Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
L’IDEATORE DI DON CAMILLO E PEPPONE ERA UN TIPO TOSTO, LO DIMOSTRO’ ANCHE QUANDO SI RITROVO’ INTERNATO IN UN LAGER NAZISTA…QUELLA VOLTA CHE SI PRESENTO’ DA SOLO A REGGIO EMILIA IN UN TEATRO PIENO DI MILITANTI COMUNISTI CHE, AMMIRATI DAL SUO CORAGGIO, ESPLOSERO IN UN APPLAUSO
Per me Don Camillo e l’Eur, da ragazzo, mi facevano lo stesso effetto: ne ero attratto, però la
mia cultura non me lo faceva ammettere.
Mi piaceva il Palazzo della Civiltà del Lavoro, che noi romani avevamo ribattezzato “il Colosseo quadrato”, mi piaceva il Palazzo dei Congressi, mi piacevano le larghe vie con i portici che ti davano la sensazione di essere in una città irreale, quasi avveniristica, ripresa da un quadro di De Chirico.
Mi piaceva anche il Foro Italico, con i suoi stadi monumentali, i suoi pavimenti in mosaico e i palazzi dipinti in rosso pompeiano.
Mi piaceva Don Camillo e mi piaceva soprattutto Peppone, mi piaceva quella loro competizione infinita su cui riuscivano a trovare sempre un accordo di fondo.
Si faceva presto a capire che Don Camillo e Peppone erano due italiani, mossi dalle stesse passioni e dagli stessi sentimenti, divisi soltanto dalla politica
E mi era sembrato di capire che le simpatie di Guareschi andassero non al pretone prepotente ma al sindaco sanguigno e un po’ coglione, che sogna di fare nella Bassa Emiliana il paradiso dei proletari, come l’avevano fatto in Russia.
La stessa intuizione l’avevano avuta il regista e il produttore del film che avevano offerto, proprio a Guareschi, la parte di Peppone. Guareschi girò le prime scene, poi alzò le braccia e disse “recitare non è mestiere mio” e aprì la strada a quello straordinario attore che era Gino Cervi
Poi, quando mi sono maturato, mi sono detto: l’Eur con la sua architettura razionalista è bellissimo, è un capolavoro che si aggiunge ai millenni di storia dell’arte che convivono nella Città Eterna, così Don Camillo ci racconta una Italia unica e irripetibile, che cerca una sua unità e anche una sua concordia nazionale.
Oltre ai film, lessi i racconti e poi imparai a conoscere il personaggio Giovannino Guareschi, un tipo tosto, uno che non si arrendeva mai, neppure quando, da miliare italiano, si ritrovò internato in un lager nazista.
“Non muoio nemmeno se mi ammazzano” disse a se stesso e fu così perchè visse quel terribile periodo della sua vita da uomo libero, dentro. E quella esperienza ce la raccontò in un libro bellissimo, Diario clandestino
Oppure come quando fu sfidato dai compagni di Reggio a un pubblico dibattito. Giovannino si presentò solo nel teatro di Reggio, che brulicava di compagni e di bandiere rosse.
Quando i compagni lo videro, lo subissarono di applausi in onore al suo coraggio. Giovannino si commosse e le prime parole che pronunciò furono: “compagni mi avete fregato!”.
O quando, da direttore di Candido, si trovò a pubblicare lettere, risultate false, che calunniavano De Gasperi, prese la sua sacca e se ne andò in carcere a scontare la condanna, senza cercare di scusarsi, di chiedere grazia.
E nella storia d’Italia rimase l’unico giornalista ad andare in prigione per un reato a mezzo stampa.
Alla fine degli anni Settanta, gli anni di piombo e della follia politica, dove tanti, troppi, giocavano alla rivoluzione e alla controrivoluzione, mi ritrovai, insieme al mio amico e sodale Franco Bonvicini, il grande cartoonist che si celava dietro il nome di Bonvi, a leggere a Lucca, durante il Salone dei Comics, una recensione di Don Camillo, ripubblicato dopo diversi anni dalla Rizzoli, che incominciava così: “Prendere in mano questo libro è come averlo raccolto da una pozzanghera…”.
Bonvi e io, giovani di sinistra che avevano letto e apprezzato Guareschi, fino a quel momento quasi “clandestinamente”, decidemmo di uscire allo scoperto e proponemmo alla direzione del Salone di dedicare una grande mostra a Giovannino Guareschi, che era anche vignettista e disegnatore.
La nostra proposta cadde nel silenzio più imbarazzato e Bonvi ed io abbandonammo la riunione.
Oggi, dell’autore di quella recensione si è perso persino la memoria (io stesso non ricordo neppure il nome), mentre l’opera di Guareschi continua a vivere con i suoi libri e con i suoi film, che sono più replicati dei film della Walt Disney.
E mi piace pensare che, se Peppone e Don Camillo avessero continuato a vivere anche nella realtà , il Comune di Brescello non sarebbe stato “commissariato per mafia”, come sciaguratamente è successo.
Giancarlo Governi
(da Globalist)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
FRASI MAI DETTE A LORO ATTRIBUITE: “E’ UN ESPERTO CON UNA STRATEGIA PRECISA”…ORA E’ IRRAGGIUNGIBILE… LO DICIAMO DA TEMPO, SIAMO DI FRONTE A UNA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE DI CUI QUALCUNO TIRA LE FILA
Prima un post con una dichiarazione di Roberto Saviano in cui lo scrittore, durante un’intervista a ‘Che Tempo che fa’ avrebbe dichiarato “Sinceramente preferisco salvare i rifugiati e i miei fratelli clandestini, che aiutare qualche terremotato italiano piagnucolone e viziato”.
A distanza di poche ore, un altro intervento sui social per diffondere una frase che l’ex premier, Matteo Renzi, avrebbe proferito in merito ai migranti, ritenuti migliori degli italiani.
Poi è toccato all’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, essere protagonista di un meme in cui si riporta un attacco agli italiani ‘capaci solo di lamentarsi’, invece di lavorare.
Infine un post in cui, sotto la foto di Cecile Kyenge, appare il testo di una dichiarazione risalente al 2017 secondo cui l’ex ministro dell’Integrazione del governo Letta avrebbe espresso il desiderio di trasformare tutte le chiese cristiane in moschee.
E, nel giro di poche ore, tutti questi post di tale Lara Pedroni, hanno riscosso migliaia di condivisioni in Rete, diventando virali.
Peccato, però, che, come ha scoperto e riportato David Puente, nel suo blog di debunking, sono tutte ‘fake news’, costruite e diffuse ad arte su pagine web nelle quali reputarle vere non sarebbe stato difficile.
Il metodo utlizzato dall’autrice – ma è quasi sicuro che il nome ‘Lara Pedroni’ sia poco attendibile come le notizie riportate e le foto del profilo, ora cancellato – è stato lo stesso utilizzato in operazioni simili: una foto del protagonista, con sovrimpressa la frase incriminata, e l’invito a far girare la notizia il più possibile.
Detto – fatto: il post riguardante Saviano ha totalizzato più di 20mila condivisioni e anche gli altri sono stati molto visti.
“L’attività di diffusione è ben ponderata, infatti ‘Lara’ ha condiviso i meme nei gruppi Facebook adatti a quel tipo di contenuto”, spiega nel Blog Puente, che per smascherare la costruzione è andato a verificare cosa realmente avessero detto i politici e i personaggi presi di mira
FRASI MAI DETTE
Nella puntata del programma di Fabio Fazio, Saviano non ha mai rilasciato quella dichiarazione, come risultano falsi tutti i virgolettati successivi.
Ma l’attività di Puente è andata oltre: ha verificato anche il profilo di Lara Pedroni, smascherando le incongruenze delle foto e delle informazioni riportate: a quanto pare le immagini della ragazza mora sono di Jezebel Alice Stewart Ellwood, una modella inglese.
“La segnalazione del post su Saviano mi è arrivata da un amico su Facebook – spiega Puente – e mi sono subito attivato. A far scattar scattare il campanello d’allarme è stato il fatto che in poco tempo fossero pubblicati tutti i post su un profilo nel quale l’attività non era così frequente”.
VERIFICHE INCROCIATE
Puente ha verificato l’intervista di Saviano, cercando in rete il video e ha subito pubblicato sul suo blog la notizia della bufala. Poi ha approfondito l’indagine sull’autrice: “Mi è sembrato strano che tutte le immagini fossero del 12 settembre 2017 e ho notato che nelle foto qualcosa non andava”.
Esperto di grafica e velocissimo con il pc, Puente in 20 minuti ha verificato che i colori delle foto erano stati modificati per impedire di trovare gli originali in Rete e le immagini riflesse. Per intenderci, erano al contrario di come dovrebbe essere un selfile.
METODO A PROVA DI CLIC
Ma è stato il metodo di condivisione utilizzato a dare al blogger la certezza di aver individuato una fake news: “La modalità è quella che contesto: i post erano stati condivisi su siti pro Salvini, pro Putin e anche in pagine Facebook simpatizzanti con il Movimento 5 Stelle. In gruppi di questo tipo, postare notizie del genere agisce sull’emozione degli utenti e la reazione è immediata”.
UNA MANO ESPERTA DIETRO LE BUFALE
Non si può, però, pensare a uno scherzo: “Dietro a questa operazione – chiarisce Puente – è inimmaginabile ci sia un adolescente o un anziano inesperto. È tutto troppo studiato e calcolato per raggiungere un risultato, che è arrivato, dato quante condivisioni sono state raccolte”.
VIA DAL WEB
L’ultima attività di Lara Pedroni è stata quella di pubblicare un post relativo al deputato Khalid Chaouki, condiviso su quattro gruppi strategici. “Ho allertato gli utenti di quanto avevo scoperto e loro hanno iniziato a criticare duramente l’autrice dei post. Nel giro di pochi minuti tutte le attività di Lara sono scomparse e il suo account non è più raggiungibile”.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
DOPO ANNI DI OCCUPAZIONE GLI STRANIERI HANNO BUSTE PAGA PIU’ BASSE, MENTRE QUELLE DEGLI ITALIANI AUMENTANO
I migranti non rubano il lavoro agli italiani, svolgono le occupazioni che loro non vogliono più
fare e – anche dopo anni sul cantiere, in fabbrica o a rassettare le camere degli alberghi – guadagnano meno dei dipendenti locali.
Non solo: la loro presenza nel mercato del lavoro ha fatto gonfiare (anche se di poco) le buste paga di chi è nato in Italia.
Non è una serie di slogan messi in fila ma il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista “Economia Italiana” e riportato da Financial Community Hub.
I ricercatori hanno lavorato sui dati che l’Inps ha raccolto tra il 1995 e il 2015. Vengono presi come riferimento i dipendenti del settore non agricolo: si tiene conto dell’ingresso dei migranti nel mercato occupazionale, della loro disponibilità a muoversi sul territorio per cercare un’occupazione nuova e della reazione dei salari al loro arrivo nel mercato italiano.
Si legge su FCHub:
Su quest’ultimo punto l’analisi empirica dà un risultato che rovescia la vulgata, perchè in realtà la concorrenza dei migranti ha un effetto positivo — anche se piccolo – sul livello della paga del nativo.
Le conclusioni che gli studiosi hanno tratto smontano punto per punto la retorica del migrante che toglie il lavoro agli italiani. E hanno dimostrato come, invece, i dipendenti italiani continuino a guadagnare più degli stranieri.
La questione cruciale resta il rapporto tra i salari degli uni e degli altri. Qui i dati Inps, presso cui si registrano le retribuzioni lorde, testimoniano che i salari dei migranti subivano una penalizzazione del 30 per cento nel 1995, che con il tempo è aumentata fino al 40 per cento. La spiegazione — ragionano gli autori della ricerca – non è una recrudescenza dello sfruttamento, ma potrebbe dipendere dal fatto che i migranti sono lavoratori più giovani e meno qualificati.
Il fatto che gli stranieri guadagnino meno degli italiani non ha generato una concorrenza al ribasso ai danni di questi ultimi. Al contrario, ha contribuito a un leggero aumento dei loro salari.
I ricercatori scrivono:
“I risultati delle nostre analisi mostrano come l’ingresso dei migranti nei mercati locali del lavoro non indebolisce ma anzi aumenta, seppure in maniera molto lieve, i salari dei nativi: una variazione dell’offerta di lavoro migrante del 10% spinge i salari dei nativi in alto di 0,1%”
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
LA TITOLARE DELLA “LOCANDA RIGATONI” DI ROMA: “SIAMO SEMPRE STATI GAY- FRIENDLY, SOLO UN ATTO SCONSIDERATO DI UN SINGOLO”
Erano andati a cenare in un ristorante ma, al momento del conto, è arrivata l’amara sorpresa per una giovane coppia gay. E’ accaduto lo scorso giovedì quando un ragazzo romano omosessuale di 21 anni, e il suo fidanzato, sono andati alla Locanda Rigatoni, in via Domenico Fontana, vicino Piazza San Giovanni, per cenare.
La coppia era andata per passare una serata tranquilla e hanno ordinato dei primi, chiedendo di sostituire del pecorino con del parmigiano.
Alla fine della cena, quando è arrivato lo scontrino, hanno trovato scritto sullo scontrino: Pecorino NO, Froci SI
Mentre sui social il ristorante colleziona lamentele e impazza la polemica, nel ristorante di via Domenico Fontana va avanti il servizio del pranzo: la direttrice, raccontano i camerieri, è in lacrime.
“Il ragazzo che ha battuto quello scontrino è già stato licenziato, ovviamente”, spiega un dipendente. “Tra l’altro, veniva a lavorare saltuariamente, solo a chiamata, nei giorni con più prenotazioni – prosegue – Dispiace che per l’errore di uno ora la nostra attività sia etichettata come omofoba: siamo sempre stati gay-friendly, alcuni camerieri che hanno lavorato qui in passato erano omosessuali e si sono sempre trovati bene. Da noi si è addirittura tenuta la festa di matrimonio di una coppia gay”.
Ma torniamo al fatto. “I ragazzi hanno fanno notare al cameriere che tale scritta non era divertente – ha raccontato Fabrizio Marrazzo responsabile Gay Help Line e portavoce Gay Center – ma il cameriere, ridendo, ha riferito che sarebbe stato un errore del computer, continuandoli a prendere in giro. Il ragazzo ha poi fatto notare che quello “scherzo” è per loro offensivo, dicendo: “Guarda nessuno sta ridendo, sei una persona infantile, nessuno si è mai permesso di trattarmi in questo modo nella mia vita”.
A quel punto è intervenuta la proprietaria, ribadendo che è stato un problema del computer, cercando di minimizzare. Solo dopo 30 minuti di discussione la proprietaria, senza mai chiedere scusa, ha dichiarato che non gli avrebbe fatto pagare il conto. Come se non bastasse il cameriere è tornato lamentandosi con i ragazzi, che per colpa loro ha fatto una brutta figura con gli altri clienti.
“Dopo l’evento i ragazzi hanno contatto il sito LGBT Bitchyf ed il nostro numero verde 800713713 Gay Help Line, dove gli abbiamo offerto supporto legale”.
“Quanto accaduto al ristorante “Locanda Rigatoni” è un fatto molto grave – ha dichiarato Marrazzo – purtroppo ogni anno riceviamo oltre 20.000 contatti al nostro servizio, per episodi di omofobia, e molti di questi episodi sono visti come divertenti dagli aggressori anche in casi di violenza. Quanto accaduto non ha nulla di divertente. Non è accettabile che una coppia gay non possa andare in un ristorante nel centro della Capitale senza venire offesa e rovinarsi la serata. Richiediamo alla Sindaca Raggi di revocare la licenza al ristorante e valutare anche le sanzioni da adottare. I ristoranti sono dei locali con licenza pubblica e pertanto azioni discriminatorie non possono essere consentite. Inoltre, invitiamo sin da subito tutti i cittadini e turisti a boicottare tale ristorante.”
“Gravissimo l’episodio di omofobia denunciato da Gay Center, che ha raccolto la testimonianza di due clienti di un ristorante in zona San Giovanni. Condanniamo apertamente ogni forma di discriminazione e scherno lesive di dignità e libertà personali. Episodi simili offendono tutta la città . Saranno avviate in ogni caso le opportune verifiche, anche a seguito dell’eventuale denuncia”. Lo dichiarano in una nota congiunta Carlo Cafarotti, assessore allo Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro di Roma Capitale e Flavia Marzano, assessore alla Roma Semplice.
Ora il licenziamento speriamo serva d’esempio a rendere le persone più civili.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
IL GIUSLAVORISTA CAZZOLA: “RIDICOLA LA POLEMICA CON BOERI QUANDO L’ART 14 COMMA 2 DEL DECRETO DIGNITA’ PREVEDE UNA COPERTURA PLURIENNALE DETERMINATA DALLE MINORI ENTRATE DERIVANTI DALLA MINORE OCCUPAZIONE”
Che nessuno — anche a seguito delle dichiarazioni irresponsabili sull’Ilva svolte alla Camera –
abbia chiesto con forza le dimissioni di Luigi Di Maio è la prova che ci stiamo avviando a marce forzate verso un regime giallo-verde.
È insostenibile la linea di condotta del ministro sulla vicenda della tabella inserita (come da sua pubblica versione) nel corso del tragitto tra il Ministero e il Quirinale, nella Relazione Tecnica al disegno di legge Dignità ad opera di una congiura internazionale (la “manina”) con addentellati negli apparati dello Stato.
Era da subito evidente (ben prima dell’audizione in cui Tito Boeri ha ricostruito in modo inoppugnabile i fatti) che si trattava di una montatura tesa a neutralizzare la scoperta per cui il “gioiello” della consorteria gialla del governo, invece di creare nuovi posti di lavoro più tutelati, ne distruggeva almeno 80 mila in un decennio (HuffPost è stato tra i primi a mettere in chiaro come non ci fosse alcun bisogno di dissertare sulle origini della tabella, quando l’articolo 14 comma due del decreto stesso prevedeva una copertura finanziaria poliennale delle minori entrate fiscali e contributive derivanti (in conseguenza della minore occupazione) dagli effetti delle norme sui contratti a termine e sull’incremento dell’indennità di licenziamento ingiustificato.
Ma Di Maio ha confermato, ugualmente, la sua versione contraffatta in Aula alla Camera e — questo è l’aspetto più grave — ha consentito, in prima battuta, che fossero accusati del misfatto organi ed istituti cruciali della pubblica amministrazione, facendo trapelare il proposito di intransigenti repulisti nei ministeri coinvolti e minacciando un uso vendicativo dello spoil system.
Nel bel mezzo di questo vergognoso episodio dei “tempi nuovi”, c’è stato un altro ministro che avrebbe fatto meglio a non farsi coinvolgere nella pagliacciata della “manina”.
Mi riferisco a Giovanni Tria (che peraltro conosco e stimo da almeno un quarto di secolo), il quale ha sottoscritto con Di Maio una nota congiunta, nella quale era confermata l’azione lobbistica della “manina”, ma veniva scaricata sull’Inps tutta la responsabilità della tabella infiltrata, ritenuta dallo stesso Tria — ecco il poderoso assist a Di Maio – priva di valore scientifico e perciò discutibile
Tutto ciò col nobile proposito di ottenere un’assoluzione in istruttoria, da parte del ministro, per gli apparati del Mef e della Rgs (poi si vedrà che cosa succederà alla scadenza del mandato di Daniele Franco).
Va ricordato, a onor del vero, che — se congiura ci fosse stata veramente — la Ragioneria non avrebbe potuto cavarsela affermando “È stato Boeri”, perchè la responsabilità finale della Relazione Tecnica è solo sua.
È la Ragioneria che, considerata tutta la documentazione raccolta, appone in calce il famoso “bollino” che assicurando la conformità tra oneri e copertura delle norme di spesa garantisce il proseguimento nell’iter legislativo.
Quindi l’Inps – e tanto più Boeri (il quale non passa le notti ad elaborare tabelle truffaldine, ma si fida dei suoi uffici – non avevano nessuna colpa. Come avviene in questi casi, era in corso da settimane una normale e stretta collaborazione tra gli uffici dei ministeri competenti e l’Inps, con uno scambio di informazioni e di messe a punto se del caso ripetute. Ma il tavolo dove finisce lo scarico del barile è quello del Ragioniere generale.
Dal canto suo, Matteo Salvini, tra una caccia ai negher e una chiusura dei porti, non ha esitato a chiedere le dimissioni di Tito Boeri accusandolo di “fare politica”.
Certo la presidenza del professore della Bocconi è stata molto attiva e vivace ed è spesso approdata a iniziative parecchio discutibili proprio sul piano dello sconfinamento dei ruoli.
Ricordo le polemiche contro i vitalizi e le c.d. pensioni d’oro, corredate anche da articolate proposte sul piano tecnico.
In seguito l’Inps non esitò a presentare — con il titolo “per equità e non per cassa” — persino uno schema di disegno di legge, con tutti gli annessi e connessi, di riforma della legge Fornero e di riordino più complessivo del sistema di welfare.
La cosa non piacque al governo (Renzi) di allora e al ministro Poletti, che si sentì esautorato. Ma nessuno si azzardò a replicare come hanno fatto adesso questi ragazzotti, per di più in una circostanza in cui tutte la ragioni stanno dalla parte di Tito Boeri.
Giuliano Cazzola
Giuslavorista
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
SI CHIUDE UN’ERA LUNGA 14 ANNI PER IL MANAGER DEI DUE MONDI
L’ha presa Fiat e la lascia Fca. L’ha presa sull’orlo del baratro e la lascia senza debiti. Non ha raggiunto tutti i target industriali che si era prefissato, ha però compiuto una marcia costante su quelli finanziari.
In questo, ma non solo, c’è il senso dell’era di Sergio Marchionne, 14 anni alla guida della casa torinese, oggi azienda italo-statunitense di diritto olandese, settimo gruppo automobilistico mondiale.
Anni di scelte impopolari, di rotture nelle tradizioni relazioni industriali e sindacali, di lavoro sul prodotto.
Sergio Marchionne lascia Fiat Chrysler Automobiles in modo improvviso, traumatico. Si sapeva da tempo che avrebbe lasciato il testimone.
Avrebbe però dovuto passare la guida nella primavera 2019, mantenendo la carica di consigliere di Exor e di presidente Ferrari fino al 2021.
E invece cause di forza maggiore lo portano all’addio da tutti gli incarichi della galassia Agnelli.
Ci sono gravi motivi di salute, “complicazioni inattese” di un intervento subito a fine giugno che gli impedirà di riprendere l’attività lavorativa. Il manager non compare in pubblico dal 26 giugno, quando consegnò una Jeep all’Arma dei Carabinieri ed era anche per questo molto atteso all’appuntamento con la trimestrale di mercoledì prossimo.
Sergio Marchionne è un manager dei due mondi. Nasce a Chieti nel 1952.
Il padre Concezio era maresciallo dei Carabinieri, a lungo in servizio in Istria a cavallo delle due guerre e oltre. Lì conosce la madre Maria, la cui famiglia fu tragicamente perseguitata nello scontro etnico fra italiani e slavi.
Per questo i due si rifugiano dalla famiglia di lui, in Abruzzo. Lì nasce Sergio, e lì resterà fino ai 14 anni. Poi il padre, raggiunta la pensione, decide di prendere armi e bagagli e ricominciare in Canada.
Marchionne prende due lauree (Filosofia all’università di Toronto, Legge alla Osgoode Hall Law School of York University) e un Mba (Università di Windsor). Lavora come commercialista e avvocato, si forma in diverse esperienze aziendali.
La prima svolta arriva nel 2002, quando diventa a.d. di Sgs a Ginevra e si fa notare da Umberto Agnelli, che lo coopta nel Cda di Fiat nel 2003.
Il primo giugno 2004 da perfetto sconosciuto veniva chiamato a gestire la Fiat. Al suo fianco c’erano il presidente Luca Cordero di Montezemolo e il vice John Elkann.
Le sue prime parole furono queste: “Fiat ce la farà . Il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici”.
Le polemiche in realtà non sono mancate, come il lavoro duro. Marchionne indossava giacca e cravatta, in seguito non accadrà quasi mai.
Al pullover blu ha rinunciato in pochissime occasioni: di recente ha sfoggiato la cravatta proprio per annunciare il traguardo del debito zero. “Erano 10 anni che non la indossavo, me l’anno regalata”.
Un traguardo importante, se si pensa da dove era partita la gestione Marchionne. Non arrivava in un momento qualsiasi, era una fase drammatica per l’azienda: era appena morto Umberto Agnelli, era stato allontanato Giuseppe Morchio.
Il bilancio 2003 si era chiuso con un rosso di 2 miliardi, il Lingotto era sull’orlo del baratro. Sul fronte finanziario i primi successi del manager italo-canadese furono la rottura dell’alleanza con Gm, che impediva l’acquisto di Fiat Auto da parte della casa americana, e l’accordo con le banche sul convertendo da 3 miliardi di euro, grazie al quale gli Agnelli mantenevano il controllo.
Marchionne il 17 febbraio 2005 diventava anche a.d. dell’auto (solo Cesare Romiti aveva tenuto le due cariche), lanciava a Torino la Grande Punto e varava un piano che prevede entro il 2008 investimenti per 10 miliardi.
Nei conti del 2005 il turning point: il gruppo registra, per la prima volta dopo 5 anni un utile di 1,4 miliardi e il risultato della gestione ordinaria è venti volte superiore a quello del 2004.
Alla presentazione dei conti 2006, Marchionne parlava di una Fiat finalmente uscita dall’emergenza e a suggellare la rinascita arrivava il 4 luglio 2007 la nuova 500 presentata con una grande festa a Torino
La crisi del 2008 costringeva il Lingotto a modificare i piani e richiedeva un massiccio ricorso alla cassa integrazione.
“Il 2009 – ha ammesso Marchionne – sarà l’anno più difficile della mia vita perchè sono state spazzate via le condizioni sulle quali avevamo definito i nostri programmi”. Nel 2009 però Sergio Marchionne assestava il colpo da novanta, con l’acquisizione della statunitense Chrysler, fallita l’anno prima, e il cambio del nome, da Fiat a Fca. Domicilio fiscale passava a Londra, la sede legale trasferita dopo 115 anni da Torino ad Amsterdam, a proposito di scelte impopolari.
In piena crisi economico-finanziaria, Marchionne aveva ben chiaro che il piano stand-alone non poteva bastare per Fiat. “Solo quei gruppi che riusciranno a fabbricare 6 milioni di automobili l’anno saranno in grado di resistere nel futuro”.
Ad aprile l’avvio di lunghe e travagliate trattative per Chrysler con i sindacati e l’amministrazione Obama, fino all’accordo, annunciato dal presidente americano, che prevedeva l’acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi. Poi diversi step con l’aumento della quota nella casa americana.
Dal 2014 Marchionne diventava anche presidente di Ferrari al posto di Luca Cordero di Montezemolo e dava il via al processo di spin-off del Cavallino da Fca completato a inizio 2016 con la quotazione a Wall Street, dove il manager aveva portato già Fiat Chrysler a ottobre 2014. Una scommessa vinta.
Gli analisti, al momento della quotazione, assegnavano un valore al Cavallino tra i 5 e gli 8 miliardi di euro, mentre oggi Ferrari capitalizza oltre 22 miliardi di euro e continua a macinare utili.
Non è un caso che l’ultima operazione straordinaria annunciata da Marchionne, che fa parte del piano 2018-2022, sia un altro scorporo, quello di Magneti Marelli, previsto entro l’inizio del 2019.
L’era Marchionne ha inoltre segnato profondamente le relazioni industriali in Italia. Capace di portare avanti scelte impopolari, il manager ha aperto uno scontro frontale con la Fiom, negli stabilimenti e nelle aule dei tribunali, sul nodo della governabilità delle fabbriche contro assenteismo e microconflittualità diffuse.
Voleva applicare il sistema di organizzazione del lavoro americano e chiede ai sindacati di abolire gli accordi integrativi e adottare un nuovo contratto specifico. Vengono indetti referendum a Pomigliano e Mirafiori, i lavoratori approvano la linea Marchionne. Un altro fronte, Marchionne lo apre con Confindustria annunciando a fine 2011 l’uscita dall’associazione. Una decisione clamorosa perchè all’inizio del ‘900 la Fiat era stata uno dei suoi soci fondatori.
Lo scontro con il sindacato viene accentuato dal piano Fabbrica Italia, che non dà il successo sperato. Doveva portare a produrre 1,4 milioni di vetture nel 2014, un target lontano anni luce per l’Italia.
Nel 2014 il manager presenta un nuovo piano, più vago sui target, centrato sulla produzione dei modelli premium, che hanno un maggiore margine di guadagno. Porta la Jeep a Melfi, rilancia l’Alfa Romeo.
In 14 anni Sergio Marchionne ha staccato poche cedole, ma chi ha creduto in lui, investendo in Borsa sul titolo, può ben dirsi soddisfatto.
Chi avesse investito 1.000 euro su Fiat all’inizio del 2011, con le azioni a 7,02 euro dopo lo spin-off con Fiat Industrial – ora Cnh Industrial -, adesso, con le azioni a 16,42 euro, avrebbe 2.300 euro in tasca.
Prese il timone di una Fiat con ricavi pari a 47 miliardi di euro, un indebitamento di 500 milioni. L’ultimo bilancio, quello 2017, vede ricavi per 110,9 miliardi di euro, profitti per 3,51 miliardi e un indebitamento netto che a metà 2018 è azzerato.
I numeri sono dalla sua parte. “Il mio successore sarà interno. Oggi era qui” ha detto in occasione della presentazione del piano 2018-2022. Tocca a Mike Manley, numero uno di Jeep. La successione avviene in modo brusco, traumatico, improvviso, ma Marchionne lascia una Fiat in carreggiata.
Non sarà una passeggiata e non sarà scontato che Fca, senza Marchionne, continuerà a mantenere il suo legame con l’Italia come oggi.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
PER IL GRAVE FERIMENTO DEL BENZINAIO DI BUSTO FERMATO UN PREGIUDICATO ITALIANO DI 50 ANNI DI CANTU’… IL LEGHISTA CANDIANI LO ANNUNCIA ALL’INSAPUTA DELLA PM E DELLA MOBILE CHE VOLEVANO TENERE ANCORA COPERTA LA COSA PER ARRIVARE AI COMPLICI CHE COSI’ SONO STATI AVVISATI
Un benzinaio di Busto Arsizio ieri era stato ferito gravemente a colpi di pistola. Ora si trova nel
reparto di Rianimazione, stabilizzato dopo un’intervento chirurgico. E’ in prognosi riservata. L’uomo, 39 anni, titolare di un distributore di benzina di Busto Arsizio, è stato raggiunto da colpi di pistola sparati da due rapinatori.
Erano le 20 di ieri e stava rientrando a casa. I due hanno agito a volto coperto, in sella a uno scooter. Avrebbero esploso quattro colpi, tre quelli che hanno colpito l’uomo alla coscia e all’addome. E’ stato rapinato dell’incasso. I due aggressori sono poi scappati.
Fermato un canturino
Uno dei due rapinatori è stato individuato e rintracciato nella notte grazie al lavoro degli inquirenti, coordinati dal pm di Busto Arsizio Nadia Calcaterra. Si tratta del pluripregiudicato 50enne Massimo Fattobene, canturino. E’ stato trovato in possesso di parte della refurtiva. Gli agenti proseguono nelle indagini per arrivare anche al complice.
L’anomalia
Il fatto anomalo è che l’arresto non è stato comunicato dalle forze dell’ordine o dal pm ma dal sottosegretario leghista agli Interni Stefano Candiani esprimendo grande soddisfazione per l’individuazione del responsabile.
Peccato che, come evidenziato dal Tg nazionale, nessuno avesse autorizzato Candiani, tutto preso a mettere il cappello sull’operazione, a svelare i dettagli dell’indagine, cosa che non è compito della politica.
Da qui il comprensibile dissenso del magistrato che coordina le indagini perchè aver diffuso il nome dell’arrestato puo’ pregiudicare le indagini in corso per arrivare a bloccare i complici.
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
OPEN ARMS E JOSEFA HANNO PRESENTATO REGOLARE DENUNCIA ALLE AUTORITA’ SPAGNOLE APPENA SBARCATI A PALMA … FINALMENTE QUALCUNO INDAGHERA’ SULLE RESPONSABILITA’ DEI MINISTRI (E QUALCUNO RIDERA’ DI MENO)
Una battaglia politica ma anche una guerra legale: l’ong Proactiva Open Arms ha denunciato per omissione di soccorso e omicidio colposo la Guardia Costiere di Libia e il governo italiano che ha sposato la linea intransigente di Salvini
L’ong ha presentato la denuncia alle autorità spagnole dopo aver sbarcato nel porto delle Baleari Josefa, l’unica sopravvissuta al naufragio di cui ha attribuito la responsabilità alla Guardia Costiera libica e poi, per omissione, agli italiani.
A Palma sono stati sbarcati anche i due cadaveri, tra i quali quello di un bambino di circa cinque anni, recuperati in mare, su un zattera di legno, a circa 80 miglia dalle coste libiche lo scorso martedì
Anche Josefa, la donna di origini camerunensi rimasta per due giorni in mare prima di essere recuperata dalla nave Open arms, intende denunciare la Libia e l’Italia per quanto è successo.
“Josefa, che riceverà il trattamento da rifugiata intende denunciare la Libia per aver abbandonato l’imbarcazione, tornandosene indietro, lasciando altri cadaveri, e l’Italia per il rifiuto a sbarcare i cadaveri”.
La legislazione spagnola consente alle procure di quel paese di aprire procedimenti penali contro cittadini e soggetti esteri.
Per cui la denuncia potrebbe avere serie conseguenze sul piano giudiziario.
Durante la conferenza stampa il deputato e volontario di Open Arms Erasmo Palazzotto ha affermato: “Per prima cosa permettetemi di ringraziare il governo spagnolo per la grande prova di aprire i porti. Grazie a Open Arms, che opera con professionalità , il nostro senso di umanità non va perso. Non è pensabile che un Paese dell’Unione europea finanzi le milizie di trafficanti e le bande della criminalità organizzata in Libia. Quando tornerò nel mio Paese chiederò al Governo italiano che renda pubblici i dati su ciò che è accaduto nel luogo in cui è stata trovata morta la madre con il bambino”
(da agenzie)
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Luglio 21st, 2018 Riccardo Fucile
LE STESSE FONTI DENUNCIANO: “L’ITALIA CI FA FARE IL LAVORO SPORCO PERCHE’ NON VUOLE GLI AFRICANI”…ORA INTERVENGA LA MAGISTRATURA… IL GOVERNO ITALIANO FINANZIA E SI RENDE COMPLICE DEI CRIMINALI DELLA GUARDIA COSTIERA LIBICA
Barconi affondati mentre i migranti sono ancora a bordo. 
È questo che accade nelle acque del Mediterraneo quando la Guardia costiera libica interviene per i soccorsi.
Il motivo: quando le motovedette libiche si avvicinano ai barconi, i migranti, che non vogliono essere riportati in Libia, rifiutano di essere trasportati sulle imbarcazioni della Guardia costiera.
E a quel punto, per convincerli ad accettare il soccorso, è ormai prassi che i militari libici inizino le operazioni per affondare la barca.
Una prassi disumana, che s’è ripetuta in parecchi salvataggi, rivelata al Fatto, con la promessa dell’anonimato, da più fonti militari.
Che i barconi vadano affondati è un dato acquisito. La Procura di Trapani, per esempio, contesta alla Ong tedesca Iugend Rettet di non aver distrutto le barche per impedirne il riutilizzo da parte di trafficanti, durante un salvataggio del 18 giugno 2017.
Qui siamo paradossalmente alla dinamica opposta: il barcone viene affondato, ma con i migranti a bordo, per costringerli a salire sulle motovedette libiche.
Il governo ha invece smentito la ricostruzione della Ong Proactiva sul salvataggio, avvenuto il 17 luglio, di Josefa, la camerunense di 40 anni soccorsa dalla Open Arms a circa 80 miglia dalla costa libica. Accanto a lei, aggrappati al relitto di un gommone, i cadaveri di una donna e di un bambino di circa 5 anni.
Il Viminale ha bollato come una fake news la dichiarazione dei volontari spagnoli: “I libici hanno lasciato morire quella donna e quel bambino. Sono assassini arruolati dall’Italia”.
La prova evocata dal Viminale consisteva nel video-reportage di una giornalista tedesca che aveva filmato i soccorsi. La cronista ha escluso che, durante i soccorsi ai quali aveva assistito, in mare fossero rimasti dei migranti. Ma poi ha aggiunto che, nelle stesse ore e nella stessa area, le motovedette libiche avevano effettuato un altro soccorso.
La prova quindi non provava nulla se non che, nel soccorso registrato dalla cronista, non risultavano cadaveri o superstiti rimasti in acqua. Nulla poteva escludere, invece, che il relitto con le due vittime e la superstite fosse collegato invece al secondo soccorso di quella notte.
A cinque giorni dall’episodio — nonostante il Fatto abbia chiesto per ben due volte al Viminale se continui ad accusare la Proactiva di aver mentito, se sia in possesso di ulteriori prove che possano dimostrarlo, o se invece abbia preso atto di aver sbagliato nel definire una bufala la versione della Ong — il ministero dell’Interno continua a tacere sull’episodio.
Eppure, persino la Guardia costiera libica, su La Stampa, fornisce conferme che il relitto con i due cadaveri è legato a un loro salvataggio e che non si tratta di quello filmato dalla cronista tedesca: “Lunedì 16 luglio — dice il colonnello Tofag Scare alla giornalista Francesca Paci — abbiamo ricevuto una chiamata dal mercantile spagnolo Triades che ci segnalava un’imbarcazione di migranti in difficoltà tra Tripoli e Khoms, ci siamo mossi per intervenire, ne abbiamo tirati a bordo 165, maschi e femmine, tutti. Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita di una donna e di un bambino dopo aver provato a rianimarli. Ma oltre a loro non c’era nessuno in acqua. Secondo la legge libica vanno identificati prima di essere sepolti o rimandati a casa e dunque in questi casi vengono lasciati in mare. Non avremmo avuto alcuna ragione di lasciare in mare delle persone vive: anche se si fossero rifiutati di salire a bordo le avremmo tirate su a forza. Quello di cui ci accusano è una bugia, è propaganda”. Il premier libico Fayez al-Sarraj ha parlato di accuse “oltraggiose”.
Ma un fatto è certo: la Guardia costiera libica nega di aver lasciato persone vive in mare ma conferma che il relitto al quale era aggrappata Josefa con i due cadaveri è quello del loro soccorso. Non vogliamo credere che i militari libici abbiano volontariamente lasciato superstiti in mare. Ma è chiaro che almeno Josefa è sfuggita al loro intervento.
Di fronte a tutto questo, sarebbe il caso che Salvini ammettesse pubblicamente di aver sbagliato, accusando la Ong di aver mentito, assumendo la responsabilità delle sue pesantissime e immotivate affermazioni.
Un altro militare confida a La Stampa: “L’Italia ci fa fare il lavoro sporco perchè non vuole gli africani”.
Se il lavoro sporco prevede l’affondamento dei barconi con i migranti a bordo, i cittadini italiani dovrebbero saperlo e Salvini dovrebbe smentire o confermare anche questo.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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