Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
SALVINI FA FUORI DALLE LISTE TUTTI I MARONIANI IN UN DELIRIO DI ONNIPOTENZA… BERLUSCONI PRONTO AD ACCOGLIERE BOSSI…LA LISTA DI REGUZZONI
Nelle lunghe notti delle liste leghiste, cadono uno ad uno i nomi degli oppositori. 
Al momento, nelle bozze che circolano a via Bellerio, non c’è il nome di Roberto Maroni. E neanche quelle dei suoi fedelissimi, a partire da Gianluca Pini, uno dei protagonisti dei “barbari sognanti” ai tempi delle ramazze. E non è l’unico.
E aleggia un alone di drammatico mistero attorno al nome dell’altro fondatore, Umberto Bossi: “Perchè — ha detto Salvini ai suoi — uno deve accettare la candidatura in un partito che gli fa schifo?”.
Il telefono del Senatur non squilla. E da giorni Bossi ha la sensazione di essere, dice chi gli ha parlato, “sotto ricatto”. Per la serie: una candidatura, in cambio della rinuncia alla critica e della benedizione del nuovo corso.
Anche Silvio Berlusconi, nel corso dell’ultimo incontro con Salvini, ha speso parole a favore dell’amico storico: “Mi raccomando su Umberto”.
Non ricevendo alcuna assicurazione. Il tempo che passa rende complicato anche quel salvataggio che ad Arcore gli è stato offerto da tempo, ovvero una candidatura nelle liste di Forza Italia, che Bossi per tigna e orgoglio vorrebbe evitare.
In un clima avvelenato nasce la nuova Lega di Matteo Salvini, il cui nome e simbolo sono stati già depositati, come ha rivelato il Fatto quotidiano.
Alle elezioni si presenterà non più con la sigla “Lega per l’indipendenza della Padania” ma come “Lega per Salvini premier”, col quale darà vita ai gruppi parlamentari nella prossima legislatura e sarà certificata la mutazione genetica rispetto alla creatura di Bossi. Scelta politica che consente di incassare nuovo finanziamento del 2 per mille, di evitare i fastidi della procura di Genova che ha condannato la vecchia Lega a restituire i 40 milioni di rimborsi elettorali.
E di mettersi al riparo dall’altra grana giudiziaria, anticipata dall’HuffPost: il ricorso al tribunale di Milano in cui si chiede la sospensione di Salvini da segretario della Lega, per non aver rispettato lo statuto, ai tempi delle primarie.
L’udienza è fissata per giovedì 25 gennaio, proprio a ridosso della presentazione delle liste.
Difficile prevedere cosa possa succedere. E in che tempi.
Perchè non esiste un termine entro il quale il giudice debba decidere: può farlo domani o anche tra qualche settimana.
Le possibilità sono sostanzialmente tre: 1) accogliere (o rigettare) l’istanza cautelare, vale a dire la richiesta di sospensione di Salvini da segretario Federale della Lega Nord; 2) compiere atti istruttori intermedi, come ad esempio l’audizione di alcuni testimoni; 3) decidere la causa nel merito e cioè se la nomina del segretario della Lega e dei componenti del Consiglio Federale della Lega, ufficializzata al congresso del 21 maggio scorso, sia da annullare per sospetta irregolarità in quanto Salvini – è scritto nel ricorso – avrebbe depositato la sua lista oltre il termine fissato dal regolamento e avrebbe sostituito “in corsa ” un candidato della lista a lui collegata con un altro perchè il primo non aveva i requisiti minimi di anni di militanza richiesti.
Al quartier generale di via Bellerio ostentano granitica tranquillità , anche perchè il responso del tribunale non tocca il nuovo soggetto che si presenterà alle elezioni.
Ma ricorsi, carte bollate danno la misura della grande faida che si sta consumando.
E che terminerà con la presentazione delle liste.
L’obiettivo è la salvinizzazione totale dei gruppi parlamentari e del nuovo partito, che stronchi sul nascere la manovra di Maroni sulle larghe intese (leggi qui): “Se non ha parlamentari, non va da nessuna parte. Chi porta in dote al governo di unità nazionale?”.
Gianluca Pini, dunque, al momento è fuori. Così come Davide Caparini, altro parlamentare legato all’ex governatore. In bilico Giacomo Stucchi, che in questa legislatura è stato presidente del Copasir. E lo stesso accadrà in regione.
Gianni Fava, sospettato di essere l’anima nera del ricorso, è fuori da tutto, Parlamento e Pirellone.
Mentre Lara Magoni, ex Lista Maroni, si è rifugiata in Fratelli d’Italia in Regione.
L’idea di una lista alternativa in Lombardia è circolata nei giorni scorsi, ma è complicato raccogliere le firme in poco tempo.
Chi invece è riuscito a presentare il simbolo è Marco Reguzzoni, pupillo del cerchio magico di bossi, e fondatore di Grande Nord, movimento che sarà presente alle politiche in tutti i collegi del Nord e alle elezioni Lombarde con un suo candidato, Giulio Arrighini.
Non spaventa, ma è un altro indicatore della profondità del mutamento in atto.
In attesa di capire se si consumerà l’ultimo atto di questa lunga notte: il parricidio di Umberto Bossi.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
ALTRO CHE ROMA LADRONA, SIAMO ALLA REPLICA DE “PRENDI I SOLDI E SCAPPA”… 48 MILIONI RUBATI DA RESTITUIRE E ALLORA NASCE LA “LEGA PER SALVINI PREMIER”
Giulio Centemero, fidato tesoriere di Matteo Salvini, nega categoricamente: “Figurarsi se lo abbiamo fatto per salvare i fondi dai sequestri del tribunale”.
Eppure il nuovo soggetto politico che fa capo al leader in felpa sembra nato ad hoc per evitare i fastidi.
Non solo quelli della Procura di Genova — che ancora cerca gli oltre 40 milioni di rimborsi elettorali che la Lega Nord è stata condannata a restituire a seguito di una condanna per truffa allo Stato nei confronti del fondatore Umberto Bossi e dell’ex tesoriere Francesco Belsito — ma anche da quelli dei compagni di viaggio del partito padano.
Con un colpo che potrebbe rivelarsi geniale (o deleterio, non è ancora dato sapere) Salvini nei panni di segretario della “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” ha deliberato la variazione del simbolo in “Lega per Salvini premier”, con cui presenterà le liste elettorali e correrà alle Politiche di marzo.
Nel frattempo, in gran segreto, ha fondato un nuovo partito proprio con il nome “Lega per Salvini premier” con il quale darà poi vita ai gruppi parlamentari nella prossima legislatura, spogliando definitivamente la creatura fondata da Bossi.
Sulla lapide della Lega Nord manca dunque solo l’epitaffio, la data del decesso è ormai scolpita: 5 marzo 2018.
Lo Statuto del nuovo partito “Lega per Salvini premier” è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale a dicembre e già depositato al Senato grazie al solito Roberto Calderoli che si è prestato a fare da Caronte nei meandri parlamentari al nuovo capo, così come fece con Umberto Bossi prima e con Roberto Maroni poi.
Il medico bergamasco, lo scorso 15 novembre, ha lasciato il gruppo di Palazzo Madama della Lega Nord, con la quale era stato eletto per la prima volta nel 1994, per iscriversi al Misto e da qui poi autoproclamarsi gruppo e capogruppo della “Lega per Salvini premier”.
La mossa, apparentemente insignificante, in realtà è foriera di conseguenze.
Una su tutte: i soldi raccolti attraverso il due per mille, unica forma di finanziamento riconosciuta ai partiti dopo l’eliminazione dei rimborsi elettorali, finiranno così nelle casse del nuovo soggetto.
Ma il tribunale di Genova tutto vuole fuorchè rinunciare a quanto il Carroccio deve restituire alle casse dello Stato. L’aspetto non è secondaria.
Il tribunale ligure lo scorso settembre ha disposto la confisca di 48 milioni dai fondi del partito e bloccato tutti i conti, anche quelli delle segreterie territoriali riconducibili alla Lega Nord. Lo stesso Salvini aveva tuonato: “Per la prima volta nella storia della Repubblica, i giudici stanno bloccando l’attività di un partito politico, è un attacco alla democrazia”.
Dei 48 milioni però i giudici ne hanno recuperati poco più di due. Il Carroccio ha presentato ricorso e si è visto riconoscere quella che tecnicamente viene definita una “confisca diretta”.
In pratica i conti sono stati sbloccati e la parte mancante del maltolto può essere recuperata solo con una nuova sentenza.
A opporsi è stata poi la procura di Genova e al momento si attende la pronuncia della Cassazione che potrebbe invece stabilire una sorta di confisca perpetua dei fondi fino al raggiungimento della cifra effettivamente dovuta.
L’ultima entrata garantita sarà quella del 2 per mille assegnato alla Lega nell’ultimo anno: 1,9 milioni di euro. Poi ogni trasferimento finirà nelle casse del nuovo partito.
A oggi, spiega al Fatto il tesoriere Centemero, “abbiamo circa un milione da usare per la campagna elettorale, raccolti grazie ai militanti e ai contributi volontari dei parlamentari”. Ai quali è chiesto pure una sorta di obolo per le prossime Politiche: “Ogni candidato dovrà versare circa 20mila euro”.
Ma il funambolismo salviniano rischia di durare poco.
Oltre al fatto di essere contemporaneamente segretario di due partiti (quindi in equilibrio decisamente precario sul filo dell’articolo 3 della legge 13 sui partiti del 2014), è vietato l’utilizzo di un simbolo usato da un altro partito salvo averne espresso consenso. Consenso mai ottenuto.
Come spiega Gianni Fava, attuale assessore regionale del Carroccio e membro del consiglio federale di via Bellerio: “Io cado dalle nuvole, ricordo bene perchè ero presente e ho votato contro, che ci ha chiesto esclusivamente di modificare il simbolo, certo non di poterlo usare con un altro movimento. Ancora aspetto la ratifica del verbale di quella seduta e scopro che c’è un nuovo partito, non ne sapevo nulla”.
Non era l’unico.
Anche l’attuale governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ne era all’oscuro. Così come molti parlamentari.
Salvo i vertici già nominati nel nuovo partito: nel consiglio federale della “Lega per Salvini premier” siedono, insieme al doppio segretario Salvini, anche Centemero, Calderoli, Giancarlo Giorgetti e l’eurodeputato Lorenzo Fontana.
Tutti vertici sia della vecchia sia della nuova Lega. Ora, scoperte le carte, basterebbe un ricorso di qualche vecchio leghista per fermare Salvini.
Che già nei prossimi giorni potrebbe vedersi togliere l’incarico da segretario della Lega Nord. Dieci giorni fa, infatti, un candidato in lista alle primarie dello scorso maggio ha presentato un esposto in Procura a Milano denunciando il leader di non aver rispettato lo statuto.
Esposto ritenuto fondato visto che è stata fissata l’udienza per i prossimi giorni e cinque parlamentari sono stati convocati come testimoni a palazzo di giustizia.
Nel caso dovesse essere accolto, le primarie sarebbero annullate e segretario diventerebbe lo sfidante Gianni Fava.
Il tutto a pochi giorni dalla scadenza per la presentazione delle liste.
Chissà se l’avvocato Giulia Bongiorno, candidata salviniana, sarà disposta ad aiutare il suo bisegretario.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
DALLE “DUE SOLE ALIQUOTE IRPEF” ALL’ABOLIZIONE DELL’IRAP E BOLLO AUTO, NEL 1994 VOLEVA UNA FLAT TAX AL 30% E SOLO 10 TASSE.. PER POI DIRE: “NON HO LA BACCHETTA MAGICA”
Gli alleati che lo “lasciano solo“. I bastoni tra le ruote delle “opposizioni“. Le “gestioni
avventuristiche del passato” che hanno fatto aumentare il debito pubblico. E ovviamente i paletti europei, l’”ottusità ” dei parametri di Maastricht.
Insomma, una congiura. Che ha impedito a Silvio Berlusconi, puntualmente, di rispettare la principale promessa fatta agli italiani a partire dal 1994: “Meno tasse“. In vista del 4 marzo il leader di Forza Italia ha rispolverato la flat tax, prospettata per la prima volta 24 anni fa e mai realizzata. Ma la lista degli annunci rimasti lettera morta è lunghissima. Come le giustificazioni ex post: “Non dipende da noi”, “le cifre non consentono di fare ciò che vorremmo fare”, “sono rimasto solo”.
Risultato: gli elettori devono puntualmente accontentarsi di manovre “senza nuove tasse”. Mentre l’impegno a ridurle viene di volta in volta rinviato.
Parlano i numeri: dalla sua discesa in campo l’ex Cavaliere ha governato per oltre 9 anni e la pressione fiscale complessiva, dopo aver toccato un minimo del 39,1% nel 2005 (dati Ocse), ha ricominciato a salire fino a superare il 43% nel 2012.
Oggi è al 40,3 per cento, contro il 38,7% del 1994.
In mezzo c’è stata, en passant, la condanna definitiva per frode fiscale dell’uomo che oggi sostiene di voler mandare “in galera gli evasori”. E aggiunge: “La prima moralità della politica per noi è quella di mantenere gli impegni presi con gli elettori durante la campagna elettorale”.
“Andare verso una sola aliquota Irpef non superiore al 30%“, ridurre le aliquote Iva a due e “le attuali 200 tasse a non più di 10″.
Febbraio 1994, La neonata Forza Italia presenta il suo programma elettorale in 45 punti e sul fronte fiscale le idee sono chiarissime: meno tasse per tutti.
Il Polo delle libertà vince le elezioni e in primavera il patron di Fininvest Silvio Berlusconi forma il suo primo governo.
Antonio Martino, che l’ex Cavaliere identifica come l’ispiratore della flat tax, finisce però al ministero degli Esteri, mentre all’Economia approda Giulio Tremonti.
Dell’aliquota unica si perdono le tracce. “Gli alleati non ci consentirono di realizzarla”, spiegherà ex post Berlusconi. Il quale, varando la sua prima finanziaria, si limita a rivendicare: ”Non ci saranno nuove imposte, tasse o aumenti di aliquote”.
Del resto il grosso delle maggiori entrate è atteso dal “concordato di massa“, monstrum che comprende un maxi condono edilizio e una sanatoria fiscale su imposte dirette e Iva per il periodo 1989-1993.
Nel dicembre 1994 arrivano le dimissioni, dopo l’invito a comparire notificato all’allora premier durante il G7 di Napoli e il passaggio della Lega all’opposizione in polemica con la riforma delle pensioni proposta dall’esecutivo.
Per il Caimano inizia la traversata nel deserto. E cosa c’è di meglio che stare l’opposizione — ci resterà fino al 2001 — per giurare che “Se il Polo vince fermeremo le tasse” (intervista a Il Tempo, 5 marzo 1996). Franco Modigliani, premio Nobel per l’Economia che sarebbe scomparso nel 2003, dalle pagine del Corriere avverte gli italiani: “Non fatevi infinocchiare. Non bevete le promesse demagogiche o irrealistiche sul fisco. E ricordatevi di Ronald Reagan: ha vinto promettendo agli americani meno tasse e una riduzione del deficit. Oggi è considerato il peggior presidente del dopoguerra”.
L’appello lascia il tempo che trova. Berlusconi attacca la Finanziaria di Romano Prodi che “punisce i redditi del ceto medio”. Nella primavera 1998 chiama i “moderati” alle urne per le amministrative e la sua ricetta, accanto a “buona amministrazione” e sicurezza, resta “meno Stato e meno tasse, per avere maggiore competitività e nuove aziende”.
Un anno dopo si inventa il Tax Day per lanciare la “campagna antitasse” del Polo mentre prende il via la campagna per le Europee.
“Se e quando torneremo maggioranza, nei primi 100 giorni daremo nuovamente il nostro sostegno alle imprese e detasseremo gli utili reinvestiti”, giura dal Palasport di Verona in collegamento audio con 100 città .
Poi annuncia che le aliquote saranno due, “una basica del 23%” e “dai duecento milioni in su, come aliquota massima quel terzo che è stato dettato dal nostro senso di giustizia, il 33 per cento di aliquota massima”.
Segue il “preciso impegno” a abolire “un’imposta odiosa“, quella di successione, che “nasce da una precisa ideologia contro la proprietà , e ha aliquote punitive”.
Nel 2000 si apre la marcia verso le politiche dell’anno successivo.
Nasce la Casa delle Libertà e il programma di aggiorna: non più dieci tasse, si corregge Berlusconi, ma “solo otto”, via quella di successione, “due aliquote per le persone fisiche, una sola aliquota per le imprese”.
Nel maggio 2001 il leader della coalizione di centrodestra sostiene che è ”assolutamente legale” l’utilizzo di società estere per pagare meno tasse. Scoppia la polemica.
La sera dell’8 maggio a Porta a porta sottoscrive il famoso Contratto con gli italiani. Che, sul fronte fiscale, recita: “Esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui”, “riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui”, “riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui”, “abolizione della tassa di successione e della tassa sulle donazioni“.
Nel maggio 2001 la Casa delle libertà vince le elezioni.
A settembre c’è da approvare la Finanziaria e il premier Berlusconi, incontrando le parti sociali, allarga le braccia e ammette: ”Abbiamo rinunciato per il momento e per necessità a un segnale forte di riduzione della pressione fiscale”.
“Non ho la bacchetta magica”, è la chiosa. Niente aliquota massima al 33%, insomma. Ma un contentino c’è: viene abolita l’imposta di successione.
L’Espresso calcola in 9,8 miliardi il risparmio per ognuno dei suoi cinque figli. A dicembre l’allora Cavaliere rivendica: il governo ”pur operando in ristrettezza non ha aumentato le tasse, cosa quasi miracolosa”.
Nel 2002 il piano sulla riforma Irpef sembra decollare: viene varato un ddl delega che prevede, seppure “a tappe”, l’approdo alle agognate due aliquote, oltre alla rimodulazione dell’Irap, al calo dell’aliquota per le imprese e alla proroga dello scudo fiscale sui capitali esportati.
A maggio c’è il primo sì della Camera. Nel marzo 2003 il ddl è legge. Ma a quel punto il progetto si arena. L’intesa con la Lega non si trova, gli alleati discutono per mesi, il vicepremier Fini frena sostenendo che basta mantenere l’impegno “entro fine legislatura”. A luglio il ministro dell’Economia Tremonti si dimette.
Nel frattempo la luna di miele con gli elettori è finita: il governo ha in cantiere una riforma delle pensioni che alza i requisiti per lasciare il lavoro.
Dopo lo sciopero generale di aprile le macchine si fermano, ma la riforma Maroni — quella che impone l’aumento da 57 a 60 anni dell’età anagrafica a partire dal 2008 — si farà comunque l’anno dopo.
E’ “urgente e ineludibile“, spiega in un messaggio tv a reti unificate Berlusconi — che oggi intende abolire la legge Fornero — ricordando l’invecchiamento progressivo della popolazione e avvertendo che la spesa sarebbe cresciuta “in maniera continuativa fino al 2030”, “una situazione non sostenibile”
“Se io lavoro e lo stato mi chiede il 33% è una richiesta corretta. Se mi chiede il 50 e passa mi sento moralmente autorizzato ad evadere per quanto posso”. 17 febbraio 2004: il presidente del Consiglio Berlusconi, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, giustifica l’evasione fiscale.
Il 22 aprile 2005 verrà chiesto il suo rinvio a giudizio nel processo Mediaset sulla compravendita dei diritti tv, che si concluderà nel 2013 con una condanna definitiva a 4 anni di reclusione per frode fiscale.
Di lì, per effetto della legge Severino, la sua decadenza da senatore e l’incandidabilità . In autunno all’Economia torna Tremonti e il taglio dell’Irap previsto dalle bozze messe a punto dal predecessore Domenico Siniscalco salta. In compenso ci sono “aiuti alle famiglie”, vedi un bonus bebè da 1000 euro per i nati nel 2005 (no, non l’ha inventato Renzi) e sconti fiscali per le ristrutturazioni immobiliari (grande classico, sempre prorogati).
L’Irpef viene ribattezzata Ire e sulla carta si prevedono le famose due aliquote, ma i decreti attuativi non verranno mai varati e nel maggio 2005 la delega scadrà . Il 21 settembre Berlusconi si era sfogato: ”Sono rimasto l’unico a volere il taglio all’Irpef sui redditi personali. Sembra strano visto che è una misura essenziale per la ripresa dei consumi, degli investimenti, della fiducia”.
“Avete capito bene, aboliremo l’Ici sulle prime case”. Il 3 aprile 2006, all’ultimo faccia a faccia televisivo con Prodi prima delle politiche, Berlusconi estrae dal cappello l’abolizione dell’imposta sulla prima casa. Il 7 aprile è sicuro: “Domenica e lunedì vinceremo perchè non siamo coglioni”. Vince l’Unione. Che ripristina la tassa sulle successioni e donazioni di alto valore. Berlusconi annuncia lo “sciopero fiscale”.
Nel gennaio 2008 Prodi cade. L’avvicinamento alle urne parte con il freno a mano tirato: “Niente miracoli” perchè la situazione “è molto, molto difficile”, anticipa il Cavaliere. Ma “cercheremo di ridurre in 5 anni la pressione fiscale sotto il 40% del Pil”. Come? Abolizione dell’Ici, detassazione degli straordinari e della tredicesima (”interventi che faremo nel primo consiglio dei ministri”), ritocchi dell’Iva e progressiva abolizione dell’Irap, introduzione progressiva del quoziente familiare, abolizione delle tasse di successione e sulle donazioni reintrodotte da Prodi. In aprile si vola più alto e spunta la pazza idea — “un sogno” — di anticipare di un mese il ‘tax freedom day’, il giorno dell’anno a partire dal quale i contribuenti lavorano per sè e non per il fisco.
Nonchè l’impegno di “abolire gradualmente, nel corso degli anni, la tassa sul bollo per auto, moto e motorini”. Puntuale ritorna anche l’obiettivo della “progressiva abolizione dell’Irap”, accompagnato da “versamento Iva dovuto solo dopo il reale incasso della fattura e riforma degli studi di settore“. Più che abbastanza: la coalizione di centrodestra vince con il 46,8% dei vot
All’indomani del voto, il 16 aprile, la musica cambia radicalmente: “Ci saranno misure impopolari“, riconosce il Caimano.
Il governo mantiene la promessa di togliere l’Ici, ma in cambio Tremonti vara la Robin Tax sugli utili delle imprese energetiche e di banche e assicurazioni.
Che verrà in gran parte pagata dai consumatori, come rilevato dall’Authority per l’energia, e nel 2015 sarà dichiarata incostituzionale. L’obiettivo di portare la pressione fiscale sotto il 40% diventa “di legislatura”, quindi in teoria c’è tempo fino al 2013.
Prima vanno tagliate le spese della pubblica amministrazione, spiega Berlusconi nel giorno in cui il capo dello Stato Giorgio Napolitano firma il lodo Alfano che sospende ogni procedimento penale a carico del premier per tutta la durata del mandato.
Non solo: serve il federalismo fiscale che ridurrà le spese inutili.
Intanto è iniziata la crisi finanziaria — “passeggera“, tranquillizza il Cavaliere — e gli effetti iniziano a sentirsi anche su quella reale. Il pacchetto anticrisi del governo delude e i consumi crollano, come il pil. “Dobbiamo avere fiducia“, è la ricetta del presidente del Consiglio.
Ad aprile c’è il terremoto dell’Aquila, servono fondi per l’emergenza e la ricostruzione. “Senza mettere le mani nelle tasche degli italiani”, assicura il governo. Nel 2009 arriva un nuovo scudo fiscale. E l’annuncio di un taglio dell’Irap che non arriverà per mancanza di coperture
Nel gennaio 2010 per ribaltare il tavolo non resta che rispolverare vecchie promesse: una riforma tributaria come quella immaginata nel ’94, con due sole aliquote.
Un sistema “che non obblighi i contribuenti a rivolgersi al commercialista“. Ma il primo consiglio dei ministri dell’anno è una doccia (gelida) di realtà : “L’attuale situazione di crisi non permette nessuna possibilità di riduzione delle imposte. E’ fuori discussione poter pensare a un taglio”, ammette il capo del governo. E’ lo showdown.
Tremonti cerca di metterci una pezza promettendo una riforma fiscale complessiva entro il 2013. A patto che il pil inizi “ad avere andamenti stabili sul 2%”. Purtroppo non succederà . A maggio “il rigore dei conti” è la “priorità assoluta”. La manovra estiva del 2010, che introduce tra l’altro la tassa di soggiorno, non basta. L’Ocse segnala che l’Italia è salita al terzo posto tra i Paesi industrializzati per peso del fisco.
Alle amministrative del 2011 il centrodestra perde Milano, nonostante le promesse di “una metropoli con meno tasse per tutti”.
Tremonti avverte che la riforma fiscale non si può fare in deficit ma Berlusconi non molla: “Tre sole aliquote, più basse, un sistema di detrazioni e deduzioni snello e trasparente e in tutto 5 imposte raggruppando le attuali”, promette a giugno, dimezzando il totale delle tasse rispetto a quanto promesso nel 1994.
Ma la Ue incalza sul pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico.
Ad agosto il governo approva una manovra che taglia i fondi agli enti locali, aumenta le accise sul tabacco e la Robin Hood tax sul settore energetico ma soprattutto introduce un contributo di solidarietà a carico di dipendenti, autonomi e pensionati con redditi alti.
“Il nostro cuore gronda sangue, era un vanto del governo non avere mai messo le mani nelle tasche degli italiani ma la situazione mondiale è cambiata”, lacrima Silvio.
Le opposizioni insorgono. Per mettere a posto i conti si parla di un nuovo condono o in alternativa di una patrimoniale, la nemesi del berlusconismo.
Nel novembre 2011 lo spread arriva a 574 punti. Lo Stato italiano rischia il crac. La sera del 12 novembre 2011 Berlusconi sale al Quirinale e dà le dimissioni.
La pressione fiscale, comunica l’Ocse, è al 43%. Contro il 38,7% del 1994.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
VERSO IL CONFRONTO NEL COLLEGIO DI MILANO 1
Si profila una sfida Boldrini-Salvini nel collegio Milano 1.
Manca ancora l’ufficialità , ma è stata la stessa esponente di LeU a esprimere il desiderio di una sfida con il segretario leghista a Milano.
“Dove mi candido? Quando sarà ufficiale si saprà , ormai è questione di giorni”, dice Boldrini parlando a Radio 1 ‘Un giorno da pecora’.
Le indiscrezioni dicono a Pesaro contro Minniti o Milano 1 contro Bonino e Salvini, quale le piacerebbe?
“Mi piacerebbero tutti e due, ma Salvini dice che mi vuole sfidare e allora non c’è niente di meglio che andare a casa sua a sfidarlo. Sì, forse mi piacerebbe di più sfidare Salvini”. E ancora: “Salvini deve capire un po’ di cose: che le donne non sono bambole gonfiabili o che le case chiuse non c’entrano con l’amore.. Lui dice che l’amore fa bene? Ma bisogna distinguere tra amore e sesso a pagamento”.
(da agenzie)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
RUDY IL FARMACISTA, ARMANDO CESARO DETTO ‘A PURPETTINA, LO STEWARD DIEGO, L’AVVOCATA E L’IMPRENDITORE CICCOPIEDI… TUTTI INTIMI DI FRANCESCA
Saranno candidati, o almeno ci sperano. 
Non è mai stata così attiva attorno al mondo di Forza Italia la cosiddetta “lista Pascale” – composta da alcuni strettissimi della fidanzata dell’ex Cavaliere (quella che le malelingue hanno soprannominato anche “corrente dei femminielli” per pura invidia).
Un giro di amici di antica data e variopinta fattura, che le foto circolanti sull’internet raccontano meglio di qualsiasi letteratura: i selfie per Halloween e quelli d’annata, le foto di compleanno (“se puoi sognarlo puoi farlo”, una sette piani Disney per Francesca questa estate, a Punta Lada) e i ricordi di matrimonio (la sorella, Marianna Pascale, autunno, a Ravello).
Ci sono anche stavolta più o meno tutti, come sempre.
Non c’è solo Rudy Cavagnoli, farmacista, onnipresente sin dai primissimi festeggiamenti ufficiali della coppia Pascale-Berlusconi.
Non c’è solo il più chiacchierato del momento: Armando Cesaro, detto ‘a Purpettina in quanto figlio del più noto Luigi, e adesso – possiamo dire all’alba della sua carriera politica – sotto inchiesta per voto di scambio, come il padre.
Rutilanti sono i nomi dell’avvocata Licia Polizzi; quello di Maria Tripodi, calabrese vice coordinatrice nazionale dei giovani azzurri; Marzia Spagnuolo, pugliese, vice coordinatrice provinciale a Foggia; la siciliana Vanessa Sgarito; lo steward Diego Peraino, da dodici anni attivissimo in Forza Italia a Civitavecchia; ma anche il veneto Roberto Bazzarello, amico suo oltrechè della Pascale, padovano come l’avvocato Ghedini, imprenditore nella comunicazione e talmente intimo da festeggiare un suo compleanno direttamente a Palazzo Grazioli (straordinario il dettaglio su Facebook: ha taggato il luogo preciso).
Ciascuno adesso è in predicato per essere ipoteticamente candidato nella regione di appartenzenza.
Alcuni hanno più probabilità , altri meno. In questa fase telefonano, postano, si fanno fotografare, diramano note, aggiornano profili più del solito.
Hashtag del tipo #toccaanoi. Si vedrà . Il più sbracciato è, pel momento, Leonardo Ciccopiedi, imprenditore, amico pure dei Mastella, comproprietario dell’Hotel Villa Traiano a Benevento e fra l’altro con imprese la cui sede è a Sofia, in Bulgaria.
«Il mio nome è circolato in questi giorni nella rosa delle candidature politiche. Tale ipotesi trova riscontro nella richiesta, a livello nazionale, del presidente Silvio Berlusconi di rinnovare il partito, rispetto alla casta», scrive Ciccopiedi nel suo sito internet, tra detto e non detto ( leonardociccopiedi.com ).
Tanta baldanza, della quale qui si è dato uno dei tanti esempi, mal si accoppia con l’understatement timido con il quale loro stessi almeno in questi giorni sfuggono a domande dirette circa la candidatura («non ne so niente», «posso parlare solo dopo il 29», eccetera).
Sarà prudenza o sarà realismo? Davvero finiranno in lista? In Forza Italia hanno già i capelli dritti, e non è un buon segno.
Di certo, troppa pubblicità mal si sposa con il profilo defilato che ha assunto la stessa Francesca Pascale negli ultimi tempi. «Sia chiaro, un conto è fare il tifo per Fi un altro è promettere cose che io, non avendo potere nè ruoli, non posso promettere nè fare», è il messaggio che lady Berlusconi cura di veicolare, in questi giorni imbarazzanti sul fronte dei Cesaro.
In effetti, a incrociare nel partito le voci, due sembrano le candidature sicure. Quella di Tripodi, vice coordinatrice nazionale dei giovani. E quella di Armando Cesaro, sul quale tuttavia — viste le novità giudiziarie — i dubbi sono in aumento (l’altra sera, l’ennesima convocazione ad Arcore non prometteva niente di buono).
C’è da dire che la divisione logistica tra la solita magione di Berlusconi e Villa Giambelli, dove da qualche tempo dimora la Pascale, non è fatta per semplificare le comunicazioni e le conclusioni: prima infatti le visite amichevoli si mescolavano più facilmente alla politica.
Adesso invece lei riceve spesso i suddetti amici, anche per non star sola; ma lui, l’ex Cav., non c’è, essendo in questa fase preda di riunioni, liste e campagna elettorale. Un assenso di Ghedini all’allegra compagnia, comunque, «è difficile che arrivi», sussurrano dal partito. Dove tutte queste incursioni pascaliane sono vissute in un un silenzio teso, quasi isterico.
Cederà Ghedini, o non cederà ? Manca pochissimo per saperlo.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
DAL 1994 IN POI IL CAV HA ATTINTO DA FININVEST E MONDADORI IN VISTA DEL VOTO
Un ritorno – anche se molto più contenuto nei numeri – al 1994, l’anno della discesa in campo e della vittoria alle politiche.
Ha questo sapore la decisione di Silvio Berlusconi di pescare nelle “sue” aziende per rinvigorire le liste di Forza Italia che saranno chiamate alla prova degli italiani il 4 marzo. L’ultima tentazione del Cav, in ordine temporale, è quella di candidare Adriano Galliani al Senato in Lombardia.
Ma altre personalità del mondo Mediaset e affini, come quello di Giorgio Mulè, che ieri si è dimesso da direttore di Panorama, sono pronti a vestire i panni del candidato nella lista azzurra.
Le voci sulla candidatura di Galliani si fanno sempre più consistenti. Secondo quanto appreso da Radiocor, Galliani è pronto a lasciare la presidenza di Mediaset Premium: lo dovrebbe fare a breve e proprio per accettare la candidatura con Forza Italia.
Galliani è uomo di cui Berlusconi si fida tantissimo, a tal punto da affidargli, per una stagione lunghissima, l’incarico di amministratore delegato di una delle sue creature più amate, il Milan.
Anche Mulè dovrebbe essere della partita del voto. E pure lui vanta una carriera trascorsa tra i giornali e le tv del gruppo Berlusconi. Ieri ha lasciato la direzione del settimanale e si è dimesso da tutti i suoi incarichi nella casa editrice Mondadori, affidando il suo addio a un post su Facebook, dove ha sottolineato: “Quel che farò parleremo nei prossimi giorni”.
Tra i nomi che appartengono alla galassia mediatica berlusconiana e che potrebbero finire in lista circola anche quello del direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, anche se alcune fonti vicine al partito azzurro spiegano che le sue quotazioni sono in discesa.
La dinamica, o meglio, la tentazione è chiara.
E così il pensiero va a quella tentazione che il Cav ha avuto fin dalla sua prima avventura politica.
Nel ’94 fu la volta, tra gli altri, del giornalista del Tg5, Giorgio Lainati. Nel 2015, Berlusconi scelse Giovanni Toti, volto storico di Mediaset (da Studio Aperto alla direzione del Tg5) per un posto di prestigio: la candidatura alla Regione Liguria. Ora la tentazione è ritornata e le liste di Forza Italia potrebbero riservare molte sorprese in questo senso.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
SCAZZOTTATA TRA DUE ATTIVISTI DURANTE IL CONSIGLIO COMUNALE…UN CONSIGLIERE SI DIMETTE: “IL M5S E’ UN REGIME CHE SI ALIMENTA CON LA DELAZIONE”
Gli ultimi sondaggi dicono che alle politiche del 4 marzo in Sardegna il MoVimento 5 Stelle
potrebbe stravincere. Sia alla Camera che al Senato il partito di Di Maio potrebbe fare il pieno di voti.
Al punto che qualche giorno fa Fabio Martini sulla Stampa parlava di un MoVimento 5 Stelle che si appresta a fare il “botto” al Sud, ovvero il pieno dei collegi uninominali essendo di gran lunga il primo partito.
Questo non vuol dire però il M5S in Sardegna sia un partito molto compatto o pacifico. Prova ne è lo spettacolo andato in scena durante l’ultimo consiglio comunale a Sassari con tanto di rissa tra consiglieri e attivisti a 5 Stelle.
Non è la prima volta che le tensioni interne ai 5 Stelle trascendono la normale dialettica politica.
A giugno a Carbonia gli strascichi di alcune dichiarazioni sessiste pubblicate su una pagina pentastellata provocarono un’accesa discussione in consiglio comunale.
Ad agosto a Roma l’allora assessore alla sicurezza del IV Municipio Alessandro Pirrone (M5S) rifilò un ceffone al consigliere pentastellato Domenico Milano.
A Sassari invece la rissa è scoppiata fuori dall’aula dopo che il consigliere Marco Boscani aveva annunciato durante la seduta il suo addio al MoVimento 5 Stelle.
Uscito dall’aula per parlare con i giornalisti assieme ad una decina di ex militanti del M5Sha incrociato alcuni attivisti del Movimento, fra cui Andrea Tirotto. Proprio Tirotto — riferisce la Nuova Sardegna — si è scontrato con l’ex M5S Marco Casu, da tempo fuori dal movimento per dissidi politici e personali.
Fra Tirotto e Casu è iniziata così una scazzottata cui è stato rapidamente posto fine dai presenti.
Non è chiaro chi abbia iniziato, Tirotto dice di essere stato aggredito e annuncia querele. La consigliera Desirè Manca lo definisce vittima “di un’aggressione fisica senza precedenti”.
Marco Casu invece ribatte che sarà lui a querelare Tirotto e di avere i testimoni per provare di non aver iniziato la scazzottata. Il capogruppo pentastellato Murru taglia corto e fa sapere che la rissa non ha nulla a che fare con la politica ma che all’origine ci sarebbero dissidi personali.
In un comunicato pubblicato sulla pagina Facebook del MoVimento 5 Stelle di Sassari i consiglieri pentastellati Maurilio Murru e Desirè Manca (già nota alle cronache per aver posato assieme al busto del Duce) rigettano ogni accusa e chiedono a Buscani di fare un passo indietro e di dimettersi dal consiglio comunale.
Boscani ha lasciato il M5S in polemica con i risultati delle Parlamentarie e la scelta dei candidati da presentare alle politiche di marzo.
Nel suo intervento ha parlato di “epurazioni chirurgiche” che però a suo dire avrebbero spianato la strada all’ingresso di elementi “incandidabili” decisi dall’alto. Il 18 gennaio Boscani aveva denunciato la presenza di almeno sei incandidabili ovvero di “esponenti che si sono candidati in liste concorrenti al Movimento in precedenti elezioni amministrative o che da iscritti hanno fatto campagna contro il M5S, in violazione dell’Art.6 del Regolamento delle Parlamentarie”.
Secondo Boscani il M5S è cambiato e ora è stata instaurata “una sorta regime che si alimenta con un sistema di delazione”.
Una questione che era già stata sollevata nei giorni scorsi dall’attivista Paola Friargiu che in quanto amica dell’eurodeputata M5S Giulia Moi sarebbe stata considerata “non allineata”. Chi non è in linea con i dettami dello Staff è fuori, come del resto è sempre accaduto nella storia del MoVimento 5 Stelle.
Nei commenti al post del M5S di Sassari c’è chi esprime la propria solidarietà a Buscani ma anche chi chiede conto del motivo dell’esclusione dalle liste del senatore Roberto Cotti, portavoce pentastellato uscente che per qualche ragione non è stato ricandidato da Rousseau. A quanto pare nemmeno i portavoce lo sanno perchè si limitano rispondere che “il garante avrà avuto le sue motivazioni”.
Quali siano queste motivazioni, che ci possono pur essere ed essere legittime, non è dato di saperlo. In fondo il MoVimento pratica la nota regola monastica della trasparenzaquannocepare.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
L’EX SENATORE ESCLUSO: “CANDIDANO GENTE CHE L’HA TRADITO”… “CENTINAIA DI PARLAMENTARI CHE NON FANNO UN CAZZO”
“Forza Italia non mi ricandida? Lo apprendo dai giornali, non ne so niente. Io inadatto? Di inadatti ce ne sono centinaia, ve lo dice il sottoscritto. Centinaia che non fanno un cazzo dalla mattina alla sera. Io sono lì sempre al lavoro”.
Commenta così Antonio Razzi, senatore di Forza Italia su Radio 24 la notizia che probabilmente sarà escluso dalle candidature con il partito di Silvio Berlusconi.
Riguardo alle scelte di Berlusconi Razzi afferma: “Se candidano gente andata via, che l’hanno tradito, addirittura l’hanno votato per uscire fuori dal Senato questa è la fine del Parlamento. Vuol dire che una cosa del genere fa schifo, me ne voglio andare, non lo voglio neanche più vedere”.
E al giornalista che gli ricorda di essere stato eletto con Di Pietro risponde: “Ho preso le preferenze. E nel 2013 sono stato eletto in Abruzzo, ero numero quattro e in quella posizione non veniva eletto manco Cristo. Io e Berlusconi abbiamo portato quella lista a vincere in Abruzzo”
“Penso – continua – che Berlusconi non c’entri niente. Penso a gente invidiosa perchè ho troppa popolarità e questo dà fastidio. Berlusconi questo non lo pensa e non l’avrebbe mai fatto. Lupi? Ma Lupi o la De Girolamo che ritornano e vengono là . Questo non è normale. Il marito presidente della commissione Bilancio del Pd…”.
“Non pretendo niente – aggiunge – e non me ne può fregare più di tanto. Ma per correttezza e gentilezza, minimo una telefonata: Antò, non ti posso candidare perchè vogliamo fare un cambiamento, candidiamo gente nuova, i giovani… invece gente che l’ha tradito, stanno lì. Mi poteva parlare”.
“Ghedini era mio compagno di banco, – spiega – l’ho incontrato alla Posta del Senato e gli dissi che volevo ricandidarmi. Lui mi rispose se non ricandida te, non candida nessuno. Per me la parola è un contratto”.
Il mutuo è finito di pagare? “Sì, quello sì per fortuna. E’ tutto a posto”
(da agenzie)
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Gennaio 24th, 2018 Riccardo Fucile
IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE COMPIE 40 ANNI, SEMPRE PIU’ AGGREDITO DA TAGLI E PRIVATIZZAZIONI… MENTRE LE LISTE DI ATTESA SI ALLUNGANO, I GIOVANI MEDICI VENGONO SOTTOPAGATI E GLI INFERMIERI COSTRETTI A TURNI DI 16 ORE
Quella mattina del 24 agosto Giuseppe Teori, ortopedico all’ospedale San Camillo de Lellis
di Rieti, se la ricorda benissimo, anche se ha perso il conto dei volti scioccati che gli sono passati davanti.
Su 240 barelle allineate c’erano i corpi martoriati degli abitanti di Amatrice. Lesioni, ferite di ogni tipo, fratture da schiacciamento.
Nella notte, mentre dormivano, la terra aveva tremato e le case erano crollate su di loro. «È stato un miracolo», racconta l’ortopedico.
Già , ma il miracolo l’hanno fatto soprattutto i 400 giovani medici accorsi da tutte le province del Lazio per salvare vite umane: «Molti di loro li conosco, è gente che da 16 anni tira avanti con un contratto a termine, sono giovani che prendono 100 euro per una guardia medica notturna o si accontentano di 20 euro e una pizza per fare il medico alla partita di pallone».
E un altro miracolo, quel giorno, l’hanno fatto i macchinari dell’ospedale che una volta tanto non si sono inceppati, nonostante vent’anni di carriera e rattoppi continui, che spesso obbligano il dottore a ripetere più volte gli esami.
Quella dell’estate 2016 è stata una situazione straordinaria, estrema, in cui il Sistema sanitario nazionale ha dimostrato di essere all’altezza di una catastrofe.
Ma poi ci sono poi i miracoli ordinari, nelle corsie d’Italia.
Quelli che si fanno tutti i giorni da dieci anni, da quando è cominciato il mantra dei tagli: meno 70 mila posti letto, meno diecimila professionisti, meno 175 ospedali.
Giovani medici precari, macchinari nell’83 per cento dei casi obsoleti. E vecchi primari: il 52 per cento dei camici bianchi ha più di 55 anni, record europeo.
Nel 2018 il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni. Fu istituito nel ’78 (Tina Anselmi ministro della Sanità ) con il compito non solo di curare la malattia, ma anche di prevenirla e di educare i cittadini alla salute.
Un compleanno poco allegro. perchè proprio quest’anno, per la prima volta in assoluto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme sulla sostenibilità del modello italiano.
La spesa sul Pil cala
Stando ai dati pubblicati dal Consiglio dei ministri nel Documento di economia e finanza, nel 2018 il rapporto tra la spesa sanitaria e la ricchezza prodotta nel Paese, cioè il Pil, scenderà a quota 6,5 per cento, soglia limite indicata dall’Oms.
Sotto, non è più possibile garantire un’assistenza di qualità e neppure l’accesso alle cure, con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita.
L’emergenza continuerà nel 2019, quando si scenderà al 6,4 per cento, per poi sprofondare al 6,3 nel 2020. «Fino al 2015 i tagli sembravano giustificati dalla crisi economica, ma anche adesso che abbiamo imboccato la ripresa il definanziamento è inarrestabile», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, dove da anni si studia con analisi e report la sanità italiana
Impietosa è la fotografia scattata dal Cergas, il centro studi dell’Università Bocconi di Milano, che ogni anno tasta il polso alla salute nel nostro Paese.
«Il nostro è il sistema che costa meno in assoluto: con pochi soldi riusciamo ad avere livelli qualitativi di cure intensive simili a Francia e Germania. Ma stiamo ponendo una pesante ipoteca sul futuro, perchè manca tutto il resto. Dopo l’ospedale, non c’è assistenza per gli anziani non autosufficienti, che oggi sono 2,8 milioni e tra 10 anni saranno 3 e mezzo. Non avendo altro posto dove stare, il 60 per cento di quelle persone continua a entrare e uscire dagli ospedali, ingolfandoli. E il carico dell’invecchiamento è sulle spalle delle famiglie, che non possono reggere oltre», spiega Francesco Longo, direttore del Cergas
Liste d’attesa fuori controllo
Un segno tangibile dell’affanno del sistema sono le liste d’attesa fuori controllo. Qualche esempio? Tre mesi e mezzo per una visita oculistica a Milano, quasi quattro per una mammografia al Sud, dicono i numeri di Cittadinanza Attiva. Il risultato è che molti italiani “consumano meno sanità ”, cioè spesso rinunciano: alle analisi, alla prevenzione, alle terapie. Dice l’Istat che il 6,5 per cento della popolazione ritarda o non si cura più.
Eppure qualcuno ce l’ha fatta ad affrontare il problema delle liste.
Come l’Emilia Romagna, che ha usato la strategia del bastone e della carota. La carota sono i 15 milioni l’anno di incentivi alle aziende sanitarie virtuose; il bastone è stata la minaccia di licenziare i dirigenti incapaci di risolvere l’emergenza entro 18 mesi.
In più la regione si è dotata di un software che settimanalmente monitora il servizio in ogni struttura. «Siamo disposti a regalare il nostro modello alle altre regioni», dice Antonio Brambilla, responsabile sanità dell’Emilia. Chissà chi accetterà la sfida. Per ora solo il Lazio si è messo in scia.
L’Emilia ha anche messo una spada di Damocle sui reparti che funzionano peggio, minacciando la sospensione della libera professione fino a che non si riducono le liste d’attesa.
Già , perchè la metà dei medici del Servizio sanitario nazionale ha l’abitudine di tenere il piede in due scarpe, metà giornata lavora nel pubblico, l’altra nel privato. Tutto legale, ci mancherebbe. Ma discriminante socialmente: i benestanti possono avere diagnosi e terapie molto prima di chi benestante non è.
La correlazione fra libera professione dei medici e liste d’attesa è un tema su cui si sofferma anche Raffaele Cantone, il capo dell’Anac, l’agenzia nazionale contro la corruzione: «La sanità è ai primi posti per il rischio corruzione e le liste d’attesa ne sono uno snodo importante, perchè rappresentano uno degli strumenti attraverso cui si verifica lo sviamento dal pubblico. È legittimo che un cittadino scelga il sistema privato, ma quando quest’ultimo diventa di fatto obbligatorio, allora è certamente un fatto illecito. Servono regole più chiare», avverte Cantone.
Del resto le cifre parlano da sole: le liste d’attesa hanno fatto impennare la spesa privata per la salute, le famiglie sono arrivate a sborsare – di tasca propria o tramite una mutua privata – oltre 35 miliardi.
Eppure l’ultima classifica Bloomberg colloca la sanità italiana al terzo posto al mondo per efficacia: «Succede perchè l’ente americano mette in relazione l’aspettativa di vita con i soldi spesi per la salute. E visto che gli italiani, per vari motivi, sono particolarmente longevi, la contestuale riduzione del finanziamento ci fa conquistare il podio», spiega Cartabellotta.
Che mostra invece il dato più puntuale (e drammatico) dell’Euro Index Consumer Health: qui l’Italia è al ventiduesimo posto su 35 paesi, ma soprattutto è crollata di 11 posizioni in dieci anni.
Uno dei nostri beni più preziosi, in termini di welfare, si sta sgretolando. Aggiunge Cartabellotta: «L’indice più accurato per valutare l’efficacia del sistema sanitario è la cosiddetta “aspettativa di vita in buona salute”, per la quale siamo al di sotto della media europea. Insomma viviamo sì a lungo, ma peggio che altrove».
La vergogna dei doppi turni
Intanto i sindacati di medici e infermieri hanno deciso di entrare in “stato d’agitazione” dal 22 gennaio, preannunciando disagi negli ospedali pubblici. La protesta, dicono, è l’unico modo per attirare l’attenzione dei politici, tutti presi dalla campagna elettorale. «Il diritto alla salute è già stato tolto. E i politici hanno il dovere di dirci quale modello di sanità intendono dare agli italiani», dice Costantino Troise, segretario dell’Anaao, il maggior sindacato dei medici.
Anche il ministro uscente della Salute, Beatrice Lorenzin, è in campagna elettorale con il suo nuovo partito, Civica Popolare, per il quale ha lanciato lo slogan «nido gratis per tutti». Ma secondo Troise la sua gestione della sanità non merita la sufficienza: «Sono state fatte anche cose positive, non lo nego. Ad esempio l’Italia è fra i pochi paesi a garantire i costosi farmaci per la cura dell’epatite C. Ma questa è anche la legislatura che ha accentuato più di tutte il definanziamento del servizio sanitario. Forse perchè è il ministero dell’Economia a decidere tutto?», si domanda Troise.
E snocciola i dati: nel 2013 la quota di spesa pubblica era del 7,1 per cento sul Pil, nel 2018 è scivolata al 6,5. «Francia e Germania spendono il 30 per cento più di noi», incalza il sindacalista dei medici.
I dottori chiedono anche più soldi (i loro salari sono fermi da dieci anni) e lo sblocco del turnover, che consentirebbe l’ingresso di nuovo personale negli ospedali.
Legittimo, ma il rapporto Cergas dice che l’emergenza più grave è un’altra: mentre il numero dei medici è pressochè in linea con quello della Germania e della media europea, sul fronte degli infermieri andiamo malissimo: ci sono 5,4 unità ogni mille abitanti contro i 9 della media Ocse, i 10,2 della Germania, i 18 della Svizzera.
E in Italia quelli in servizio, sia per far quadrare i conti famigliari (guadagnano 1.200 euro al mese o meno) sia per non lasciare i reparti scoperti, sono spesso costretti a doppi turni, fino a 16 ore consecutive: con un inevitabile crollo d’ attenzione e di cura per i pazienti e con un massacro per loro.
All’inizio di gennaio, ad esempio, un’infermiera di 66 anni dell’ospedale di Anzio ha dovuto fare un doppio turno al termine del quale è caduta a terra colpita da un’emorragia cerebrale. Come – o peggio – che in un film di Ken Loach.
Anche per i posti letto in Italia siamo molto indietro: 3 ogni mille abitanti contro i 4 della media Ocse e gli 8,1 della Germania.
«In Italia un medico costa come tre infermieri. Forse bisognerebbe puntare su questi ultimi, ma una svolta di questo tipo, in Italia, non è facile da mettere in atto», dice il professor Longo della Bocconi.
L’altra emergenza sono i giovani.
Spiega Andrea Filippi della Cgil medici che il calvario della precarietà è iniziato nel 2001, quando sono comparsi i primi contratti a termine. Oggi ci sono 12 mila specialisti con rinnovo annuale e una paga base di circa 80 euro al giorno. Gli anni di attesa per una stabilizzazione sono 15.
Dalle regioni al collasso, tipo la Campania e la Calabria, i giovani fuggono e cercano lavoro al nord. Come ha fatto Chiara (nome di fantasia necessario per garantirle il suo posto da medico precario), napoletana, emigrata in terra comasca: «Ho provato a cercare lavoro a Capua, dove riuscivo a guadagnare 100 euro netti ogni dodici ore di turno in guardia medica, meno di una colf. Poi sono venuta in Brianza: qui ho un contratto di sostituzione in guardia medica e prendo 240 euro per 12 ore di turno notturno, sempre con partita Iva. Ma non basta per arrivare alla fine del mese, così nelle altre notti lavoro all’Humanitas, un ospedale privato di Milano che mi paga 14 euro netti all’ora».
Ma per i medici la discesa verso gli inferi del precariato è ancora lunga e dal girone del cottimo si passa a quello del caporalato.
Così lo definisce Alessandro Vergallo, presidente dei medici anestesisti e rianimatori, che ha inviato una serie di segnalazioni al ministero indicando i nomi delle cooperative che, in regime di subappalto, gestiscono interi reparti di ospedali pubblici e cercano urgentemente medici.
Succede a Caorle e Bibione, dove la cooperativa Cssa cerca medici «per il weekend nei punti di primo intervento».
Succede al San Camillo di Roma e all’ospedale di Cervia dove la Medical Line Consulting cerca specialisti per poterli inserire «all’interno di alcuni di questi progetti lavorativi», come recita l’annuncio.
Accade a Pieve di Coriano (Mantova), dove la Medical Service Assistance ricerca «collaboratori per il presidio ospedaliero, da inserire in sala operatoria».
Vergallo sostiene che l’assunzione di medici attraverso coop è diventata una prassi, avallata dalla patologica carenza di personale: «Un fenomeno che fior di commissari e direttori generali nominati dalla politica non sono stati in grado di prevedere. La situazione è drammatica, ma non per questo bisogna tappare i buchi in modo illegale», dice Vergallo.
Camici bianchi in fuga
In fondo alla catena sanitaria, gli ultimi sono i medici neolaureati e gli specializzandi. Il sistema formativo permette a un solo medico laureato su due di accedere al percorso di specializzazione.
Quest’anno per 6.676 contratti di specialistica, si sono presentati in 15 mila, dicono da Federspecializzandi. Sono rimasti appiedati ottomila neolaureati, costati allo Stato 24 mila euro ciascuno per la formazione. Ed è probabile che molti prenderanno la via dell’estero, e che saranno ben accolti da Inghilterra, Germania e Francia.
Chi invece resta in Italia per la specializzazione si fa carico di grossissime responsabilità . Carte alla mano, il sindacato dei medici anestesisti mostra come alle volte nelle sale operatorie di Borgo Trento e nell’azienda ospedaliera universitaria integrata di Padova l’unico anestesista presente sia in realtà un giovane specializzando, che in teoria dovrebbe essere affiancato da un anestesista vero.
Idem nelle sale rianimazione post operatorie. «Per far fronte all’assenza di anestesisti, in una sala operatoria interviene lo specializzando che si registra con la sigla Mif, “medico in formazione”.
In un’altra sta l’anestesista, che fa da tutor e, in caso di urgenza, dovrebbe correre ad aiutare il giovane», racconta Vergallo. È sempre filato tutto liscio, tranne una volta. Era il 2008 e un giovane anestesista, lasciato solo in sala rianimazione, sbagliò una manovra. Il paziente morì. Il giovane fu accusato di omicidio colposo.
Il miracolo, quella volta, non ci fu.
(da “L’Espresso”)
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