SALVINI MENTE: CON IL DECRETO SICUREZZA NON SI RIMPATRIANO I RICHIEDENTI ASILO CONDANNATI
LA SITUAZIONE E’ GIURIDICAMENTE BEN DIVERSA
Il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini, ospite di Pomeriggio 5 su Mediaset, il 7 novembre ha dichiarato (min. 2.30): “Fino a ieri, fino a prima di questo decreto, un richiedente asilo (…) se commetteva un reato, tu non gli potevi fare sostanzialmente niente perchè andava avanti la sua domanda di asilo politico. Con questo decreto (…) se ti becco a spacciare, a stuprare o a rubare, ti convoco e ti rimando al tuo Paese”.
In base all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati è vietato il respingimento del richiedente asilo. Ma il secondo comma di questo articolo stabilisce che questo divieto non può essere fatto valere dal rifugiato “se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto Paese”.
Dunque il divieto di respingimento può venire meno, in base al diritto internazionale, per due motivi: se il rifugiato è un pericolo per la sicurezza del Paese che lo ospita, oppure se è condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi e per questo costituisce una minaccia per la collettività .
Il diritto italiano
Che cosa dice il diritto italiano sullo stesso tema? A grandi linee il respingimento può avvenire per gli stessi motivi stabiliti dalla Convenzione di Ginevra.
Il decreto legislativo 251 del 2007 ha recepito la direttiva 2004/83/CE, nata per istituire “un regime europeo comune in materia di asilo basato sull’applicazione, in ogni sua componente, della convenzione di Ginevra”
L’articolo 12 del decreto regola i casi di diniego dello status di rifugiato al richiedente asilo e, riprendendo l’impostazione della Convenzione di Ginevra, prevede due casi: se “sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato”, oppure se “lo straniero costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale”.
Se per il caso di “pericolo per la sicurezza dello Stato” non si richiede una condanna, per il “pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica” sì e in particolare per i reati dell’articolo 407 co.2 lettera a).
Questo articolo stabilisce che le indagini preliminari possano avere una durata superiore al normale se riguardano reati particolarmente gravi, ad esempio omicidio, rapina aggravata, strage, associazione mafiosa, contrabbando aggravato, violenze sessuali aggravate e guerra civile.
Se il richiedente asilo è condannato per uno di questi reati — in via definitiva — non può quindi far valere contro lo Stato italiano il divieto di respingimento e potrebbe teoricamente essere rimandato nel suo Paese d’origine.
Dunque Salvini dice una cosa falsa quando afferma che prima del decreto sicurezza, appena votato dal Senato, al richiedente asilo che aveva commesso un reato non si potesse fare sostanzialmente niente.
Se aveva commesso uno dei reati previsti dall’articolo 407 del codice penale era possibile rifiutare la richiesta di asilo e, teoricamente, rimpatriarlo.
Ma andiamo a vedere cos’è cambiato con il decreto sicurezza votato in Senato il 7 novembre. L’articolo 7 del decreto modifica l’articolo 12 del decreto 251/2007 e, accanto alle ipotesi previste dall’articolo 407 del codice penale per negare lo status di rifugiato al richiedente asilo, ne aggiunge di nuove.
Queste in particolare sono: violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 del c.p.), lesioni personali aggravate (art. 583 c.p.), mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583 bis c.p.), il furto aggravato (art. 624 c.p. nelle ipotesi dell’art. 625 c.p.) e il furto in abitazione o con strappo (art. 624 bis c.p.): quest’ultimo, dopo le modifiche al decreto nel corso della trattazione a Palazzo Madama, anche nelle ipotesi non aggravate.
Ancora l’articolo 7 del “decreto sicurezza” prevede poi che le ipotesi di reati di spaccio, di violenza sessuale, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e tratta possano portare all’esclusione della domanda di asilo anche nelle ipotesi non aggravate (limite, quello dell’aggravante, che era invece stabilito dalla precedente formulazione dell’articolo 407 c.p.).
A un primo sguardo sembrerebbe avere fondamento l’affermazione di Salvini per cui, “se ti becco a spacciare, a stuprare o a rubare, ti convoco e ti rimando al tuo Paese”, ma la situazione è in realtà molto più complicata di come la racconta il ministro dell’Interno.
Tralasciamo eventuali problemi di legittimità su questa norma, che nascono dall’apparente contrasto tra la Convenzione di Ginevra — che parla di “crimini e delitti particolarmente gravi” che rendono il richiedente asilo “una minaccia per la collettività ” — e le disposizioni che prevedono si possa respingere un rifugiato per un furto semplice. Sulla questione sarà probabilmente la magistratura a pronunciarsi.
L’affermazione di Salvini resta comunque fuorviante per due motivi
In primo luogo perchè la procedura che descrive il ministro, in base alla quale “ti convoco e ti rimando al tuo Paese”, è molto distante dalla realtà : il richiedente asilo accusato per un reato tra quelli ora contemplati dal nuovo articolo 12 del decreto 251/2007 deve infatti essere processato attraverso i tre gradi di giudizio da parte della giustizia italiana, con tutte le garanzie del giusto processo.
Mediamente i primi due gradi di giudizio durano quattro anni e mezzo, a cui vanno aggiunti 200 giorni di media in Cassazione e il tempo delle indagini preliminari.
È poi errato sostenere che, anche dopo la eventuale sentenza definitiva di condanna, il richiedente asilo possa essere rimandato automaticamente nel proprio Paese. In base ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, presenti nella Costituzione e non solo, non è possibile infatti che lo Stato italiano si renda attivamente complice nel condannare a morte o alla tortura un essere umano.
Quindi non è possibile rimandare il richiedente asilo condannato, anche per reati gravi, verso il suo Paese d’origine se qui rischia la pena di morte. Questo principio è stato ad esempio ribadito nel 2005 dalla Corte d’Appello di Roma, che aveva concesso l’estradizione di un cittadino italiano verso gli Usa perchè ricorreva la condizione che non rischiasse la pena capitale.
La legge che ha istituito il reato di tortura, la l. 110 del 2017(art. 3), ha poi stabilito che “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
E infatti in Italia sono detenute centinaia di persone che non possono essere legalmente trasferite nei loro Paesi di origine. Secondo il rapporto Antigone di maggio 2018 sono 806 e provengono da Libia, Sudan ed Egitto.
L’affermazione di Salvini è scorretta per alcuni motivi. In primo luogo non è vero che prima del decreto sicurezza votato il 7 novembre dal Senato non era possibile fare niente al richiedente asilo che avesse commesso un reato. Era possibile fare esattamente lo stesso che è possibile fare oggi: solo, l’elenco dei reati considerati gravi — in ossequio alla Convenzione di Ginevra — era più breve.
Adesso sono stati inseriti una serie di nuovi reati (alcuni dei quali non gravi, il che suscita dei dubbi di legittimità proprio in relazione alla Convenzione di Ginevra) ma l’impianto normativo è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Anche dopo il decreto sicurezza infatti non si potrà , come sembra suggerire Salvini, espellere immediatamente il richiedente asilo che ha commesso un reato. Sarà necessaria una condanna definitiva, che potrebbe dunque arrivare dopo anni di processi.
Non solo. Non si potrà comunque rimandare il richiedente asilo condannato in via definitiva nel suo Paese se qui rischia la pena di morte, la tortura o comunque trattamenti disumani. In quel caso dovrà quindi rimanere in carcere in Italia.
(da Globalist)
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