Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
IL PROBLEMA DELLE AUTO AZIENDALI
La manovra è sotto attacco a causa della percezione che vengano introdotte nuove tasse. Ma queste nuove tasse ammontano a solo 2 miliardi a fronte di una manovra di 30 miliardi e la pressione fiscale totale rimane sostanzialmente stabile perchè altre tasse (il cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti) stanno scendendo.
Alla fine questo governo fa meglio di quello precedente anche dal punto vista della pressione fiscale poichè il precedente la aveva aumentata attraverso i condoni.
Ma alcune nuove entrate vanno inevitabilmente trovate se da una parte vogliamo mantenere intatti sia quota100 sia il reddito di cittadinanza sia la flat tax degli autonomi e dall’altra vogliamo evitare l’incremento dell’IVA.
Si può e deve discutere di quali tasse e di quante tasse (e di chi le deve pagare), ma nessuno in buona fede può pensare che si possa fare una legge di stabilità così senza aumentare le entrate.
Questa legge di stabilità :
1. non tocca le spese del passato (quota 100, reddito cittadinanza, il regime forfettario agevolato per i lavoratori autonomi)
2. spende 15 miliardi in tre anni per ridurre il cuneo fiscale, oppure, detto più semplicemente, per estendere ed incrementare il beneficio degli 80 euro a 4.5 milioni di lavoratori in più
3. cancella 33 miliardi di clausole IVA (23 quest’anno e 10 per l’anno prossimo), cioè due terzi del totale di 50 miliardi di clausole IVA ricevute in eredità dal governo precedente.
Si aggiunge a questo il risparmio di 38,5 miliardi relativo alla riduzione dello spread su 3 anni, cioè – tradotto in denaro- lo scampato pericolo a cui l’irresponsabilità del governo precedente ci aveva condannati. Ma questo risparmio, seppur elevatissimo, da solo non sarebbe stato sufficiente alla copertura finanziaria della legge di bilancio.
Inevitabile quindi fare delle scelte in tema di nuove entrate.
Si è scelta una linea improntata alla sostenibilità sociale ed ambientale: da qui le tasse sulle bevande zuccherate e sulla plastica monouso. Da qui anche l’ultima versione dell’intervento sulle auto aziendali, che in sostanza è una riduzione degli incentivi attuali modulato in funzione delle emissioni.
Oggi la situazione è questa: un’azienda che sostiene il costo di un’auto aziendale assegnata al dipendente per uso esclusivamente legato al lavoro, gode di un grosso beneficio fiscale e il valore del bene auto non grava affatto sul reddito del dipendente. Questa casistica rimane immutata.
Quando invece l’auto aziendale viene assegnata al dipendente per uso promiscuo (quindi il dipendente la usa sia per andare al lavoro sia per andare in vacanza o per andare a fare la spesa) e quindi rappresenta per costui un benefit che ne integra il trattamento economico, l’azienda deduce il 70% del costo mentre il dipendente paga tasse e contributi sul 30% del beneficio ricevuto (calcolato in modo forfettario).
Tutto questo avviene a prescindere dal reddito del lavoratore, cioè il beneficio è ugualmente goduto dai massimi dirigenti delle aziende così come fai dipendenti di più basso livello tra quelli che accedono all’auto aziendale (nelle aziende che hanno forza commerciale molto numerosa la flotta aziendale è molto numerosa ed interessa anche dipendenti coinvolti nelle attività commerciali ma inquadrati a livello medio basso)
Con la legge di bilancio i benefici restano immutati per le auto elettriche ed ibride, mentre per le auto “poco inquinanti” l’imponibile a carico del dipendente passa dal 30% al 60%, per le auto più inquinanti arriva al 100%.
Il punto non è tassare (abbiamo detto che in misura minima è necessario) e neanche se le tasse (verdi) sono giuste ma quanto e come tassare. E’ evidente che se da un anno all’altro raddoppi la tassazione sulle auto aziendali il ceto medio (quello che oggi vota PD) si preoccupa.
Allora bisogna fare due considerazioni a mio parere per correggere la norma.
La prima è che non siamo gli unici che si preoccupano dei benefits alle auto aziendali. Per citare solo due studi dell’OECD (https://www.oecd.org/env/tools-evaluation/company-car-taxes.htm) i tax benefits delle auto aziendali ammontavano a 26 miliardi di euro nel 2012 e i costi ambientali a 116 miliardi di euro (OECD nota che il beneficio fiscale non è correlato ai km percorsi e le auto aziendali percorrono in media 3 volte più km delle auto private).
Ma in media gli altri paesi OECD tassano le auto aziendali al 50% noi solo al 30% e se domani passassimo al 60% passeremmo da sotto la media OECD a sopra la media in un solo anno.
In più la metà delle nuove immatricolazioni di auto sono auto aziendali, con il tavolo automotive appena aperto al Ministero dello Sviluppo Economico credo che, in termini di politica industriale, sia opportuno un approccio più graduale.
La seconda considerazione è che per come funzionano ora i tax benefits delle auto aziendali (che ricordiamo sono denaro pubblico) non hanno un limite di valore rispetto alla retribuzione totale del dipendente e non hanno limiti rispetto al reddito.
Allora per rendere l’intervento più equo si potrebbe seguire la strada che fu presa per il welfare aziendale (quello condizionato ad accordi sindacali e ad obiettivi di produttività ). Per il welfare aziendale la regola è che tu puoi convertire il tuo premio di produttività da denaro in welfare benefits esentasse ma il beneficio fiscale è solo nel limite di 3000 euro l’anno e solo per chi ha retribuzioni lorde minori di 80 mila euro.
E’ chiaro che i salari italiani sono stagnanti da 20 anni e in questi anni aziende e lavoratori hanno giustamente utilizzato ogni modo per aumentare il netto in busta paga (incluse le auto aziendali!) ma questo è pur sempre denaro pubblico.
Mentre è evidente che non ha senso aumentare le tasse (ergo ridurre l’esenzione) sull’auto aziendale ad un dipendente che guadagna 40 mila euro all’anno, non vedo perchè dovrei sussidiare l’auto fiammante di dipendenti che guadagnano centinaia di migliaia (se non milioni) di euro all’anno e non vedo perchè dovrei permettere ad aziende scorrette (con i dipendenti prima di tutto) di pagarli poco in denaro e tanto in auto aziendale.
Tra le 550.000 auto aziendali oggi in circolazione si potrebbe trovare anche qualche altro motivo di differenziazione che non sia solo quello delle emissioni di CO2. Il Parlamento esiste anche per questo.
Marco Leonardi
Economista
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
POMIGLIANO D’ARCO E’ IL SIMBOLO DEGLI ERRORI ALLA BASE DEL REDDITO DI CITTADINANZA
Pomigliano D’Arco, comune in provincia di Napoli di poco più di 39mila anime, ha una
particolarità . Oltre a essere la cittadina che ha dato i natali al capo politico del Movimento 5 Stelle e attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è in grado di offrire un quadro ben dettagliato di come il famoso reddito di cittadinanza — sbandierato ai quattro venti dal Movimento 5 Stelle come palliativo per ridare linfa al mercato del lavoro italiano — sia un incentivo alle assunzioni solamente su carta. La realtà , invece, mostra un qualcosa di molto più stantio e bloccato.
Quel che viene fuori dall’inchiesta di Niccolò Zancan su La Stampa, mostra tutte le contraddizioni del provvedimento su cui Luigi Di Maio ha messo la faccia.
La scelta della meta, non a caso, è stata proprio quella Pomigliano D’Arco tra le cui strade è cresciuto l’ex Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, ora passato agli Esteri.
Su 39mila abitanti, infatti, oltre 12mila persone risultano essere percettori del reddito di cittadinanza. Tutto legittimo, nulla sopra la legge.
La questione che fa riflettere, invece, sta nei racconti di tutte quelle persone che se da una parte ringraziano lo Stato per quel sussidio ottenuto grazie al reddito di cittadinanza, dall’altra si chiedono perchè non siano ancora stati chiamati per un lavoro.
Perchè, spesso questo tema è passato sotto traccia, il vero fine ultime del provvedimento targato M5S non doveva essere riempire le tasche degli italiani, ma cercare di far sbloccare la macchina del lavoro in tutta Italia.
E, invece, a Pomigliano D’Arco (così come in altre zone d’Italia) quel meccanismo è ancora inceppato. Interpellato da La Stampa, il sindaco della città (Lello Russo, del Centrodestra) ha detto di aver parlato con l’Inail che gli ha spiegato come la normativa per le assunzioni non sia ancora stata ultimata. Per questo il reddito, anche lì, si è trasformato in puro assistenzialismo che non ha creato alcun posto di lavoro.
(da agenzie)
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Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
TRA GLI ALTRI LEADER: BERLUSCONI 94.000, RENZI 65.000, MELONI 39.000
Virginia Sala oggi sul Fatto Quotidiano racconta i soldi che spendono i politici su Facebook in un articolo in cui racconta i risultati dei social network dei sindaci e le leadership nazionali:
La situazione di inizio novembre ancora una volta vede Matteo Salvini in pole position, sia per numero di follower che per coinvolgimento nelle discussioni (dove è al terzo posto).
Al secondo posto, c’è Luigi Di Maio con 2,2 milioni di follower, al terzo Beppe Grillo con 1,1 milioni
Attenzione al doping, però. Se l’attuale ministro degli Esteri risulta non aver pagato neanche un euro perle inserzioni di Facebook così come Grillo e Alessandro Di Battista, non si può dire lo stesso per la quasi totalità dei presenti nella top ten (che appunto termina con la Raggi).
Per “ripulire questi numeri”, infatti, si dovrebbe guardare agli investimenti fatti in pubblicità . I dati disponibili, a oggi, riguardano le inserzioni pagate a partire dalla campagna elettorale delle scorse elezioni europee.
Ebbene, nell’ordine: Matteo Salvini ha speso 161.608 euro da marzo, 12 mila nella sola ultima settimana; Giorgia Meloni 39 mila, Matteo Renzi 65 mila, Silvio Berlusconi 94 mila. Il Partito Democratico 147.962, il Movimento 5 Stelle 49.999. E ancora, Forza Italia 44.045, Fratelli d’Italia 33.289.
Insomma, c’è una bella differenza tra un mostro di popolarità spontanea, un genio del social network e uno con 161mila euro da spendere, no?
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
TRENT’ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO, INTERVISTA AL MUSICISTA MASSIMO ZAMBONI: “IL NUOVO PENSIERO UNICO E’ L’INVASIONE DEI MIGRANTI”
La prima volta che lo vide rimase perplesso: “E questo sarebbe il Muro di Berlino? La parete che
regge tutta la tensione della Guerra Fredda? Credevo mi sarei trovato di fronte i bastioni di Troia, di Micene, di Babilonia. Invece, avevo davanti un prefabbricato di cemento alto un paio di metri. Duro al tatto, scabro, silenzioso”.
Era il 1981 e Massimo Zamboni — musicista, scrittore, autore di Nessuna voce dentro (Einaudi), memoir della sua giovinezza berlinese — di lì a poco avrebbe fondato, insieme a Giovanni Lindo Ferretti, proprio a Berlino, il gruppo punk più formidabile della scena italiana, i CCCP: “Era impossibile immaginare allora che quel muro sarebbe crollato nel giro di pochi anni. Il mondo era spezzato in due. Da una parte c’era la metà governata da Reagan, dall’altra quella di Brèžnev. Niente poteva unire quel che il muro aveva diviso. Eppure, se si ascolta la musica dei gruppi della Germania Orientale — oggi che lo si può fare — ci si accorge che era identica a quella che si ascoltava nei locali underground della parte ovest di Berlino: sperimentale, dura, severa, tetra, consapevole. La presunzione del muro era quella di segnare il confine invalicabile tra due mondi nemici. In realtà , il punk quel limite l’aveva attraversato, senza che nessuna sentinella potesse fermarlo, sparandogli addosso. Il presagio del crollo era già tutto lì, sebbene ancora impossibile da decifrare”.
Era un’alchimia irripetibile quella di Berlino Ovest, dove, prima dei punkettoni, avevano vissuto, suonato, composto e, in certi casi, toccato il vertice della propria creatività artisti come David Bowie, Lou Reed, Iggy Pop: “In un regime claustrofobico come quello, se hai qualcosa da esprimere, sei costretto a esprimerlo con violenza, senza alcuna mediazione. Quella città era un moncone di occidente immerso nel territorio della Repubblica Democratica Tedesca, del tutto atrofizzata economicamente. Ci vivevano solo i turchi, i vecchi, i ragazzi che volevano essere esentati dal servizio militare, giovani strani che venivano da tutta Europa”.
Lei perchè ci andò?
Lessi un articolo di Frigidaire di un certo Franz Tunda. Raccontava che, da un po’ di tempo, la cosiddetta ‘vetrina del mondo libero’ aveva i vetri sporchi. C’erano casini continui. Occupazioni di case, sgomberi, ri-occupazioni. Prosperava la sottocultura alternativa: circoli, librerie, teatrini, gruppi di ricerca. Era uno scenario da sogno per me che mi sentivo asfissiato da Reggio Emilia. Lasciai tutto e andai. Volevo guardare al di là della torretta, dall’altra parte del muro, dentro quel mondo che l’Occidente voleva negare”
Cosa vide?
La prima volta che andai a Berlino Est ero con Giovanni Lindo Ferretti. Camminammo lungo la via principale, che oggi è piena di negozi e alberghi, mentre allora era tappezzata dalle gigantografie dei dirigenti del Partito comunista. La musica classica era sparata a tutto volume, come una marcia trionfale. Fummo travolti da un’idea politica del mondo. Che ci attraeva e, insieme, ci respingeva.
Cosa vi attraeva?
L’attrazione, a volte, nasce dal rifiuto di qualcosa di sè. Noi venivamo dall’Italia dei primi anni ottanta. Un’Italia nella quale l’eroina viaggiava a velocità vertiginosa, le ideologie si erano frantumate, dove non si poteva ragionare di politica se non avevi una pistola in mano. Un’Italia dove imperversava il refrain della superiorità morale dell’occidente, un tappeto sotto il quale si nascondeva tutto ciò che non funzionava. Era un ritornello insopportabile. E poter andare dall’altra parte, osservando il nemico con i propri occhi, fu un grande insegnamento.
Quasi le dispiacque quando, trent’anni fa, crollò il muro?
No, non mi dispiacque affatto. L’enorme compressione dei diritti che subirono le persone della Germania dell’Est, con il suo paranoico sistema di controllo, non poteva che generare quello scoppio. La storia è un motore implacabile. Ha il suo ritmo. Compressione. Oppressione. Espansione. Liberazione. I suoi tempi sono stati rispettati con estrema precisione anche nel caso della caduta del muro di Berlino.
Cosa non la convince, allora?
La caduta del muro è stato un avvenimento sacrosanto e benedetto. L’enfasi con cui è stata presentata, però, è sospetta. Non si può celebrare il valore della libertà degli uomini un giorno, e dimenticarsene immediatamente il giorno successivo. Sì, il muro è crollato, ma nel mondo tanti altri muri sono stati eretti. Il grande nemico comunista è franato. E l’occidente è subito corso a sostituirlo. Oggi non abbiamo più paura dell’Impero sovietico. Il nuovo incubo che ci viene servito è l’invasione dei migranti che arrivano a depredarci dalle coste. La grande paura che regna nel nostro tempo è un nuovo muro — un muro mentale —, eretto dentro ciascuno di noi. Come tutti i muri, è oppressivo. Perchè spinge nell’angolo del pensiero unico.
Ma il crollo del muro non ha reso il mondo più libero?
Per certi aspetti sì, la liberazione ha dato più ossigeno. Ma alla liberazione è seguita una nuova compressione. Nel nord est della Germania, per esempio, la destra xenofoba avanza pericolosamente. Ora: io detesto pensare che la storia sia ciclica. Preferisco credere che abbia così poca fantasia che tenda a imitare se stessa. In ogni caso, sembra di essere alla vigilia di una nuova forma di oppressione.
È la sensazione che ebbe allora?
Allora mi sembrò che, con il muro, crollasse la diga che aveva impedito a due mondi dissolti di franare l’uno sull’altro. Da una parte, c’era il disfacimento del mondo comunista. Dall’altra, c’era il frantumarsi del mondo occidentale, altrettanto chiaro, ma completamente rimosso dalla retorica trionfalista della superiorità occidentale. Dopo la caduta del muro, queste due frane furono libere di mescolarsi. E infatti si mescolarono.
Perchè dice che il mondo occidentale era in crisi?
Fino alla fine degli anni settanta, in Europa e in America, la politica immaginava ancora il futuro come una possibilità . Poi, le bombe, la droga, la violenza di quegli anni chiusero completamente l’orizzonte, precipitandoci nel burrone in cui siamo ancora oggi: l’impotenza.
Nega che l’occidente sia uscito vittorioso dallo scontro con il comunismo?
Contesto la lettura appagante che i vincitori hanno dato del Novecento, seppellendo sotto la superficie della loro “vittoria” l’insieme di speranze, sacrifici e lotte che hanno costituito l’essenza della parola socialismo, e il cui significato non si esaurisce certo nella storia dell’Europa dell’Est.
Ha qualche nostalgia?
No, non credo che sia esistito, nè che possa esistere, il paradiso in terra. Quello in cui sono nato è l’unico mondo in cui io potrei vivere. In altri contesti, probabilmente, non sarei arrivato vivo all’età adulta. Siano benedette perciò l’Europa e l’Italia. Sia glorificata l’Emilia. Sia adorata la provincia di Reggio, nella quale vivo.
Però?
Però ritengo insopportabile la convinzione di noi occidentali di vivere nel migliore dei mondi possibili. E detesto il perbenismo con il quale giudichiamo, guardando dall’alto verso il basso, qualsiasi altra civiltà del mondo. Il problema è che la caduta del muro di Berlino ha accentuato questa pulsione, dando ancora più arroganza agli arroganti.
Cosa le piaceva del muro?
Il suo linguaggio franco e diretto. Non proclamava una finta libertà , nè passaggi facili, non ti faceva credere che il mondo potesse essere tuo. Era uno strumento politico. Affermava: “Di qui non si passa”. Era un imperativo sgradevole, ottuso, spietato, terribile, persino criminale. Però diceva la verità . Nelle nostre città , invece, le parole proclamano un cosa, la realtà ne afferma tante altre.
Come viveste il crollo del muro nei CCCP?
Anche noi eravamo un piccolo stato socialista, e perciò franammo insieme a tutti gli altri stati fratelli. La caduta del muro ci spinse a dichiarare che una storia era finita.
Poi però ricominciò, con i CSI.
Sì, ma era un’altra storia.
Invece, la sua storia con Lindo Ferretti?
Iniziò a Berlino, una sera d’estate del 1981 e si concluse alle fine del 1999, sempre a Berlino, dove eravamo andati a registrare il primo album di un nuovo piano quinquennale.
Perchè non ci riusciste?
Perchè i conflitti tra noi esplosero e non c’era più modo di governarli.
A Berlino iniziaste, a Berlino finiste.
Tutto quello che Berlino mi ha dato, con estrema generosità , nel 1981, Berlino me lo ha tolto, con altrettanta ferocia, diciotto anni dopo. Ma ho il conto in pari, con lei. E mi va bene così.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
I SOLDI IN CASSA FINIRANNO A DICEMBRE, BRUCIATI ALTRI 900 MILIONI E NON PAGANO NEPPURE GLI INTERESSI
Mentre l’europarlamentare della Lega Antonio Maria Rinaldi sorseggiava il suo limoncello gentilmente offerto da Alitalia ai clienti business, la compagnia bruciava circa 837 milioni di euro di liquidità da quando è nella gestione commissariale.
Al giro di boa dei due anni e mezzo di gestione commissariale — cominciata il 2 maggio 2017- i calcoli elaborati dal Sole 24 Ore e presentati oggi da Gianni Dragoni sulla base dei dati disponibili.
Secondo stime, la cassa, depurata dagli anticipi già incassati, a fine settembre sarebbe ridotta a 160 milioni. La previsione è che si esaurirà in dicembre.
Non è indicato in quale giorno del mese, ma Alitalia rischia di rimanere senza carburante e senza soldi per pagare gli stipendi.
La gestione commissariale, nominata durante il governo di Paolo Gentiloni dall’allora ministro Carlo Calenda, ha scelto di fare un programma di cessione dell’attività e ha ottenuto un prestito statale di 900 milioni, a un tasso di circa il 10% annuo. Con una simile dote i commissari avrebbero anche potuto tentare di fare un programma di ristrutturazione dell’azienda.
La legge lo consente in alternativa alla vendita dei beni. Sta di fatto che la cessione non c’è ancora stata nè è sicuro che ci sarà , mai soldi sono finiti
Alitalia non è in grado di restituire i 900 milioni, non ha versato al Mef neppure gli interessi per 145 milioni maturati fino al 31 maggio scorso, poi cancellati per il periodo successivo dal «decreto Crescita» del precedente governo, che ha anche abolito il termine per il rimborso dei 900 milioni (era il 30 giugno).
L’ultimo dato ufficiale comunicato dai commissari è che a fine settembre rimanevano 310 milioni in cassa. Ma questa somma è gonfiata, come in un «doping amministrativo», dagli anticipi per i biglietti prepagati peri voli futuri.
Questi soldi sono un debito della compagnia verso i clienti. A quanto ammontino questi anticipi non si sa, ma si tratta di 4-5 milioni di biglietti. Del resto, se non ci fosse un’emergenza di liquidità per Alitalia il governo non avrebbe inserito nel decreto legge fiscale un nuovo finanziamento statale ad Alitalia.
Nella bozza originaria il «prestito» era di 350 milioni. Nel testo finale è salito a 400 milioni. Il decreto dice che questo «finanziamento a titolo oneroso» (al tasso di quasi il 10%) è concesso per sei mesi ad Alitalia e alle altre società del gruppo «per le loro indilazionabili esigenze gestionali». L’obiettivo è «consentire di pervenire al trasferimento dei complessi aziendali».
Intanto il costosissimo (in tema di soldi pubblici) limoncello che l’europarlamentare Rinaldi sorseggia a bordo del vettore nazionale è a carico dei cittadini e Alitalia deve scegliere tra due partner per ricominciare l’attività : Delta e Lufthansa.
Il Corriere della Sera fa sapere che ci sono ben tre bozze di rilancio. La prima, di Fs e Delta, prevede una newco con 103 aerei e 2.500 esuberi.
La seconda, di Atlantia, ipotizza 97 velivoli e 2.800 esuberi.
La terza, di Lufthansa, propone 75 velivoli e 5-6.000 esuberi. I commissari Daniele Discepolo, Enrico
Laghi e Stefano Paleari – scrive il quotidiano in un articolo a firma di Leonard Berberi – privilegiano il progetto Fs-Delta perchè da un lato i 100 milioni arriverebbero subito, dall’altro i sacrifici occupazionali sarebbero inferiori.
L’investimento è il vero rebus delle trattative con Lufthansa. I tedeschi a parole hanno ipotizzato un equity «di circa 150 milioni» nella nuova Alitalia, ma non c’è ancora un impegno preciso.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 3rd, 2019 Riccardo Fucile
L’APPELLO AI GIOVANI: “NON SI DIFENDONO AMBIENTE E DIRITTI COMPIACENDO CHI DETIENE IL POTERE”
«Il mondo che vogliamo» è il titolo del libro di Carola Rackete pubblicato da Garzanti e
Repubblica e inedito in Italia, che arriverà in edicola da domani e per due mesi con Repubblica.
In 160 pagine la capitana della Sea Watch 3, diventata simbolo di umanità e coraggio, rivolge un appello ai più giovani, ma non solo, per lottare in difesa dei diritti umani e dell’ambiente.
Un’anticipazione del primo capitolo è pubblicata oggi dal quotidiano:
Non possiamo più aspettare, siamo l’ultima generazione che può ancora attenuare le conseguenze della catastrofe ecologica. Nei prossimi anni abbiamo la possibilità di ottenere dei risultati. Ma le nostre chance diminuiranno rapidamente. E più il nostro comportamento rimane conforme all’attuale sistema economico, più a lungo restiamo fermi e non facciamo niente, più ci lasciamo servire sul piatto soluzioni politiche tiepide, più difficile sarà fare qualcosa per evitare il superamento delle soglie critiche del sistema climatico. Finchè non sarà troppo tardi. (…)
Molti pensano che la disobbedienza civile sia un problema perchè provoca rivolte e disturba l’ordine. Viviamo in un’epoca nella quale l’ordine è sbagliato e distruttivo. Deve essere distrutto, perchè altrimenti le persone muoiono. Perchè altrimenti permettiamo che il sistema, con la sua fede nella crescita costante, ci rubi qualcosa che è incredibilmente prezioso e irrecuperabile. Perchè non si fermeranno volontariamente. E perchè non possiamo accettare che a causa del sistema la maggioranza delle persone sia derubata, ingannata e oppressa in nome dell’ordine. Dobbiamo farlo, invece di continuare a sperare che conserveremo i nostri diritti e il nostro futuro compiacendo coloro che sono ancora al potere. Il problema è l’obbedienza civile, non la disobbedienza civile. Agiamo, invece di sperare.
(da “NextQuotidiano”)
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