stage”, secondo il giuslavorista Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi internazionali e comparati Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del comitato scientifico di Adapt. Che via Twitter ha chiesto al ministro del lavoro Giuliano Poletti di eliminarle dal portale pubblico Garanzia giovani, insieme a quelle velatamente o esplicitamente sessiste in cui gli autori citano tra i requisiti la “bella presenza” o restringono senza motivo l’annuncio alle candidate donne.
Mesi per essere pagati. E in Calabria spunta pure la parentopoli
Ciliegina sulla torta, come già raccontato da ilfattoquotidiano.it, le lunghissime attese prima di ricevere il compenso per i tirocini.
A erogare l’indennità mensile di 400-500 euro è l’Inps, ma i fondi arrivano dalle singole regioni o province autonome, che gestiscono i finanziamenti europei.
Un iter che continua a incepparsi: sulle pagine Facebook regionali decine giovani segnalano di non aver ancora visto i soldi nonostante dalla fine dello stage siano passati mesi, in alcuni casi più di un anno.
Tempi particolarmente lunghi, stando ai gruppi Facebook creati ad hoc come “Disgrazia giovani”, i tempi necessari in Campania per essere pagati.
La regione Puglia solo a fine dicembre 2017 ha pubblicato gli elenchi degli ex tirocinanti a cui versare le indennità per stage conclusi, in diversi casi, a metà del 2016.
In Calabria il piano Garanzia Giovani è finito addirittura al centro di un’indagine della procura di Lamezia: nel mirino, con le ipotesi di peculato e corruzione, i vertici della società pubblica Sacal, che gestisce l’aeroporto regionale. Secondo i pm i tirocini retribuiti, viatico per successive assunzioni, venivano riservati ad amici e parenti di dirigenti della Regione e politici locali in cambio di favori e viaggi di lusso.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
LE RAGIONI GEOPOLITICHE CHE I GOVERNI NASCONDONO
Tutto molto persuasivo, lineare, morale, rassicurante. I buoni e i cattivi, le frontiere
dell’Europa che si spostano in Africa, noi che andiamo in Niger per fermare incauti migranti diretti verso la trappola libica e per “combattere il terrorismo”. Un unico dubbio: considerando il labirinto nel quale ci stiamo per affacciare, per una volta non sarà il caso, invece, di spiegare agli italiani che la realtà è ambigua, contorta, complicata?
Per cominciare: il contingente italiano sarà complementare alle forze che la Francia ha schierato in Niger non tanto per “combattere il terrorismo” quanto per difendere i propri interessi — soprattutto le miniere di uranio vitali per il fabbisogno energetico francese, che per l’80 per cento è soddisfatto da centrali nucleari. Le concessioni relative alle miniere — prevedano o no, come si sospetta, clausole segrete — hanno arricchito una classe dirigente sovrabbondante di militari, non certo la popolazione, che è agli ultimi posti in tutte le classifiche mondiali sullo sviluppo umano. Parigi, che in Niger dal 1890 fa e disfa, non è riuscita a costruire un’economia in salute nè un sistema politico stabile.
In genere la politologia internazionale classifica il Niger come “anocracy”, traducibile in “democratura”, cioè un regime traballante che mescola tratti democratici a tratti autoritari, e in ragione della sua inefficienza genera sollevazioni. La più pericolosa per l’unità nazionale tra il 2007 e il 2009 riunì varie popolazioni nomadi del nord, in gran parte tuareg, in un “Mouvement des Nigeriens pour la justice” connotato da un aspro risentimento anti-francese (chiedeva la revisione delle concessioni sull’uranio, poi avvenuta, e controlli sulle scorie radioattive). Negli anni successivi si sono aggiunte per successive metamorfosi formazioni jihadiste transfrontaliere (al-Qaeda, Boko Haram, Mujao), che l’esercito del Niger, 12mila effettivi guidati da consiglieri militari francesi, fatica a contenere.
Tutto questo pone all’Italia tre ordini di problemi. Innanzitutto l’identificazione del nemico. Sul confine che gli italiani dovranno sorvegliare vanno e vengono assassini devoti alla jihad globale, jihadisti che in realtà combattono per cause berbere, fornitori d’armi di milizie libiche, milizie tribali di mutevole lealtà , nuovi schiavisti, mercanti per i quali il contrabbando nel deserto è una tradizione antica. Distinguere gli uni dagli altri non è facile, confonderli potrebbe essere pericoloso. Finirebbe per trasferire sui soldati italiani le ostilità col quale molti berberi guardano ai confini nazionali, in particolare i tuareg. Per secoli padroni del Sahara, che traversavano trasportando sale e schiavi, i tuareg hanno vissuto come una catastrofe l’introduzione, nel dopoguerra, dei confini nazionali. I posti di frontiera spezzavano le rotte dei loro commerci, li spossessavano del deserto, e con quello della loro identità . Negli anni Sessanta tentarono di riprendersi il Sahara con attacchi dissennati, caricando sui cammelli nidi di mitragliatrici; poi è parso che accettassero la sconfitta.
I tuareg che incontrai in Mali trent’anni fa coltivavano patate, destino baro per una società vissuta nell’incantesimo di un medioevo eterno. L’islam praticato dall’aristocrazia contemplava i tormenti poetici dell’amor cortese, e perfino il diritto della donna sposata a giacere con chiunque desiderasse, purchè la sfrenatezza non si protraesse oltre il terzo giorno e fosse motivata da grave depressione (autocertificata, mi fu detto). Che musulmani così eretici siano stati attratti dalla puritana al-Qaeda potrebbe dipendere da quel che l’idea del Califfato promette agli ex signori del deserto: un Sahara liberato dalle frontiere di Stato e restituito alle loro carovane.
In secondo luogo, bisognerebbe capire cosa si intenda per “combattere il terrorismo”. Cosa intenda Macron, il capofila, cosa gli europei, e cosa il governo del Niger. Di solito gli occidentali “combattono il terrorismo” a questo modo: danno sostegno militare a regimi pericolanti con i quali fanno buoni affari, e si girano dall’altra parte mentre quelli sgovernano, depredano, torturano, incoraggiano alla rivolta armata tanti che non avevano quella inclinazione. I risultati sono sconfortanti ovunque, anche in Africa. Un buon terzo della Francafrique, il complesso delle 14 ex (ma non tanto ex) colonie francesi nel continente, è funestato dal fondamentalismo armato.
Parigi finora si è affidata a politiche ispirate dal conglomerato di interessi che intreccia i suoi apparati militari, corporates intimamente connesse allo Stato e consorterie africane. Ma in Niger presto sarà in gioco la pelle dei soldati inviati dall’Italia, che pertanto dovrebbe vedersi riconoscere il diritto di co-decidere una strategia complessiva, non solo militare. Quale?
Infine: il Niger interessa agli europei non tanto perchè lo minacci il terrorismo, ma perchè è dentro due grandi partite. La prima vede europei e cinesi contendersi le risorse del Sahel. Nella seconda il Niger figura come un importante retrovia del conflitto in Libia, a sua volta terminale dello scontro che dall’Atlantico al Golfo Persico oppone due fronti musulmani lungo il crinale tracciato dalle primavere arabe.
Di qua i fautori della Restaurazione appoggiati da Trump e da Netanyahu, di là il variegato club che tifa per le rivoluzioni. L’Europa si barcamena. In Libia il barcamenarsi adesso vede Parigi e Roma blandire il generale Haftar, capo di una congregazione di milizie, per convincerlo a non ostacolare le elezioni che l’Onu conta di tenere tra qualche mese. Haftar nicchia.
Ma intanto si fa costruire un aeroporto, a Khadim, dove presto dovrebbero atterrare contractors americani, cargo di forniture militari e alcuni bombardieri che gli Emirati Arabi dislocherebbero in Libia, verosimilmente non per lanciare sulla popolazione volantini elettorali. A loro volta le milizie nemiche di Haftar stanno di nuovo ricevendo armi via Sudan, un canale che Khartum aveva chiuso in primavera su pressione egiziana e saudita ma ha ripreso a funzionare. È abbastanza per sospettare che non solo le elezioni libiche, ma anche il salvataggio delle migliaia di migranti promesso da Minniti, siano molto meno certi di quanto si racconti.
Non si può chiedere a governi e Stati maggiore di raccontare la verità , tutta la verità , su scelte di politica estera che richiedono riservatezza e circospezione. Ma omettere sempre, ridurre la complessità a favoletta, indulgere al racconto delle magnifiche sorti e progressive per prevenire le critiche, produce poi l’Italia inebetita che s’infilò nella guerra di Libia senza alcuna consapevolezza della realtà e dei propri interessi. Con l’aria che tira, non possiamo permettercelo.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
IL ROSATELLUM ALLONTANA I CONFRONTI TRA CANDIDATI PREMIER… MENTANA: “E’ FINITA UN’ERA”
Scordatevi i faccia a faccia tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi, non aspettatevi più il confronto tra i candidati premier che decide le elezioni per una frase azzeccata o per un taglio di capelli sbagliato.
Già , in Italia, la sfida tv all’americana aveva attecchito con difficoltà , ma adesso pare proprio definitivamente archiviata, con la nuova legge elettorale proporzionale e un sistema politico diviso in quattro.
La seconda repubblica è ormai alle spalle anche dal punto di vista della comunicazione e per i conduttori di talk show e programmi di approfondimento politico non sarà semplice trovare una formula efficace per raccontare una campagna elettorale che si annuncia molto diversa da quelle che abbiamo visto negli ultimi venti anni, quando la sfida era sostanzialmente a due e si sceglieva davvero chi doveva governare.
Enrico Mentana non ha dubbi, quel capitolo è chiuso.
Fu lui a ospitare il primo confronto «all’americana» nel 1994 tra Silvio Berlusconi e Achille Occhetto.
Poi ci furono le sfide tra Berlusconi e Prodi nel 1996, da Lucia Annunziata sulla Rai, e di nuovo tra Berlusconi e Prodi nel 2006, per due volte da Bruno Vespa e Clemente Mimun, ancora sulla Rai, tra mille regole e paletti pretesi dai due contendenti.
Appunto, una parentesi ormai chiusa, per Mentana, e non da ora: «Quella stagione è finta, ed è finita male con quei confronti burocratici tra Prodi e Berlusconi nel 2006. Neanche nel 2008 e nel 2013 ci furono i faccia a faccia tra i candidati premier».
In effetti nel 2008 non ci fu confronto vero e proprio perchè Berlusconi, in vantaggio nei sondaggi, non volle concedere a Walter Veltroni una chance di recuperare.
Mentana tuttavia intervistò i due sfidanti separatamente, e poi li mandò in onda uno dopo l’altro, come accadde anche nel 2001, in quel caso sulla Rai, quando lo sfidante del leader di Fi era Francesco Rutelli. Nel 2013 a complicare tutto fu l’irruzione sulla scena di M5S, che sparigliò lo schema bipolare.
Stavolta cambia tutto, innanzitutto perchè i giochi per il governo, probabilmente, si faranno dopo il voto.
Il dato di fondo, sottolinea Vespa, è che «in un sistema proporzionale il candidato premier di fatto non c’è. L’unico candidato premier ufficiale, Di Maio, ha detto che incontra solo gli altri candidati premier. Poi c’è Grasso che non vuole fare confronti… Di sicuro è una complicazione e non è facile fare una cosa equilibrata. Si farà il massimo possibile all’interno delle regole».
Qualcuno, come Lucia Annunziata, sembra persino vedere un’opportunità con la nuova situazione. «La gestione della campagna, contrariamente a quel che si pensa, sarà semplificata. Solo il finale sarà più complicato», non avendo la sfida a due.
Ma nei due mesi di campagna «avendo tanti partiti e tanti capi non mancherà mai un leader in trasmissione, tutti sono interessati a venire».
Non solo, ma la competizione col proporzionale si accende anche all’interno delle coalizioni, «con un voto in più alla Lega o a Fi si decide chi indica il premier e questo significa che ognuno di fatto corre per sè, col maggioritario Salvini non si smarcherebbe mai da Berlusconi, così invece… Noi vogliamo puntare su dossier tematici: le tasse, le banche, i migranti. Il vero problema è il finale: abbiamo avuto in affidamento dalla Rai una serata finale, il giovedì prima della domenica del voto. La formula la stiamo studiando».
Insomma, più pepe per i dibattiti, ma anche il rischio di maggiore confusione per i telespettatori e, dunque, un compito ancora più difficile per i giornalisti che intervistano. Dice Corrado Formigli: «Il grande problema è che se tutte le campagne elettorali sono fatte di promesse, questa lo sarà ancora di più: c’è aria da “venditori di pentole”, toccherà a noi giornalisti abbattere col machete quella coltre di propaganda».
Inoltre, «i leader politici purtroppo hanno rinunciato al confronto tra loro già da molto tempo». Non si tornerà a “Tribuna politica”, perchè «ormai non funziona più, il talk-show, in questo, è come il calcio: rispetto agli anni ’80 ha altri ritmi ormai, tutto più veloce. A Piazzapulita abbiamo rimediato con interviste tambureggianti, cercando di far emergere le contraddizioni dei politici. Certo, manca la spettacolarità del duello tra i candidati premier…».
(da “La Stampa”)
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
IL POST DELL’EX M5S RICCARDO NUTI ANALIZZA I CAMBIAMENTI E LE CONTRADDIZIONI DEL MOVIMENTO
Tutto si può dire e scrivere ma non che quello nato da pochi giorni sia il MoVimento 5
Stelle, è un partito che potremmo chiamare Partito delle Stelle ma nulla c’entra con Il MoVimento 5 Stelle.
Va intanto notato che molti quotidiani hanno pubblicato le regole un giorno prima che fossero scritte nel blog di Grillo, le regole e info scritte dai giornali si sono rivelate vere e non fake-news o bufale.
Come hanno fatto i giornali ad averle? Questo vuol dire che non sempre i giornali scrivono bufale o fake-news e che qualcuno internamente le fornisce ai giornali…
Il Partito delle Stelle può piacere o meno quindi nulla di male in questo, anzi a molti magari piace di più così rispetto al Movimento 5 Stelle, è lo stesso statuto di questo c.d. Partito delle Stelle a dire e scrivere chiaramente cosa è, basta leggere.
Cosa scrive il Partito delle Stelle nei suoi documenti fondanti? Ecco alcuni elementi:
SOLDI DEI PARLAMENTARI AL PARTITO
Nel Movimento 5 Stelle abbiamo sempre attaccato pesantemente i parlamentari dei partiti che erano costretti a dare una cifra fissa al partito ( es. PD). Lo stesso Movimento 5 Stelle ha parlato di milioni di euro esentasse e di pizzo alla democrazia (link1 →https://goo.gl/HsSNkA , link2 -> https://goo.gl/fk5bvU )
Nel Partito delle stelle invece i parlamentari sono costretti a pagare 300€ al mese al partito. (vedi qui → https://ibb.co/iJya1b ).
Eleggendo 220 parlamentari (numeri dati dalle proiezioni) equivalgono, in una legislatura di 5 anni, a quasi 4 milioni di euro al Partito delle Stelle.
COSTITUZIONE ITALIANA DIFESA E GLI OBBLIGHI INCONSTITUZIONALI
Il MoVimento 5 Stelle ha sempre difeso e rispettato la Costituzione italiana arrivando, per questo, anche a salire sul tetto della Camera dei Deputati.
Il Partito delle Stelle invece la viola e introduce degli obblighi incostituzionali (una delle più gravi violazioni che si possa fare in Italia) come l’obbligo per i parlamentari di votare la fiducia al Partito delle Stelle (leggi qui → https://ibb.co/npUnEw )
Esattamente l’opposto di quanto detto in questi anni dal MoVimento 5 Stelle che ha attaccato duramente i parlamentari del PD e della maggioranza che votavano la fiducia su qualsiasi provvedimento di legge accusandoli di essere “schiavi”, “di non essere persone libere”, “servi” ( es. https://goo.gl/tpkFrn )
CHI TRADISCE I CITTADINI?
Altro elemento che rischia di essere una violazione costituzionale è quella relativa alla multa in caso di allontanamento per dissenso politico come se il Partito delle Stelle avrà sempre ragione e rispetterà sempre il programma e a tradirlo sarà per forza il parlamentare.
La storia ci insegna che in realtà non è così ma anzi può verificarsi il contrario.
Solo a mero titolo di esempio delle decine di casi, nel PD si è passati dal “mai con Berlusconi” all’alleanza con Berlusconi (e poi Alfano), nell’ultimo anno il Partito delle Stelle che man mano si formava dentro il Movimento 5 Stelle è passato dalla lotta contro l’abusivismo edilizio al giustificare l’abusivismo edilizio con la definizione abusivismo di necessità (https://youtu.be/HdhbBPwb-SI) o, se questa vi può sembrare una vicenda strumentalizzata, dall’essere insieme ad un partito inglese anti euro (Ukip) al tentare di allearsi con un partito pro euro (Alde) per poi essere rifiutato da quest’ultimo ( https://goo.gl/gM8oGq ).
Il Partito delle Stelle può anche avere l’opinione di voler introdurre il vincolo di mandato ma visto che nella Costituzione italiana è scritto il contrario (che i parlamentari agiscono senza vincolo di mandato) quest’ultima va rispettata finchè non viene modificata secondo le procedure da essa previste. Se a tradire il mandato dei cittadini è il partito e non il parlamentare chi dovrebbe pagare una multa?
In ogni caso e ad di là delle singole opinioni, la multa per chi lasciava il gruppo parlamentare, è già stata provata e non risulta sia stata realizzata al parlamento europeo quando alcuni parlamentari europei del m5s hanno deciso (dopo la vicenda Alde) di lasciare il gruppo senza pagare un euro, quindi a cosa serve una cosa che non è realizzabile?
LE BOCCIATURE DEI GIUDICI
Nel 2016 fu effettuata una votazione che chiedeva anche di cambiare lo statuto del Movimento 5 Stelle. La legge prevede il superamento del 75% degli iscritti cosa che non è avvenuta. Nonostante questo è stato modificato ignorando il mancato quorum e adottando, grazie ad esso, una serie di provvedimenti CONTRO LEGGE come messo nero su bianco da numerosi giudici.
Il MoVimento 5 Stelle che abbiamo contribuito a realizzare negli anni non violava la legge, non faceva atti illegittimi, dal 2016 in poi invece tutto ciò che finora i giudici hanno bocciato è stato inserito nello statuto del Partito delle Stelle ovvero nelle sue fondamenta.
In sintesi nel Movimento 5 Stelle se un iscritto votava “no” alle modifiche allo statuto restava a tutti gli effetti nel Movimento 5 Stelle, nel Partito delle Stelle è come se solo chi ha votato sì può aderire, chi era contrario alle precedenti modifiche che nei fatti sono quasi identiche allo statuto e regolamento del Partito delle Stelle o si adatta a chi non ha raggiunto il quorum o è fuori. Nel silenzio generale sono così state allontanate, nei fatti, migliaia di persone o migliaia di persone sono state costrette ad accettare statuto e regole che 1 anno fa non avevano accettato, come se vi fosse stata una votazione con il 100% dei “sì”.
LA GIUSTIZIA TI HA DATO RAGIONE? NON PUOI ENTRARE NEL PARTITO DELLE STELLE
Il Movimento 5 Stelle rispettava le decisioni della giustizia, nel Partito delle Stelle se una persona si è rivolta alla giustizia e quest’ultima gli ha dato ragione contro il M5S cosa accade? Non può far parte del Partito delle Stelle.
Così ad esempio una consigliere comunale di Roma, Grancio, aveva subito una sospensione cautelare per aver espresso dubbi, anche di possibili danni erariali, in prossimità di un voto sul nuovo stadio della Roma. Grancio si è rivolta alla giustizia i probiviri il giorno prima della causa hanno eliminato la sospensione cautelare e oggi questa consigliera rischia nonostante questo di non poter far parte del Partito delle Stelle. Ancora più paradossale i casi di quelle persone che hanno vinto la causa in via cautelare per delle ingiustizie subite e che nonostante questo, per il solo fatto di essersi rivolti alla giustizia non posso iscriversi al Partito delle Stelle.
INCIUCI E ACCORDI
Il Movimento 5 Stelle non fa inciuci con il PD o altri partiti, un esempio classico è lo scambio di voti per poltrone. “Tu eleggi me qui e io eleggo te lì” è sempre stata una filosofia rigettata, a torto o a ragione, ma in ogni caso rifiutata.
Eppure il Partito delle Stelle nell’ultimo anno è riuscito (a quanto scritto nei giornali e mai smentito ma a volte confermato), ad accordarsi con il PD per le presidenze delle commissioni ( es. mai smentito -> https://ibb.co/fggQZw ) o per respingere le dimissioni di un parlamentare (es. conferma -> https://goo.gl/ipQVPV ) fino ad arrivare ad un altro caso, diverso ma non per questo meno innaturale e grave per il MoVimento 5 Stelle, dell’intercettazione per far mancare il numero legale per decidere la nomina di un consulente secondo quanto riportato da vari quotidiani ( https://goo.gl/8weiwW )
INDAGATI E IMPUTATI CANDIDABILI A DISCREZIONE
Nel MoVimento 5 Stelle non si poteva candidare chi aveva un processo penale in corso di qualsiasi tipo. Giusto? Eccessivo? Probabilmente esagerato, ognuno può avere la sua opinione ma così è scritto nello statuto.
Nel Partito delle Stelle invece si possono candidare indagati o imputati se non hanno il divieto dal capo politico, ovvero Luigi Di Maio a sua volta indagato
Non è quindi del tutto esatto ciò che hanno scritto alcuni giornali ovvero che gli indagati e gli imputati si possono candidare nel Partito delle Stelle, ma è un po’ meno uguale il trattamento: nel Partito delle Stelle si possono candidare indagati e imputati che vuole il capo politico.
Così lo stesso capo politico indagato si può candidare, i parlamentari che hanno un processo in corso si potranno candidare se il capo politico vorrà , altrimenti lo stesso capo politico potrà decidere a sua discrezione chi far fuori e chi no.
LA PAROLA PARTITO
Ultimo piccolissimo esempio, nel Movimento 5 Stelle era scritto chiaramente che “non è un partito e non intende diventarlo”, nel Partito delle Stelle questo non è scritto, anzi è scritto che non possono aderire esponenti di “altri partiti” affermando implicitamente di esserlo.
CONSIDERAZIONI
Nel Partito delle Stelle vi saranno anche tante bravissime persone che proveranno a candidarsi, che magari diverranno anche bravi parlamentari ma rimane importante non prendere in giro i cittadini.
I cittadini vanno informati correttamente, pertanto trovo più dignitoso chi non racconta questo statuto, codice e regolamento del Partito delle Stelle come un qualcosa di stupendo o positivo se non ci si crede o se non lo conosce, meglio tacere rispetto al dare un’ indicazione errata ad un viaggiatore, ad un cittadino
Il MoVimento 5 Stelle rimane quell’associazione di 150.000 iscritti creata in tantissimi anni, con banchetti, flashmob, pedalate, manifestazioni, incontri, riunioni infinite, il MoVimento 5 Stelle rimane uno stile di vita che non basa la sua anima sui voti e che continuerà il suo meraviglioso progetto.
Il Partito delle Stelle non è quindi il MoVimento 5 Stelle anche se ne ha il nome e il simbolo e questo non è un buon inizio se si vuol essere diversi, è vero si cresce e crescendo nella vita si imparano tante cose che si possono anche migliorare, modificare, ma se per crescere si guarda al cattivo esempio, ovvero i partiti che hanno degradato il Paese, c’è il forte rischio di confondersi fra questi e a quel punto non si potrà che arrivare dove già costoro ci han portato.
È altrettanto palese che questo tipo di obblighi, vincoli, sanzioni, estromissioni denota una notevole debolezza di chi dovrebbe gestire il Partito, la storia insegna che il rispetto, la stima, la forza e l’autorevolezza si ottengono spontaneamente sul campo dagli avversari e dai compagni di squadra, se si è di un certo livello.
Riccardo Nuti
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Gennaio 3rd, 2018 Riccardo Fucile
E’ SUCCESSO IN UN COMUNE DEL BARESE, IL VIDEO FINISCE SUI SOCIAL… I CITTADINI INSORGONO: GESTO VILE, ORA PROVVEDIMENTI
Lancia un petardo tra i piedi di un disabile affetto da disturbi psichici e le immagini riprese da un telefonino diventano virali sui social. È
successo ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, e l’autore del gesto è un vigile urbano che ora rischia conseguenze disciplinari.
Il bersaglio della “bravata” è un 70enne molto conosciuto in città : in passato – raccontano alcuni residenti – è già stato al centro di episodi sgradevoli.
L’uomo sarebbe stato persino schiaffeggiato e avrebbe subito altre umiliazioni e vessazioni.
Il lancio del mortaretto è avvenuto alla presenza di altri concittadini in piazza Madonna di Costantinopoli dove ha sede il Comando della Polizia Municipale e poco distante dal Municipio.
Il sindaco di Acquaviva delle Fonti, Davide Carlucci, ha ordinato l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del vigile.
Dopo esser stato interrogato dal suo comandante il 45enne è stato e messo in ferie.
Sulla bacheca Facebook del sindaco, oltre ai commenti positivi sull’avvio della sanzione decisa da Carlucci, alcuni cittadini definiscono il gesto del vigile urbano un “atto vile” e di “bullismo”.
C’è, poi, chi invoca “il licenziamento”.
“È uno schifo – scrive una cittadina al sindaco – Un vigile che compie questo gesto indescrivibile, pietoso nei confronti di una persona debole, indifesa quando , in queste circostanze , i vigili dovrebbero dare solo il buon esempio!”.
“Il vigile ha spiegato di non aver agito con sadismo e si è reso conto di aver sbagliato. Per noi l’atto è vergognoso perchè potrebbe indurre qualcuno a sentirsi autorizzato a compiere gesti più violenti nei confronti del disabile”, ha dichiarato Davide Carlucci che annuncia anche di voler “rivedere il Codice di comportamento degli appartenenti al Comando della Polizia municipale”.
Si indaga anche su chi ha girato il video e da ieri sera ha iniziato a diffonderlo viralmente su WhattsApp.
(da agenzie)
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