Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
LA SINDACA DI ROMA HA DETTO BUGIE BEN PIU’ GRAVI E COMBINATO GUAI PEGGIORI… DOVREBBE DIMETTERSI NON PER IL CODICE ETICO, MA PER MANIFESTA INCOMPETENZA
Alessandro Di Battista è uno che ha sempre le idee chiare. «Il sindaco di Roma è solo
una foglia di fico in un sistema complesso gestito da criminali» ha sentenziato il grillino. «Senza che magari se ne sia reso conto. Questo non significa che il sindaco sia coinvolto. Ma per incapacità non è degno di fare il sindaco a Roma. Gli incapaci sono colpevoli quanto i delinquenti. Credono di poter comandare, e invece sono comandati»
Chissà se in questi ultimi mesi a Virginia Raggi, riascoltando le parole che il compagno di partito urlava nel 2014 chiedendo le dimissioni di Ignazio Marino travolto dalle accuse dei pm a Buzzi e Carminati, saranno fischiate le orecchie.
E chissà se lo stesso Di Battista, dopo gli arresti e i processi per corruzione di Raffaele Marra e Luca Lanzalone, braccio destro e sinistro della sindaca pentastellata, userebbe oggi le stesse parole che sembrano calzare a pennello anche per la sua amica.
È un fatto, però, che l’avventura della Raggi — a poco più di due anni dalla sua elezione — rischia di concludersi anzitempo a causa di un cortocircuito, e di incapacità , più che giudiziarie, amministrative e politiche.
Un flop causato da errori a catena commessi non solo della sindaca della Capitale, ma dell’intera classe dirigente del Movimento Cinque Stelle.
Ora dovranno decidere se Virginia ha mentito o meno davanti al dirigente dell’Anticorruzione, a cui giurò che fu lei, e non Raffaele (al tempo direttore del Personale) a scegliere in piena autonomia lo scatto di carriera (e di stipendio) del di lui fratello, Renato.
Le chat sembrano far propendere per la bugia, secondo il pm Paolo Ielo spacciata dalla Raggi per salvare la ghirba e la poltrona.
Ma chi scrive (nonostante sia stato L’Espresso a pubblicare nel settembre del 2016 l’inchiesta giornalistica sui rapporti tra Marra e l’imprenditore Sergio Scarpellini, articolo che ha dato il via al filone penale sulla corruzione dell’ex finanziere; dopo il sequestro del suo cellulare e il ritrovamento di alcune chat tra Marra e la sindaca, i pm di Roma hanno poi aperto un nuovo rivolo, accusando la Raggi di falso) crede che la sindaca non debba lasciare a causa di una condanna per un reato “bagatellare”.
Paradossalmente sono stati proprio i Cinque Stelle a infilarsi da soli il nodo scorsoio che potrebbe strozzare il Campidoglio e gettare nel caos il movimento nazionale: la legge Severino non prevede, per pene minori, alcuna ripercussione o sospensione del pubblico ufficiale condannato.
È infatti il rigido codice etico del partito a obbligare gli amministratori grillini condannati a dimettersi dall’incarico.
Anche se la sentenza è solo di primo grado, e anche di fronte a reati minori che censurano comportamenti scorretti, ma non certo gravissimi da un punto di vista etico e politico.
Rispetto ai disastri e alle altre menzogne della Raggi, che non hanno rilievo penale, il presunto falso raccontato al pubblico ufficiale dell’authority di Cantone appare francamente come una quisquilia.
La Raggi ha mentito ai romani spiegando che «Marra (appena arrestato, ndr) era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune», e ha mentito sull’ex assessore Paola Muraro: nonostante fosse venuta a conoscenza dell’indagine sulla sua collaboratrice, Virginia per 50 giorni negò di essere a conoscenza di eventuali procedimenti giudiziari.
Senza dimenticare le omissioni sul curriculum, come quelle sul passato nello studio di Cesare Previti, o sulla presidenza di una società dell’ex segretario di Franco Panzironi, appena condannato per Mafia Capitale.
Se, come dice Di Battista, «gli incapaci sono colpevoli quanto i delinquenti, perchè credono di poter comandare, e invece sono comandati», è un fatto che la Raggi si sia fatta consigliare e guidare da due Rasputin, entrambi finiti in manette per corruzione. Marra, in primis, a cui Virginia ha consegnato le chiavi del Campidoglio nonostante le inchieste giornalistiche e i dubbi di parte del movimento (Roberta Lombardi su tutti). Luca Lanzalone, scelto dal gennaio 2017 come nuovo consigliere, dopo i suggerimenti di pezzi da novanta come Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro.
La Raggi da gennaio 2017 ha messo la città di Roma nelle mani di un avvocato di Genova che, secondo la procura capitolina, era al soldo di un’associazione a delinquere guidata dal costruttore Parnasi, da cui Lanzalone avrebbe ricevuto circa 100 mila euro tra utilità e consulenze in cambio di un’iter rapido per il via libera al progetto delo stadio di Tor di Valle.
«Chi ha sbagliato pagherà », ripete sempre la Raggi a ogni inciampo e scandalo, come se non fosse stata lei a promuovere Marra, e a piazzare Lanzalone a presidente dell’Acea.
O a nominare un fedelissimo del suo Mr Wolf a commissario straordinario dell’Istituto di previdenza dei dipendenti comunali (Ipa), il livornese Fabio Serini, con un contratto a oltre 115 mila euro l’anno.
Peccato che Serini (anche lui indagato per corruzione) non fosse un commercialista qualunque, ma un uomo che Lanzalone conosceva assai bene: quando Serini era commissario giudiziale dell’azienda dei rifiuti di Livorno (Ammps), Lanzalone e il suo socio Luciano Costantini ne erano infatti i consulenti legali, incaricati alla difesa dell’azienda.
Qualche giorno fa i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma hanno scoperto «che non solo Luca Lanzalone ha aiutato Serini (in pieno conflitto di interessi, ndr) a ottenere dal sindaco Raggi la nomina a commissario dell’Ipa» ma che lo stesso Serini, una volta nominato dalla grillina, ha poi affidato allo studio di Lanzalone «incarichi remunerati».
Se Parnasi dava o prometteva a Lanzalone consulenze pagate con denaro privato, in pratica, stavolta si tratta di soldi pubblici dei contribuenti.
Un do ut des che vede la sindaca nel ruolo di vittima, o — come ci dicono gli inquirenti – di “trafficata”.
Possibile che la Raggi si sia fatta raggirare ancora una volta da soggetti a cui aveva dato totale fiducia? Leggendo e analizzando le carte, sembra proprio di sì.
Al netto delle capacità nella gestione della Città eterna, sprofondata dal suo arrivo ancor più nel degrado e nella sporcizia, con municipalizzate sull’orlo del fallimento, strade e quartieri violenti e insicuri, autobus in fiamme e scale mobili della metro che crollano, in un Paese normale sarebbe bastato solo uno degli scandali che hanno asfissiato Roma e il Campidoglio negli ultimi due anni a costringere la Raggi a fare un passo indietro.
Invece a gettare la Capitale (e il M5S) nel caos politico rischia di essere un reato bagatellare, un segno evidente della subordinazione costante della politica italiana alla magistratura.
Un caos politico che tra l’altro non vuole nessuno, e in tanti tifano nell’assoluzione completa: non solo tra le file governiste del M5S, ma pure nel Pd c’è chi giura e sogna che la Raggi sarà assolta.
In caso di elezioni anticipate, i democrat sanno benissimo che la Città Eterna rischia di finire non tra le loro braccia. Ma tra quelle di Salvini.
(da “L’Espresso”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
LEI: “CODICE ETICO MAI APPLICATO”… M5S: “SE CONDANNATA E’ FUORI E SI TORNA ALLE URNE”
Dieci mesi senza attenuanti. E’ la richiesta formulata dalla Procura di Roma nel processo che vede imputata Virginia Raggi per falso in merito alla nomina di Renato Marra, fratello del suo braccio destro Raffaele, alla direzione del dipartimento Turismo del Comune di Roma. Domani la sentenza.
“A nostro avviso è pacifico che si tratti di falso ideologico in atto pubblico”.
Aveva aperto così la sua requisitoria al processo Raggi il pubblico ministero Francesco Dall’Olio. Il magistrato ha ripercorso il ruolo di Raffaele Marra che, secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo nella nomina di suo fratello Renato a capo dell’ufficio Turismo.
“In questa realtà Marra ci mette la manina, anzi no, la manona”. La sindaca di Roma è accusata di aver dichiarato il falso in una nota all’anticorruzione capitolina in cui si assunse la piena paternità di quella nomina, escludendo qualsiasi ruolo del capo del personale. “Marra ci ha messo la manina, ma la sindaca lo sapeva”, ha detto Dall’Olio.
Secondo la Procura di Roma dunque la sindaca Virginia Raggi “mentì alla responsabile dell’Anticorruzione del Campidoglio nel dicembre del 2016” perchè se avesse detto che la nomina di Renato Marra era stata gestita dal fratello Raffaele, sarebbe incorsa in un’inchiesta e “in base al codice etico allora vigente negli M5S, avrebbe dovuto dimettersi”, ha detto in aula il procuratore aggiunto Paolo Ielo che ha chiesto alla corte l’acquisizione del codice etico M5S vigente nel 2016.
“Il codice etico del 2016 relativamente agli indagati non è stato mai applicato” risponde Raggi. “Solo in un caso, quello del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, si arrivò alla sospensione perchè non aveva comunicato la sua iscrizione nel registro degli indagati”, ha aggiunto mentre il Movimento da sapere che se la sindaca sarò condannata è fuori. il M5S terrà la linea dura.
“Dunque dimissioni subito, e, in caso di mancato passo indietro, ‘cartellino rosso’: per i 5 Stelle l’espulsione sembra l’unica via praticabile.
“Troppi pesi su questo processo – aveva esordito il procuratore aggiunto Paolo Ielo – È giusto fare un processo come se questi pesi non esistessero. E il senso del lavoro del magistrato e del processo: la legge deve essere uguale per tutti. Movente duplice: da un lato la protezione di Marra, che è un uomo di macchina fondamentale per la gestione del comune. Marra e la chiave che mette in moto il motore. Ma c’è un altro elemento: il codice etico del M5S. All’articolo 9 del codice all’epoca vigente si dispone che l’iscrizione mette il sindaco nelle condizioni di dimettersi. La richiesta di Anac è fatta per sapere se è stato rispettato l’obbligo di astensione da parte di Raffaele Marra, il rischio era un procedimento penale per il capo del personale. E la possibilità che lei venisse iscritta a modello 21 per concorso era molto alta. Era essenziale proteggere Marra anche per proteggere se stessi Dal rischio di dimettersi ” ha aggiunto.
(da agenzie)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
NIENTE CORSI DI ITALIANO E FORMAZIONE PROFESSIONALE, VIA GLI PSICOLOGI E I VOLONTARI, ABOLITE LE ATTIVITA’ SPORTIVE, RIDOTTI ASSISTENTI SOCIALI, MEDICI E OPERATORI CULTURALI. 18.000 DISOCCUPATI: E’ IL PROGETTO DEI RAZZISTI PER POTER POI SPECULARE SU CHI COMMETTE UN REATO PER SOPRAVVIVERE
Ogni ospite vedrà il medico per massimo 4 ore l’anno. L’infermiere, invece, non lo vedrà
proprio più perchè i centri medi e piccoli non saranno più tenuti ad averne uno. Con tutti i rischi sanitari del caso.
Addio anche agli psicologi, mentre la presenza di assistenti sociali e mediatori culturali verrà ridotta almeno di due terzi.
Risultato: stop all’integrazione e timori per la sicurezza. Sono alcune delle conseguenze del taglio del costo dell’accoglienza dei migranti deciso dal Viminale.
La misura che il vicepremier Matteo Salvini ha elevato a bandiera del Carroccio e della sua gestione del ministero dell’Interno è arrivata: da una media di 35 euro a persona, il costo giornaliero di un migrante scende 19 euro per i centri più grandi e a 26 per le strutture più piccole.
Cosa cambia in termini pratici? Una prima conseguenza l’ha illustrata Gerarda Pantalone: saltano, ha spiegato il direttore del Dipartimento immigrazione del Viminale, “i servizi di integrazione e inserimento nel tessuto territoriale, perchè questi vengono riservati ai titolari di protezione internazionale”.
Quali conseguenze avranno questi tagli?
“Vengono abbattuti i costi legati all’erogazione di servizi legati a integrazione, vulnerabilità , presidio delle strutture e sanità ”, spiega Simone Andreotti, presidente di In Migrazione, cooperativa che ha pubblicato uno studio sulle conseguenze immediate delle nuove direttive, mettendo a confronto le indicazioni contenute nel Capitolato presentato mercoledì dal Viminale con l’ultimo bando emanato dalla Prefettura di Roma nel 2016, risultato a metà della classifica di qualità stilata dalla stessa cooperativa in un report dello scorso giugno.
Chi deciderà di partecipare ai nuovi bandi indetti dalle Prefetture per gestire i Centri di accoglienza Straordinaria, che ospitano i 2/3 dei 144mila richiedenti asilo presenti sul territorio, “non dovrà più preoccuparsi di garantire l’insegnamento della lingua italiana (che verrà riservato solo a chi riceve una qualche forma di protezione e viene ospitato in uno Sprar, ndr), il supporto alla preparazione per l’audizione in Commissione Territoriale per la richiesta di asilo, la formazione professionale“.
Via anche il volontariato, le iniziative di socializzazione con le comunità ospitanti e le attività sportive: “Così i loro ospiti saranno costretti a non fare nulla in attesa della valutazione della loro domanda d’asilo e ad andarsene in giro senza costrutto più di quanto non accada oggi”, spiega Andreotti.
Il taglio avrà pesanti conseguenze anche sull’assistenza generica alla persona: viene eliminata la presenza dello psicologo — figura fondamentale in contesti in cui vivono persone che hanno vissuto guerre e subìto violenze — e vengono abbattute le ore minime settimanali dell’assistenza sociale: in strutture che ospitano fino a 50 persone viene chiesta la presenza dell’assistente sociale per sole 6 ore a settimana.
“In pratica mezza giornata su 7 giorni”, commenta Andreotti. Mentre l’obbligo di avere in sede un operatore culturale passa da 36 a 10 ore.
Crollano anche le prestazioni sanitarie minime: nei centri più piccoli “viene chiesta la presenza del medico per assicurare una media di 4 ore per ogni ospite all’anno, senza più l’obbligo di avere in struttura la presenza di un infermiere.
Per i centri più grandi la media di presenza settimanale del medico per ospite scende a 19,2 minuti“.
“Se prima il medico doveva stare obbligatoriamente al centro 6 ore a settimana — prosegue Andreotti, che a Roma gestisce lo Sprar “Casa Benvenuto” — oggi non devo più tenerlo in sede, ma basterà un contratto di reperibilità “. Peggiora anche la situazione delle strutture che hanno fino a 300 posti, dove il medico non sarà più presente 24 ore su 24 ma 24 ore a settimana e l’impegno del paramedico passerà dall’essere h24 a 6 ore al giorno.
“Questo significa che i centri verranno svuotati del personale: se la notte deve esserci un operatore ogni 150 ospiti, ma cosa vuoi gestire? — commenta Andreotti — il bando di Roma ne prevedeva tre. Se in un centro fino a 50 persone non garantisci neanche un operatore h24 c’è un problema di presenza fisica. Con questi tagli ci saranno delle ore in cui gli ospiti saranno da soli. C’è evidentemente un rischio sicurezza“.
Tutto ciò, prosegue il presidente di In Migrazione, “comporta una emergenza di tipo sociale, perchè si rischiano problemi di ordine pubblico“.
Una questione sollevata anche dall’Anci: “Chiudere gli Sprar significa fare un passo indietro — ha detto il presidente di Associazione nazionale dei comuni Antonio Decaro, a margine di un incontro con il presidente della Camera Roberto Fico rispondendo a una domanda sul decreto Sicurezza — rischiamo di avere concentrazioni di migranti in comunità piccole con problemi di accoglienza e integrazione che possono sfociare in tensioni sociali“.
Poi ci sono le conseguenze economiche: “Da un lato si crea disoccupazione: secondo i nostri calcoli, 18mila professionisti sui 36mila che oggi lavorano nelle strutture rischiano di andare a casa. Dall’altro, con l’abbassamento dei costi i bandi rischiano di andare deserti“.
Chi gestisce un centro piccolo, è il ragionamento, potrebbe non poter partecipare e chiudere, perchè tagli di queste dimensioni sono sostenibili solo per chi, in virtù delle economie di scala garantite dai grandi numeri, propone strutture grandi: “Quando i bandi andranno deserti, la Prefettura dovrà ricorrere agli affidamenti diretti e alle proroghe. E la proroga di un appalto per legge si fa non con i nuovi prezzi ma con i vecchi, ovvero i 35 euro“.
Senza contare che “le vicende giudiziarie dimostrano il malaffare ha tratto profitti più sulle forniture di vitto e alloggio che sui servizi per l’integrazione — conclude Andreotti — i costi di personale impegnato vanno rendicontati con le buste paga ed è difficile lucrare su questa voce. Tagliando questi costi si rischia di fare un favore al malaffare — conclude Andreotti — che può concentrarsi su servizi più redditizi, come il vitto e le forniture dei beni”.
Che sono il punto debole della filiera, come dimostrano le inchieste della magistratura: ultimo il caso di Fondi, dove due onlus spendevano 1,6 euro al giorno per far mangiare i loro ospiti a pranzo e a cena.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
LA POSIZIONE DEI PARTITI: EN MARCHE POCO CONVINTI, REPUBBLICANI ULTRAS DELLA TAV, LE PEN CONTRARIA
“È fuori discussione che i lavori per la Tav Lione-Torino si fermino”. Ma “ogni Paese può proporre delle soluzioni alternative. Anche la Francia sta cercando dei margini di risparmio: i tagli sono auspicabili, ma non a danni del progetto”.
Ovvero Parigi, se l’Italia dovesse proporre una riduzione del progetto dell’Alta velocità , non intende opporsi a priori purchè venga salvata la “coerenza e l’efficacia dell’asse” e quindi la galleria di base.
E per quanto riguarda un ridimensionamento delle vie d’accesso, sta valutando di fare lo stesso.
Cendra Motin, deputata di En Marche eletta a Lione ed ex vicepresidente de l’Assemblèe Nationale, rompe il silenzio del governo francese.
Lei, rappresentante del dipartimento dell’Isère che sarebbe interamente attraversato dalla nuova tratta, dice di “aver seguito con preoccupazione” la bocciatura del consiglio comunale di Torino sulla Grande opera ed è in contatto costante con la ministra dei Trasporti Elisabeth Borne.
“Mi ha garantito che si va avanti con convinzione. E lunedì 12 novembre incontrerà il ministro italiano Danilo Toninelli”. Ma non solo.
Matin rivela che anche la Francia, a fronte dei numerosi finanziamenti necessari per chiudere il progetto, sta pensando a soluzioni diverse per quanto riguarda lo sviluppo dei collegamenti che porteranno alla galleria: “Le nostre casse sono vuote. Stiamo valutando se c’è un progetto intermedio che costa meno caro“.
Questo però, ribadisce, non significa essere aperti al blocco totale dell’opera: “Alla fine le ragioni economiche avranno la meglio. Sul nostro territorio la richiesta è praticamente unanime”.
La Regione scalpita e accusa Macron di rallentare. E per gli eletti della Le Pen non è una priorità
Il progetto Tav Torino-Lione insomma non crea tensioni solo all’interno del governo italiano. Le perplessità sul fronte francese sono emerse fin dall’inizio del mandato di Emmanuel Macron: in un primo momento si era parlato di una pausa per valutare come procedere, poi si è tornato a dire che l’opera non è in discussione. Intanto però è passato altro tempo.
Lo scontro quindi non dipende solo dalle resistenze italiane: bisogna trovare i fondi e decidere di destinarli a questo progetto e non ad altri.
Contro l’esecutivo di En Marche si è schierata la Regione Auvergne-Rhone-Alpes, guidata dai Repubblicani e quindi oppositori del presidente della Repubblica: “Noi saremmo pronti a finanziare l’opera domani”, dice Yann Drevet, del cabinet del presidente della Regione, “ma Macron non è della stessa idea. Per lui non è una priorità ”.
Una ricostruzione che da En Marche smentiscono: “Usano i ritardi italiani per accusarci di non voler procedere, ma è falso”.
Interessante notare che dalle parti del Rassemblement National, gli alleati di Salvini in Europa, sono fortemente contrari: “Certo che non è una priorità ”, dice il consigliere Antoin Mellies. “La Regione dovrà investire 3 miliardi di euro e noi chiediamo che vengano destinati piuttosto al miglioramento delle reti esistenti e quindi al trasporto di prossimità ”. Con loro anche gli ecologisti, che fanno fronte comune con i No Tav italiani.
I delegati alla manifestazione Si Tav a Torino e il lobbismo del Comune guidato dall’ex ministro dell’Interno
Sul fronte istituzionale però, almeno dalle parti di Lione, regna la quasi totale unanimità che si traduce in un’attività di lobbying costante. “Siamo in contatto con il Piemonte e la Lombardia”, continuano dalla Regione.
“E saremo a Torino sabato alla manifestazione in favore della Tav. Stiamo facendo pressioni costanti. Noi abbiamo i fondi per realizzarla e stiamo solo aspettando che la Francia e l’Italia mantengano la loro parola. Piano b? Non esiste. Le strade sono solo due: o si fa la Lione-Torino o non si fa”.
E quando si parla di lobby, non bisogna dimenticare che Lione non è una terra qualunque: è la patria di Gerard Collomb, sindaco al quarto mandato che ha teorizzato le “larghe intese a livello locale in nome della concretezza”, nonchè primo sostenitore di Macron poi diventato ministro dell’Interno.
Tre settimane fa si è dimesso dal governo: ufficiosamente in polemica con la linea del presidente della Repubblica, ufficialmente per preparare la sua candidatura alle prossime comunali. E di qualsiasi tipo siano ora i suoi contatti con il governo, sicuramente avrà un canale privilegiato. “Il suo impegno e il nostro per realizzare l’opera sono fuori discussione”, assicura Karine Dognine-Sauze, vice presidente della città metropolitana di Lione.
“Noi stiamo lavorando per mobilitare le aziende per far capire all’Italia quanto è importante l’apertura di questo tratto”. Se le istituzioni a livello locale e regionale sono molto attive, tace per il momento la ministra che, contattata da ilfatto.it, ha detto di non voler rilasciare dichiarazioni. Non prima di vedere il ministro Toninelli e, se ci sarà bisogno, “rassicurarlo”.
I lavori e i costi
Ma cosa è già stato fatto sul versante francese? Stèphane Guggino, delegato generale del Comitato per la Transalpina, garantisce che la Francia non ha mai cambiato idea sul dossier e i lavori sono in corso mentre scriviamo: “Il cantiere è attivo, 400 persone sono al lavoro, e nella galleria di Saint Martin de la Porte si scavano 18 metri ogni giorno in direzione dell’Italia. Attualmente sono stati scavati 5300m sui 57 km totali. Mentre per quanto riguarda le altre gallerie e tunnel di collegamento ne sono già stati fatti 25 sui 162 previsti. In totale è stato realizzato il 15 per cento del progetto generale”.
E intanto quanti fondi sono stati effettivamente erogati? “Fino a questo momento la Francia ha investito 400 milioni di euro“, continua Guggino. “Stando al budget, ogni anno il governo stanzia 200 milioni e così ha fatto quest’anno”. Sulla base degli accordi, in totale la Francia deve finanziare il 25 per cento della Grande opera. All’Italia spetta il 35%, mentre l’Ue mette il 40 per cento. Il costo del solo tunnel principale è stato stimato per 8,6 miliardi, ma la Corte dei conti francese nel 2012 ha rivisto il costo finale (considerate anche le vie d’accesso e le altre gallerie collegate) per 26 miliardi di euro.
A settembre scorso la Commissione europea, anche alla luce delle perplessità degli attori in campo, ha proposto di investire altri 814 milioni di euro, quindi di aumentare i suoi contributi al 50 per cento del totale.
Per Guggino ci sono pochi dubbi che si debba arrivare a una soluzione e il problema ora sono solo gli italiani: “Se vogliono rivedere alcune cose a noi non importa”, continua, “purchè si mantenga la struttura generale. So che già in passato avevano ridimensionato il progetto, non so dove altro si potrebbe risparmiare. Comunque se si tratta di rivedere ad esempio il rinnovo della stazione di Susa, non c’è problema”.
Ma l’analisi costi-benefici chiesta dal governo Lega-M5s potrebbe dare altri risultati: “A me non preoccupa. Ci sono stati negli anni già sette studi indipendenti dello stesso tipo e hanno detto tutti che si deve procedere. Se gli esperti scelti dagli italiani sono indipendenti, allora diranno la stessa cosa. Noi non abbiamo dubbi sull’utilità sia economica che ecologica della Tav Lione-Torino”.
Le soluzioni alternative a cui pensano i francesi
Non ci sono però solo gli italiani a porsi la domanda del come riuscire a spendere meno ed uscire dall’impasse generale. Tanto che Parigi, approfittando della divisione italiana, sta valutando già alcune opzioni.
“Una soluzione temporanea di cui si è discusso”, dice sempre l’eurodeputata di En Marche Motin, “è rimodernizzare la linea Dijon-Modane. Ma non può bastare: la Lione-Torino fa parte di un asse che collegherà Barcellona con la Francia e quindi la Polonia. E’ un progetto strutturale per i trasporti in Ue”.
Il problema sono i fondi: “Il progetto iniziale, con le vie d’accesso e le gallerie, costa molto molto caro. A livello politico dobbiamo porci due domande. Innanzitutto, vale la pena? Metteremo 40mila tonnellate di merci su questa tratta? Se così dovremo rivedere il trasporto merci in Francia. La seconda domanda è: che effetti ci saranno per gli abitanti del territorio? La tratta Lione-Grenoble è completamente satura e quindi levare le merci da quella linea migliorerebbe molto la situazione. In quella zona i camion che attraversano la valle non lasciano respirare e il livello di inquinamento è troppo alto”.
Ma continua: “Le nostre casse sono vuote. Stiamo riflettendo su come far rientrare i costi nel budget. E stiamo valutando se c’è un progetto intermedio che costa un po’ meno caro”. Detto questo però, i francesi ci tengono a ribadire che non intendono accettare che il piano fallisca. “La nostra volontà politica è chiara, non ci sono ambiguità ”, ha chiuso Motin. “Ma non possiamo farlo da soli senza gli italiani. Io non mi spavento troppo, perchè penso che anche il governo italiano si adeguerà alla ragione economica. Ed è quello che può salvare il progetto oggi: le imprese sono molto forti nel Nord dell’Italia e sono sicura che la loro voce sarà ascoltata”.
E se invece l’intesa non dovesse arrivare? “A quel punto dovremo chiederci collettivamente cosa fare della galleria. Perchè è là e la stanno bucando in questo momento. Possiamo non creare la Lione-Torino così com’era stata pensata, ma bisogna vedere come reagirà l’Europa. Non possiamo perdere tutti questi investimenti pubblici”.
Gli occhi puntati dell’Europa
Nell’Isère la faccenda viene monitorata giorno dopo giorno. E quando qualcuno arriva fino a ipotizzare l’estrema soluzione del fallimento del progetto, viene chiamata in causa l’Europa.
Che è comunque l’istituzione che continua a dimostrare più convinzione sul tema. L’eurodeputata socialista Sylvie Guillaume, attualmente vicepresidente del Parlamento Ue, quando parla rievoca lo spettro della Brexit e di cosa succede a chi non rispetta gli impegni: “Rimettere in questione un progetto che è già costato cosi tanti soldi mi sembra incredibile, sia dal punto di vista della salute e dell’ecologia che naturalmente da quello economico. Le autorità italiane si prenderebbero un rischio molto grande. Anche perchè gli impegni presi non cadono così da un giorno all’altro: il costo economico di fermare la Grande opera mi sembra insormontabile. Senza pensare al costo ambientale ed ecologico. L’Unione europea ha messo i soldi e ci saranno per forza delle conseguenze”.
E conclude: “Io non voglio dare consigli agli italiani, ma quando vediamo il modo in cui sono state trattate e mantenute infrastrutture come il ponte di Genova, penso che bisogna guardare le cose con serietà . Parliamo della sicurezza e della salute dei cittadini”. Per Guillaume insomma, che rappresenta i socialisti sul territorio da quasi 20 anni e che quell’opera non la vedrà terminata neppure in questo mandato, gli italiani non hanno scelta. E nemmeno i francesi.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
LA SITUAZIONE E’ GIURIDICAMENTE BEN DIVERSA
Il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini, ospite di Pomeriggio 5 su
Mediaset, il 7 novembre ha dichiarato (min. 2.30): “Fino a ieri, fino a prima di questo decreto, un richiedente asilo (…) se commetteva un reato, tu non gli potevi fare sostanzialmente niente perchè andava avanti la sua domanda di asilo politico. Con questo decreto (…) se ti becco a spacciare, a stuprare o a rubare, ti convoco e ti rimando al tuo Paese”.
In base all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati è vietato il respingimento del richiedente asilo. Ma il secondo comma di questo articolo stabilisce che questo divieto non può essere fatto valere dal rifugiato “se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto Paese”.
Dunque il divieto di respingimento può venire meno, in base al diritto internazionale, per due motivi: se il rifugiato è un pericolo per la sicurezza del Paese che lo ospita, oppure se è condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi e per questo costituisce una minaccia per la collettività .
Il diritto italiano
Che cosa dice il diritto italiano sullo stesso tema? A grandi linee il respingimento può avvenire per gli stessi motivi stabiliti dalla Convenzione di Ginevra.
Il decreto legislativo 251 del 2007 ha recepito la direttiva 2004/83/CE, nata per istituire “un regime europeo comune in materia di asilo basato sull’applicazione, in ogni sua componente, della convenzione di Ginevra”
L’articolo 12 del decreto regola i casi di diniego dello status di rifugiato al richiedente asilo e, riprendendo l’impostazione della Convenzione di Ginevra, prevede due casi: se “sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato”, oppure se “lo straniero costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale”.
Se per il caso di “pericolo per la sicurezza dello Stato” non si richiede una condanna, per il “pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica” sì e in particolare per i reati dell’articolo 407 co.2 lettera a).
Questo articolo stabilisce che le indagini preliminari possano avere una durata superiore al normale se riguardano reati particolarmente gravi, ad esempio omicidio, rapina aggravata, strage, associazione mafiosa, contrabbando aggravato, violenze sessuali aggravate e guerra civile.
Se il richiedente asilo è condannato per uno di questi reati — in via definitiva — non può quindi far valere contro lo Stato italiano il divieto di respingimento e potrebbe teoricamente essere rimandato nel suo Paese d’origine.
Dunque Salvini dice una cosa falsa quando afferma che prima del decreto sicurezza, appena votato dal Senato, al richiedente asilo che aveva commesso un reato non si potesse fare sostanzialmente niente.
Se aveva commesso uno dei reati previsti dall’articolo 407 del codice penale era possibile rifiutare la richiesta di asilo e, teoricamente, rimpatriarlo.
Ma andiamo a vedere cos’è cambiato con il decreto sicurezza votato in Senato il 7 novembre. L’articolo 7 del decreto modifica l’articolo 12 del decreto 251/2007 e, accanto alle ipotesi previste dall’articolo 407 del codice penale per negare lo status di rifugiato al richiedente asilo, ne aggiunge di nuove.
Queste in particolare sono: violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 del c.p.), lesioni personali aggravate (art. 583 c.p.), mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583 bis c.p.), il furto aggravato (art. 624 c.p. nelle ipotesi dell’art. 625 c.p.) e il furto in abitazione o con strappo (art. 624 bis c.p.): quest’ultimo, dopo le modifiche al decreto nel corso della trattazione a Palazzo Madama, anche nelle ipotesi non aggravate.
Ancora l’articolo 7 del “decreto sicurezza” prevede poi che le ipotesi di reati di spaccio, di violenza sessuale, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e tratta possano portare all’esclusione della domanda di asilo anche nelle ipotesi non aggravate (limite, quello dell’aggravante, che era invece stabilito dalla precedente formulazione dell’articolo 407 c.p.).
A un primo sguardo sembrerebbe avere fondamento l’affermazione di Salvini per cui, “se ti becco a spacciare, a stuprare o a rubare, ti convoco e ti rimando al tuo Paese”, ma la situazione è in realtà molto più complicata di come la racconta il ministro dell’Interno.
Tralasciamo eventuali problemi di legittimità su questa norma, che nascono dall’apparente contrasto tra la Convenzione di Ginevra — che parla di “crimini e delitti particolarmente gravi” che rendono il richiedente asilo “una minaccia per la collettività ” — e le disposizioni che prevedono si possa respingere un rifugiato per un furto semplice. Sulla questione sarà probabilmente la magistratura a pronunciarsi.
L’affermazione di Salvini resta comunque fuorviante per due motivi
In primo luogo perchè la procedura che descrive il ministro, in base alla quale “ti convoco e ti rimando al tuo Paese”, è molto distante dalla realtà : il richiedente asilo accusato per un reato tra quelli ora contemplati dal nuovo articolo 12 del decreto 251/2007 deve infatti essere processato attraverso i tre gradi di giudizio da parte della giustizia italiana, con tutte le garanzie del giusto processo.
Mediamente i primi due gradi di giudizio durano quattro anni e mezzo, a cui vanno aggiunti 200 giorni di media in Cassazione e il tempo delle indagini preliminari.
È poi errato sostenere che, anche dopo la eventuale sentenza definitiva di condanna, il richiedente asilo possa essere rimandato automaticamente nel proprio Paese. In base ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, presenti nella Costituzione e non solo, non è possibile infatti che lo Stato italiano si renda attivamente complice nel condannare a morte o alla tortura un essere umano.
Quindi non è possibile rimandare il richiedente asilo condannato, anche per reati gravi, verso il suo Paese d’origine se qui rischia la pena di morte. Questo principio è stato ad esempio ribadito nel 2005 dalla Corte d’Appello di Roma, che aveva concesso l’estradizione di un cittadino italiano verso gli Usa perchè ricorreva la condizione che non rischiasse la pena capitale.
La legge che ha istituito il reato di tortura, la l. 110 del 2017(art. 3), ha poi stabilito che “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
E infatti in Italia sono detenute centinaia di persone che non possono essere legalmente trasferite nei loro Paesi di origine. Secondo il rapporto Antigone di maggio 2018 sono 806 e provengono da Libia, Sudan ed Egitto.
L’affermazione di Salvini è scorretta per alcuni motivi. In primo luogo non è vero che prima del decreto sicurezza votato il 7 novembre dal Senato non era possibile fare niente al richiedente asilo che avesse commesso un reato. Era possibile fare esattamente lo stesso che è possibile fare oggi: solo, l’elenco dei reati considerati gravi — in ossequio alla Convenzione di Ginevra — era più breve.
Adesso sono stati inseriti una serie di nuovi reati (alcuni dei quali non gravi, il che suscita dei dubbi di legittimità proprio in relazione alla Convenzione di Ginevra) ma l’impianto normativo è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Anche dopo il decreto sicurezza infatti non si potrà , come sembra suggerire Salvini, espellere immediatamente il richiedente asilo che ha commesso un reato. Sarà necessaria una condanna definitiva, che potrebbe dunque arrivare dopo anni di processi.
Non solo. Non si potrà comunque rimandare il richiedente asilo condannato in via definitiva nel suo Paese se qui rischia la pena di morte, la tortura o comunque trattamenti disumani. In quel caso dovrà quindi rimanere in carcere in Italia.
(da Globalist)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
SE UNO SCRIVE IN UN PRESUNTO TEMA CHE “SALVINI E’ IL MIGLIORE”, IL NOTO ESEMPLARE PADRE DI FAMIGLIA GLI DEDICA UN POST, SE AVESSE SCRITTO L’OPPOSTO AVREBBE CHIESTO LA TESTA DELLA DOCENTE “BOLDRINIANA”
Matteo Salvini è un ministro ma è soprattutto un papà e come tale ha a cuore il benessere dei bambini. Proprio di tutti.
Non solo perchè in ogni elettore c’è un bambino che vuole fortissimamente credere a tutte le promesse che il politico di turno gli fa come quando credeva a Babbo Natale.
I bambini — non me ne vogliano le madri — vengono utilizzati dalla propaganda politica un po’ come i cani (e Salvini curiosamente posta spesso notizie sul migliore amico dell’uomo) o i gattini; rappresentano il futuro e l’innocenza e per questo devono essere protetti dai pericoli del mondo esterno.
Pericoli rappresentati a vario titolo da pedofili, vaccini, immigrati (ma non bambini immigrati) e docenti boldriniani di sinistra.
I bambini però danno anche tante soddisfazioni: innanzitutto non hanno il diritto di voto quindi la loro opinione conta sì, ma solo fino ad un certo punto.
Poi però i bambini alla fin fine sono delle persone (incredibile vero?) capaci di sentimenti e di affezionarsi anche ad un personaggio politico.
Soprattutto in questi anni in cui i personaggi politici duellano come eroi dei cartoni animati nelle arene televisive. Ieri ad esempio Matteo Salvini ha mostrato, con l’orgoglio proprio di uno che ha toccato con mano cosa vuol dire essere un papà , il tema scritto da Tancredi, un bimbo di nove anni di Padova.
Nel tema dal titolo “Un incontro emozionante” il bimbo Tancredi racconta di quella volta che ha incontrato il suo idolo. Ovvero Salvini. Non Matteo, non Matteo Salvini, Salvini, scritto proprio così. «Un uomo saggio, simpatico e gentile: il migliore» scrive Tancredi, e non abbiamo motivo di dubitare che per lui Salvini sia proprio così.
A dire il vero non abbiamo motivo di dubitare che si tratti di un tema — quindi di un compito portato in classe — e non di un racconto scritto sul diario.
Ora è chiaro perchè Salvini ha postato la foto del tema di Tancredi: viene descritto come un personaggio sensazionale, con parole semplici dirette, che capirebbe perfino un bambino. Inoltre è la dimostrazione che i bambini amano Salvini. E Tancredi non è il solo, basta leggere i commenti al post per trovare la signora che racconta della pronipote dodicenne che confida a Salvini che «in occasione della tua venuta in Franciacorta, ed orgogliosissima della foto scattata con te, mi disse: “sai zia che nella mia classe votiamo tutti Salvini?”».
Qualcuno si è scandalizzato, chiedendosi se magari Tancredi è vittima della propaganda in famiglia e quindi il tema in realtà riflette le opinioni dei genitori.
Ma non è importante, un po’ perchè ai bambini piace compiacere gli adulti un po’ perchè in fondo a Tancredi non è chiesto di capire le implicazioni economiche delle politiche sovraniste portate avanti da Salvini.
Magari a Tancredi piace la cosa delle felpe, ha una passione per le ruspe oppure è affascinato dal modo con cui Salvini si pone con le persone. Tutte indubbie doti di un leader politico che piacciono ad adulti e piccini.
Ma torniamo al tema di Tancredi. Nessuno nella Lega ha detto una parola contro l’insegnante che ha assegnato quel compito.
E hanno fatto bene perchè se l’obiettivo del lavoro era quello di raccontare un incontro emozionante la maestra non ha certo alcuna responsabilità .
A parti invertite però, quando uno studente delle medie aveva scritto la domanda “come facciamo a cacciare Salvini?” la Lega era insorta, prima contro la docente “colpevole” (ma era una bufala) di aver assegnato quel compito.
Poi i leghisti — consiglieri regionali, non simpatizzanti -hanno accusato la professoressa di non aver controllato che tutti gli studenti avessero cancellato quella domanda.
Infine qualcuno se l’è presa con i genitori “zecche” che inculcano certe ideologie cattive nella testa dei bambini innocenti. Salvini dice che quello di Tancredi è un “tema”, termine che in genere viene utilizzato per i componimenti scritti in ambito scolastico.
Come mai quando un bambino scrive che Salvini “è il migliore” è da lodare pubblicamente (un tema ben scritto, non c’è che dire) e nessuno si chiede se la maestra avesse dovuto evitare di politicizzare un compito scolastico, mentre se qualcuno scrive che Salvini non gli sta simpatico deve essere spedito nei campi di rieducazione?
Com’è che la politica non deve entrare nelle scuole solo quando si scrivono cose che non sono gradite al potente di turno?
Quando nelle classi si fanno lavori sul “gender“ o sullo Ius Soli si strumentalizzano i bambini, ma quando Matteo Salvini posta il tema di un bambino per fare un po’ di propaganda invece è tutto normale.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
REGOLARE IN ITALIA, MA ABBANDONATO A SE STESSO DA UNA POLITICA CRIMINALE… I RAZZISTI NON VOGLIONO CHE SI INTEGRINO, VOGLIONO CHE COMMETTANO REATI PER POI INVOCARE LA FORCA
Il 7 novembre il Senato ha approvato il testo del Decreto Sicurezza (DL 113/18), meglio
noto come Decreto Salvini. Il testo ora passa alla Camera dove l’esame inizierà il 22 novembre.
Nel frattempo gli effetti delle misure di contrasto all’immigrazione volute dal leader della Lega si fanno già sentire.
Ieri Piazza Pulita ha raccontato il caso di Ibrahim, un ragazzo di 18 anni originario dell’Etiopia che proprio grazie a quel decreto ora si trova costretto a dover vivere per strada.
Ibrahim ha ottenuto la protezione umanitaria e per questo è titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari valido fino al 2020.
Non è un irregolare, non è un “clandestino”, ha diritto di stare in Italia.
Una settimana fa però ha ricevuto una lettera da parte del prefetto che gli notificava la revoca della possibilità di rimanere all’interno centro di accoglienza straordinario (CAS) di Vallelonga a Vibo Valentia perchè — spiega un dipendente della cooperativa che gestisce il CAS — «chi è titolare di un permesso di soggiorno umanitario non ha più diritto all’accoglienza».
Ibrahim quindi è stato mandato via e dalla Calabria è andato a Roma, nella speranza di poter trovare un posto dove stare. Come lui un’altra dozzina di ragazzi è stata fatta allontanare dallo stesso centro.
Persone che — in nome della sicurezza — sono finite letteralmente in mezzo alla strada. Ibrahim da una settimana è di fatto un senza fissa dimora, non va più a scuola e non ha alcuna possibilità di essere inserito nella società .
Questi sono gli effetti del decreto che ha cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Come precisa una circolare emanata il 25 ottobre scorso dal Servizio Centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: «in applicazione a quanto disposto dal dl 113/18, il Servizio Centrale non potrà più procedere all’inserimento nello SPRAR di richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria, anche se vulnerabili».
Mentre Salvini festeggiava la giornata storica dopo l’approvazione del DL al Senato Ibrahim, e come lui molti altri ragazzi neodiciottenni, era per strada, senza un tetto, improvvisamente “espulso” dal sistema che li aveva presi in carico fino a qualche giorno prima.
È facile immaginare il peggio se per alcuni di loro l’unica alternativa per sopravvivere può limitarsi a chiedere l’elemosina, cercare di mangiare alla mensa della Caritas o trovare riparo in luoghi di accoglienza d’emergenza come il Baobab di Roma per altri la possibilità di finire in “brutti giri” e quindi di delinquere non è poi così remota.
Il ministro dell’Interno ci ha ripetuto fino alla nausea che “da papà ” donne e bambini saranno sempre tutelati dallo Stato italiano. Per persone come Ibrahim, che dopo aver compiuto i diciotto anni non sono più minori non accompagnati, finiscono in un limbo senza diritti.
A Ibrahim non è stato dato il tempo di finire la scuola o di trovare un lavoro, da un giorno all’altro se ne è dovuto andare.
La Sala Operativa Sociale del Comune di Roma non è in grado di farsene carico perchè non ha un lavoro e non fa parte di un progetto di inserimento sociale.
Di fatto pur avendo un permesso di soggiorno fino al 2020 i ragazzi come Ibrahim sono lasciati a loro stessi, per loro il governo e Salvini non hanno pensato nessuna soluzione “ponte”, hanno semplicemente cessato di essere un “problema” per lo Stato italiano.
Ma non è questo il modo di garantire la sicurezza, perchè lasciare così tante persone per strada, senza nemmeno un’occupazione, rischia di creare più problemi di sicurezza di quanti ne risolva.
Il direttore del Cir Mario Morcone ha dichiarato ad Internazionale che l’abolizione della protezione umanitaria e lo smantellamento del sistema Sprar: «determinerà nuove forme di marginalità , derive di esclusione sociale che inevitabilmente renderanno più fragili le persone che arriveranno in Italia enfatizzando il rischio di conflitti».
Prima del decreto Salvini le persone titolari della protezione umanitaria non costituivano un problema per la sicurezza degli italiani. Ora, proprio grazie a quel decreto, si viene a creare un ulteriore fattore di insicurezza, personale e sociale.
Ma nessun problema, Salvini ha pensato anche a questo: in caso di condanna in primo grado sarà possibile revocare anche quell’ultimo pezzo di carta rimasto in mano ai ragazzi come Ibrahim.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
DIFFAMAZIONE AGGRAVATA A MEZZO STAMPA, CALUNNIA E OMISSIONE DI ATTI D’UFFICIO… DATO MANDATO ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA DI IDENTIFICARE GLI ODIATORI…STAVOLTA SALVINI HA COMMESSO UN ERRORE
Diffamazione aggravata a mezzo stampa, calunnia e omissione di atti d’ufficio. È sull’ipotesi di questi reati che Don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro (Pistoia) impegnato nell’accoglienza dei migranti, ha querelato Matteo Salvini.
Lo aveva promesso a fine agosto, dopo che il vicepremier aveva commentato con due post sui social la notizia della chiusura del suo centro di accoglienza per motivi di sicurezza . E così ha fatto.
Nella querela sono coinvolte anche 22 persone che si accodarono ai messaggi del leader leghista scrivendo frasi ritenute offensive (e mai cancellate dallo stesso Salvini).
Sul caso, come riporta Il Tirreno, indaga la procura di Pistoia.
Immediata la reazione del ministro dell’Interno: “Ecco, mi mancava questa… #hastatoSalvini”, si legge in un tweet pubblicato il 7 novembre, alimentando un botta e risposta con don Biancalani iniziato nell’estate 2017.
E anche qui non sono mancati gli attacchi di alcuni utenti nei confronti del parroco. Per questo, secondo quanto appreso da Ilfattoquotidiano.it, Biancalani e il suo avvocato Elena Baldi pensano di procedere con una nuova iniziativa legale.
“Tempi duri per il prete che ama attaccare me e circondarsi di presunti profughi africani, ancora un po’ e la canonica scoppiava… Chiuso”.
Così, il 28 agosto, Salvini commentava su Facebook la chiusura del centro di accoglienza di Vicofaro a causa di due locali non a norma.
Una frase pubblicata anche sul suo profilo Twitter, ma con un cambiamento: al posto di “profughi africani” era comparsa l’espressione “clandestini africani”.
Ed è proprio per queste due frasi che don Biancalani ha querelato Salvini per diffamazione. A suo dire, nella struttura di Vicofaro non sono ospitati “presunti profughi” o “clandestini”, bensì “soggetti regolarmente censiti dalla Prefettura”.
Parlare di clandestini, poi, implica che il parroco abbia commesso il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Un’accusa che può configurarsi come calunnia o, in alternativa, come omissione di atti d’ufficio.
Dal momento che il ministro dell’Interno è un pubblico ufficiale, infatti, qualora fosse venuto a conoscenza che a Vicofaro venivano ospitati dei clandestini, sarebbe stato obbligato per legge a denunciare il fatto.
Nella querela don Biancalani ha ipotizzato il reato di diffamazione anche nei confronti di 22 “odiatori”, i cui commenti non sono stati cancellati da Salvini.
Per loro la magistratura ha dato mandato alla polizia giudiziaria di individuarne le identità , poichè nascoste dietro nomi di fantasia.
Contattato da Ilfattoquotidiano.it, don Biancalani ha chiarito i motivi che lo hanno spinto a presentare querela. “Se un ministro offende pubblicamente, fa capire di voler offendere o dice cose non vere nei suoi post è chiaro che chi lo sostiene poi segua quel modello”, spiega. “Salvini dovrebbe usare i media in modo più corretto e rispettare il pensiero altrui. Abbiamo bisogno, ora più che mai, di una politica seria e responsabile”.
In poche battute, il parroco di Vicofaro sposta il discorso sul tema dell’immigrazione. “È un problema umanitario enorme. Nessuno ha la ricetta perfetta — anche se, è evidente, noi siamo molto critici e negativi verso le politiche di questo governo — però non si può far passare per bandito chi realizza dei progetti e prova a risolvere le cose”. Il riferimento di don Biancalani è al sindaco di Riace Mimmo Lucano, che ha incontrato di recente, e alle Ong. “Queste organizzazioni sono state criminalizzate. Ed è stato fatto già dal precedente governo. Le storie di Medici senza frontiere o dei ragazzi della Jugend Rettet non possono essere bollate come storie di chi lavora in combutta con gli scafisti”, aggiunge.
“Noi nel nostro piccolo cerchiamo di togliere tanti ragazzi dalla strada, di fare cultura, di creare occasioni di incontro. Abbiamo tantissime richieste, specie ora che si avvicina l’inverno. Perciò non oso immaginare cosa succederà quando entrerà in vigore il Decreto sicurezza. Sarà una crisi umanitaria”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 9th, 2018 Riccardo Fucile
L’ISTITUTO DI STATISTICA IN MANO A UN ALTRO ESPERTO DEL SALTO DELLA QUAGLIA
Il Consiglio dei ministri ha deliberato l’avvio della procedura per la nomina del
professor Gian Carlo Blangiardo a presidente dell’Istituto nazionale di statistica.
A renderlo noto è un comunicato del Cdm, in cui si spiega come il nome di Blagiardo a presidente dell’Istat è stato proposto del Ministro per la pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno.
La designazione sarà quindi sottoposta al parere delle Commissioni parlamentari competenti.
E dire che era stata la stessa Bongiorno, nel luglio scorso, a smentire le indiscrezioni sulla probabile scelta del demografo Blangiardo — vicino alla Lega — come nuovo numero uno dell’Istat senza passare per la raccolta di candidature.
Palazzo Vidoni aveva infatti pubblicato l’avviso per la “presentazione delle manifestazioni di interesse per la designazione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica”.
“Il termine per la presentazione della manifestazione di interesse, da effettuare compilando il modulo online, scade alle ore 23.59 del 16 agosto”, si leggeva.
L’avviso ricordava che il presidente è “scelto tra i professori ordinari in materie statistiche, economiche ed affini, con esperienza internazionale”.
Il Sole 24 Ore nei giorni precedenti aveva scritto che il governo Conte non avrebbe applicato i protocolli europei adottati nel 2014 per arrivare alla nomina di Alleva bensì avrebbe seguito il precorso tracciato dal decreto legislativo 322 del 1989 che prevede cinque tappe la prima delle quali è l’indicazione di un nome da parte del consiglio dei ministri, seguita dal vaglio delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, dalla deliberazione vera e propria in cdm e dal successivo varo del decreto da parte del capo dello Stato. Sergio Mattarella giovedì durante la cerimonia del ventaglio ha ammonito sulla “necessaria imparzialità delle pubbliche amministrazioni”.
Il ministero aveva quindi pubblicato l’avviso pubblico. Al quale evidentemnete ha partecipato anche Blangiardo.
Ordinario di demografia alla Bicocca di Milano, si era fatto segnalare soprattutto per un repentino cambio di opinione sui migranti.
Fino a qualche mese fa sosteneneva che l’invasione non esisteva e la sua soluzione era l’emigrazione circolare: farli arrivare e formarli per farli tornare a portare sviluppo nei loro Paesi.
Durante l’estate, in un’intervista a La Stampa, aveva spiegato che bisogna espellerli perchè “qui non ci stanno“.
Ora sarà nominato al vertice dell’Istat in quota Lega.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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