Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
FDI 22%, PD 21%, LEGA 14%, M5S 10%, FORZA ITALIA 8%, AZIONE+EUROPA 5,5%, INSIEME PER IL FUTURO 3%
Cresce il Partito democratico, tallonando Fratelli d’Italia. 
Secondo l’ultima rilevazione di Noto Sondaggi i dem ad eventuali elezioni otterrebbero il 21% dei consensi, circa un 1% in più rispetto allo scorso sondaggio del 13 giugno.
Il partito di centrosinistra recupera così terreno sulla formazione di Giorgia Meloni, che passa dal 22,5% al 22%. Il distacco, in questo modo, passa da un 2,5% ad un 1%.
Al terzo posto continua a perdere consensi la Lega. Il partito di Matteo Salvini oggi è stimato al 14%. Se si pensa che alle elezioni europee del 2019 ottenne il 34% dei consensi, il confronto è impietoso: in tre anni il Carroccio ha ridotto la sua forza elettorale quasi a un terzo
Stesso discorso per il Movimento 5 stelle (che ottenne il 32% nel 2018), che però secondo Noto dopo la scissione perderebbe “solamente” un 1,5%, passando dall’11,5% al 10%, in linea con altre rilevazioni.
Restano poi stabili Forza Italia all’8% e la federazione tra +Europa e Azione al 5,5%.
Più in basso ci sono Italia Viva di Matteo Renzi al 3,5% e il nuovo gruppo guidato da Di Maio, Insieme per il Futuro, stimato al 3%.
Poi: Italexit e Noi con l’Italia al 2%, Italia al centro di Toti all’1,5%, i Verdi e Leu-Art.1 all’1,5%, Coraggio Italia di Brugnaro e Sinistra Italiana all’1%. Tutte le altre liste assieme varrebbero il 2,5%.
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
LE FIBRILLAZIONI NEL PARTITO RESTANO E SI VOCIFERA SU NUOVI ADDII NEL CONSIGLIO REGIONALE LOMBARDO… OVVIAMENTE NOI TIFIAMO PERCHE’ SALVINI RESTI SEGRETARIO: SOLO LUI PUO’ PORTARE ALL’ANNIENTAMENTO DELLA LEGA… IERI E’ ANDATO PURE AL RICEVIMENTO ALL’AMBASCIATA AMERICANA A MANGIARE HAMBURGER
Cambiare il nome del partito togliendo il nome del leader? «È l’ultimo dei problemi, il centrodestra deve rispondere ai problemi del Paese trovando un progetto condiviso». E Massimiliano Fedriga nuovo leader della Lega? «Lo escludo».
È lo stesso governatore del Friuli-Venezia Giulia, ai microfoni di Un giorno da pecora , ad innaffiare di acqua gelida tutte le illazioni degli ultimi giorni. Certo, il poco brillante risultato delle Amministrative le ha amplificate, la fibrillazione esiste più ancora nella base che non tra i dirigenti, ma al momento di ribaltoni non se ne vedono.
Anche se le voci di altri addii alla Lega si moltiplicano in tutta Italia. In Lombardia si parla di consiglieri regionali pronti a lasciare per formare un gruppo che – magari in accordo con l’associazione «Autonomia e libertà» dell’ex ministro bossiano Roberto Castelli – in questo modo non dovrebbe raccogliere le firme per le Regionali 2023.
L’attesa è comunque per lunedì, quando Salvini riunirà lo stato maggiore leghista in una sorta di comitato politico. Non è detto che in quella sede arrivino attacchi decisivi alla leadership della Lega.
Salvini è consapevole dei malumori, anche se forse non coglie fino in fondo quello dei militanti. Per questo, i sostenitori di un congresso – che pure sono spesso salviniani veri – la dicono così: «Negli ultimi mesi, o anni, abbiamo un po’ appannato la nostra identità: ci sono atlantisti e putiniani, nordisti e nazionalisti, sovranisti ed europeisti, pro vax e no vax Ma alle Politiche, bisognerebbe arrivare con chiarezza».
Il segretario affida molto al raduno di Pontida del 18 settembre. Luca Zaia negli ultimi giorni continua a parlare dell’importanza dell’identità di un partito, e Salvini probabilmente pensa a qualcosa del genere. Molti leghisti ritengono invece che possa essere l’occasione per sfilarsi dal governo.
Detta così, suona male: sembra che la stabilità del Paese alla vigilia della sessione di bilancio passi per un appuntamento di partito. Ma è certamente vero che ormai in molti sono convinti che il sostegno al governo abbia fatto il suo tempo. Anche se in fondo sono pochi a pensare che la Lega ritirerà il sostegno su questo.
Tra i temi in cui si vorrebbe una barra più ferma, la politica estera. Salvini, con la fidanzata Francesca Verdini, ieri era a Villa Taverna, la residenza dell’ambasciatore Usa, per i festeggiamenti dell’Independence day. Nella Lega, un appuntamento atteso con qualche apprensione.
Gli Stati Uniti, spiegano nel partito, hanno seguito «con sorpresa» la vicenda del viaggio mancato a Mosca. «D’altronde – ride sotto i baffi un salviniano – se Matteo non fosse andato voi giornalisti avreste fatto un finimondo. Voleva andare a Mosca, ma non a Villa Taverna».
(da il Corriere della Sera)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
SCRIVEVA SU TWITTER DI ESSERE A FAVORE DOPO LA SCUOLA DELL’OBBLIGO… COSA NON SI FA PER I VOTI DEI RAZZISTI
“Sì allo iusculturae per chi è fieramente di cultura italiana dopo aver finito la
scuola dell’obbligo”.
Sembra incredibile, ma questa frase è di Giorgia Meloni.
La leader di Fratelli d’Italia, oggi tra le maggiori oppositrici della proposta di legge sullo Ius scholae, che concede la cittadinanza a chi ha frequentato 5 anni di scuola in Italia e ha un genitore legalmente residente in Italia, lo scriveva su Twitter nel 2014.
In quel tweet si opponeva allo Ius soli, meccanismo che concede la cittadinanza a chi nasce sul territorio di un Paese (con poche altre condizioni), come accade negli Stati Uniti.
Certo, la proposta di Meloni non è proprio uguale a quella sullo Ius scholae di cui è primo firmatario il deputato grillino Giuseppe Brescia, ma poco ci manca.
Con una legge sul modello Meloni del 2014, infatti, i ragazzi italiani potrebbero ottenere la cittadinanza italiana a 16 anni, appena dopo la fine dell’obbligo scolastico.
Quello a cui la leader di Fdi aveva dato l’ok è una possibile versione dello Ius scholae. In pratica si riconosce la cittadinanza solo considerando il principio che italiano è chi conosce la nostra cultura, perché l’ha studiata.
Nei giorni scorsi, invece, Meloni ha chiesto di cancellare dal calendario dei lavori della Camera (per ora è stata solo rinviata) la discussione della proposte di legge sullo Ius scholae, che invece potrebbe contribuire a cambiare in aula nel senso che intendeva con la sua idea del 2014. Questo ddl viene invece definito dal partito la legge della “cittadinanza facile agli immigrati: un provvedimento ideologico e fuori dal mondo”.
Ad oggi in Italia vige solo lo Ius sanguinis: un bambino è italiano se almeno uno dei genitori ha la cittadinanza, indipendentemente da dove sia nato o cresciuto. Una persona nata in Italia da genitori stranieri può al momento chiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, a patto di aver risieduto legalmente e ininterrottamente sul nostro territorio fino a quel momento.
(da Fanpage)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
PUR DI NON RICONOSCERE UN DIRITTO SE NE INVENTANO DI TUTTI IO COLORI… NEANCHE LE PALLE DI AMMETTERE DI ESSERE RAZZISTI
Si ricomincia. Valanghe di emendamenti, minacce di crisi di governo, arringhe improponibili: i sovranisti fanno di tutto pur di non far passare la riforma della cittadinanza e riconoscere lo status di cittadini italiani a circa un milione di bambini e ragazzi che, de facto, già lo sono.
C’è un problema di premesse. Per la Lega e Fratelli d’Italia, la cittadinanza è un privilegio, è qualcosa che ci si deve meritare. Bisogna guadagnarsela la cittadinanza, hanno detto ciclicamente Matteo Salvini o Giorgia Meloni ogni volta che si è iniziato a parlare di ius soli o ius culturae. Il problema, si diceva, sta all’origine: guardare a quello che dovrebbe essere un diritto (e non lo dico io, ma la Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo e del cittadino, articolo 15) come a un favore, una concessione.
Io sono nata con la cittadinanza italiana, non ho fatto alcuno sforzo per meritarmela. Perché allora un’altra persona nata e cresciuta in Italia, esattamente come me, deve dimostrare di essere italiana solamente perché i suoi genitori hanno una cittadinanza straniera?
Nel 2017 è naufragata in Senato la proposta di legge sullo ius soli, che avrebbe concesso la cittadinanza a tutti coloro che nascevano entro il territorio italiano. E mentre se ne discuteva Salvini, che un anno dopo sarebbe diventato ministro dell’Interno, commentava: “La cittadinanza non è un biglietto al luna park, il viaggio gratis in autoscontro. È una scelta matura e consapevole, è la fine di un percorso: a 18 anni puoi decidere se la cultura e il Paese che ti ospita saranno i tuoi”.
Un percorso che però se nasci da italiani all’estero, anche senza aver mai messo piede in Italia, senza parlare la lingua o conoscere la cultura, non devi fare: la cittadinanza ti viene comunque riconosciuta.
Quel privilegio e quel merito a cui il sovranismo lega la cittadinanza, quindi, passa per il sangue. Che deve essere rigorosamente italiano.
Parlare di ius soli in tempi di governi dalle larghe intese si è dimostrato impossibile. Anche sullo ius scholae, arrivato alla Camera e già rinviato, la questione si prospetta difficile. Per la Lega è una “provocazione inaccettabile”, Fratelli d’Italia di “cittadinanza facile per immigrati” chiamando subito alle elezioni anticipate.
I sovranisti sono terrorizzatio dall’idea di riformare la legge sulla cittadinanza, indignati al pensiero di riconoscerla a quelli che considera stranieri.
Anche se non hanno conosciuto mai nella loro vita realtà diverse da quella italiana, sono comunque considerati estranei rispetto qualcosa a cui a tutti gli effetti appartengono
L’ostruzionismo allo ius scholae, come già fatto per lo ius soli, si traduce in centinaia di emendamenti. Tra cui, moltissimi improponibili legati alla conoscenza delle sagre italiane o dei santi patroni.
In tutti questi anni nessuno ha mai testato la mia cittadinanza chiedendomi informazioni sulle “tradizioni popolari più rinomate”, sui “prodotti tipici gastronomici italiani”, “sugli usi e costumi dagli antichi romani a oggi”.
Nessuno ha mai controllato se fossi uscita da scuola a pieni voti o se avessi commesso atti violenti in orario scolastico. Ma questo è ciò che richiede per gli italiani di seconda o terza generazione la Lega attraverso le centinaia di emendamenti presentati.
E anche il partito di Meloni (che anni fa si dichiarava favorevole allo ius culturae, ora deve aver cambiato idea) ce la mette tutta perché della nuova proposta di legge non se na faccia più nulla.
Insomma, argomentazioni che non entrano nel merito. Parallelismi con l’immigrazione clandestina che non c’entrano nulla. O con la criminalità, che c’entrano ancora meno.
L’ennesima strumentalizzazione, l’ultimo schiaffo, a giovani italiani che non sono ancora cittadini per un solo motivo: perché la legge sulla cittadinanza nel nostro Paese è fondamentalmente razzista.
(da Fanpage)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
TROVATI I BIGLIETTI PER LA PARTITA DELLA SERA DEL VOTO: SONO DAVVERO ANDATI ALLO STADIO
Preferirono lo stadio alla presidenza del seggio. È quanto risulta agli inquirenti
della procura di Palermo, che stanno indagando sui forfait improvvisi di 174 tra presidenti e scrutatori alle ultime elezioni comunali della città siciliana, tenutesi il 12 giugno scorso.
L’esame dei biglietti per la finale di Play off di serie C Palermo-Padova per la promozione in B, prevista per la sera degli scrutini allo stadio Renzo Barbera, avrebbe confermato i sospetti: circa 10 ticket, tutti nominativi, risulterebbero intestati ai presidenti e agli scrutatori rinunciatari.
Ora la Procura attende l’informativa della Digos per formalizzare l’iscrizione nel registro degli indagati dei coinvolti, con le ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio e violazione della legge elettorale.
La rinuncia di massa, avvenuta in gran parte dei casi all’ultimo minuto, scatenò il caos. I seggi rimasero chiusi per diverse ore e i cittadini si rivolsero alla polizia per far valere il loro diritto di voto.
Le difficoltà erano iniziate il giorno precedente all’apertura delle urne, quando un attacco hacker aveva paralizzato la piattaforma elettorale del comune. Il down del sito avrebbe poi impedito ai presidenti di inviare le rinunce in tempo, gettando così la città nel disagio.
Tra le motivazioni ufficiali riportate dai forfettari c’era stata quella della bassa retribuzione: il compenso per i presidenti, avevano testimoniato alcuno di loro, era di 280 euro per l’impegno nell’intera tornata elettorale. Agli scrutatori anche qualcosa in meno.
(da agenzie)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
“L’UE NON CI BASTA, VOGLIAMO LA NATO”
«Lo status di Paese candidato concesso da Bruxelles è un punto di svolta importante, invia un potente messaggio a Putin, e cioè che per lui è tempo di fare marcia indietro. Ora però serve un altro passo. E quel passo non può essere altro che l’avvio del processo d’ingresso dell’Ucraina nella Nato».
Petro Poroshenko, ex presidente ucraino e leader del principale partito dell’opposizione non ci gira attorno: nella sua intervista a TPI spiega che il momento per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il grande spauracchio che aveva agitato Mosca, è propizio.
«È tempo di smettere di chiedersi come reagirà Mosca, è tempo di smettere di avere paura di Putin. Senza Kiev il progetto europeo è incompleto, e senza l’Ucraina il progetto transatlantico tradisce la sua natura».
La presidenza di Poroshenko inizia nel 2014, nel pieno del periodo più controverso della storia moderna dell’Ucraina, dopo le rivolte del Maidan e la fuga del presidente filorusso Viktor Yanukovich.
Quando si insedia a Kiev, prendendo il posto del governo di transizione, trova un Paese mutilato dalla perdita della Crimea, una guerra a est che continua a mietere vittime e un esercito i cui ranghi si stanno sgretolando sotto il colpi della corruzione e dell’artiglieria russa.
Tra le decisioni che marcheranno la sua presidenza c’è infatti l’investimento di capitali ingenti nella ristrutturazione dell’esercito ucraino su standard Nato. Una scelta che metterà a dura prova le finanze di un’Ucraina disastrata dalla guerra e dalla corruzione.
Su quella scelta arrivarono critiche. Oggi invece la ringraziano?
«Sono orgoglioso di essere stato il presidente che ha creato il nuovo esercito ucraino, l’esercito che oggi tutti voi vedete battersi contro quello che dovrebbe essere il secondo esercito più potente al mondo. Durante la mia presidenza abbiamo investito per modernizzare armi, gli addestramenti e migliorare le catene di comando. L’esercito che vedete oggi è meglio addestrato ed equipaggiato di quello che nel 2015 liberò Konstantinovka e Kramatorsk dall’occupazione russa: per questo non ho dubbi che quanto fatto accadrà di nuovo. Grazie al nostro esercito libereremo le nostre città, libereremo Mariupol».
Tra le prime mosse intraprese da Poroshenko una volta giunto alla guida del Paese, c’è stata anche la conduzione dei negoziati che hanno portato alla firma dell’accordo di Minsk II, un’intesa di cessate il fuoco mediata dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) che conteneva una roadmap a punti per la de-escalation del conflitto nell’Est dell’Ucraina.
Gli accordi di Minsk sono stati prima pesantemente attaccati dagli oppositori di Poroshenko come una capitolazione e successivamente criticati per la loro inapplicabilità da alcune delle cancellerie europee. Mosca invece ne ha imposto una lettura differente, interpretandoli come un primo riconoscimento dell’autonomia delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk.
Col senno di poi, gli accordi di Minsk erano davvero fatti male?
«Gli accordi di Minsk contenevano clausole chiare sul ritiro delle truppe russe, il disarmo dei proxis di Mosca in Ucraina, il rilascio degli ostaggi e il ritorno del controllo dei confini dell’Ucraina affidato al governo di Kiev. Fino al 24 febbraio scorso gli accordi di Minsk sono stati coperti di critiche da ogni lato: c’era chi diceva che c’erano troppe concessioni, altri invece che non ce n’erano abbastanza. Ma dopo il 24 febbraio nessuno li ha criticati più. Sia in Ucraina sia fuori hanno capito che quegli accordi sono stati il modo di fermare l’escalation del conflitto dal 2015 fino a pochi mesi fa. Questi otto anni ci hanno permesso di ricostruire l’esercito, di rilanciare l’economia e di creare una coalizione globale contro Putin. In sintesi è anche grazie agli accordi Minsk se Putin ha fallito il suo assalto a Kiev».
Il 12 febbraio 2015 a firmare quegli accordi oltre agli allora presidenti di Francia e Germania François Hollande e Angela Merkel e al padrone di casa Aleksandr Lukashenko, a Minsk c’era anche il presidente russo Putin.
Poroshenko, lei rimane l’ultimo capo di Stato ucraino ad aver condotto di persona un negoziato con il presidente russo, che dal 2016 in poi non ha mai più voluto incontrare nessun rappresentante del governo di Kiev. Che consigli darebbe a chi un domani dovesse nuovamente negoziare con lui?
«Vladimir Putin io l’ho avuto davanti diverse volte e credo di aver capito due regole fondamentali per negoziare con lui. Primo: non bisogna mai avere paura di lui, Putin vive delle debolezze altrui, se saremo deboli lui avanzerà fino quando glielo permetteremo. Non dimenticate che Putin ha vissuto a Dresda, in Germania, e dentro di sé ancora pensa che anche quella città appartenga alla Russia, come per i Paesi baltici. Chissà, magari un giorno reclamerà anche l’Alaska: l’uso che fa della storia è pretestuoso, per quel che ne sappiamo potrebbe anche inventarsi che la Sicilia appartenga alla Russia. La seconda regola è che non bisogna credere mai a ciò che dice, Putin è un mentitore seriale. Mi ha promesso molto durante i miei cinque anni di presidenza: il ritiro dell’artiglieria, lo scambio di prigionieri, ma poi niente. Chiunque voglia parlare con Putin deve avere chiara una cosa: lui è un uomo che non mantiene mai la sua parola».
In Italia però c’è ancora chi si offre di andare a Mosca e addirittura di invitare Putin qui. Diverse forze politiche chiedono che non si abbandonino gli sforzi diplomatici. Che messaggio rivolge a loro?
«Se qualcuno vuole parlare con Putin lo faccia, ma abbia presente che è una figura tossica, è un criminale di guerra che porta su di sé la responsabilità di uccisioni e stupri di donne e bambini. Se qualcuno vuole parlarci si assuma la responsabilità di ciò che fa. Per quel che riguarda un viaggio di Putin in Europa, c’è certamente un posto adatto a lui e che lo aspetta a braccia aperte: L’Aja».
Il Governo italiano invece ha scelto la linea dura contro la Russia, e non era scontato perché Roma, si sa, ha sempre tenuto buoni rapporti con Mosca. Draghi però rischia di perdere pezzi di maggioranza sulla questione delle armi: è preoccupato che qualcosa possa cambiare?
«Il Governo di Mario Draghi ha finalmente messo da parte l’illusione che si possa garantire la sicurezza in Europa grazie a un rapporto personale con Putin: quella dell’“amico Putin” è una formula che non ha mai funzionato. Sulla questione delle armi vorrei prima di tutto ringraziare l’Italia per il supporto garantito finora, ma anche sottolineare che darci le armi è di vitale importanza per l’Italia e per l’Europa stessa, è un investimento sulla sicurezza europea: più armi riceviamo e prima sconfiggeremo la Russia. Ci servono armi capaci di cambiare gli equilibri sul campo, abbiamo bisogno di artiglieria, carri armati, caccia e sistemi missilistici anti aereo e anti nave. Voi in Italia producete tutti questi sistemi e ad altissimi livelli: aiutateci a difendere il nostro Paese e il vostro continente».
Su questo tema lei e il presidente Zelensky parlate con voce unica, ma la coabitazione a Kiev non è sempre stata idilliaca o sbaglio? Addirittura lei è sotto inchiesta per tradimento per un presunto acquisto di carbone dalle miniere delle zone sotto occupazione russa, inchiesta che molti giudicano politicamente motivata.
«Guardi, ho incontrato Zelensky il primo giorno di guerra e mi sono messo a disposizione, perché l’unità del Paese al momento è una delle armi più importanti per vincere questa guerra. Qualcuno però ora cerca di attaccare questa unità. Due settimane fa hanno cercato di impedirmi di viaggiare con la scusa di una firma poco chiara sul permesso di espatrio. Forse qualcuno a Kiev, qualcuno vicino a Zelensky, pensa di mettersi a fare il furbo e regolare i conti interni. Beh, mi faccia dire che sbaglia e che se adesso perdiamo l’unità politica perdiamo tutto».
Con l’inizio del conflitto lei ha continuato la sua attività politica: nei giorni bui dell’assedio d Kiev si è fatto intervistare con il mitra in mano nelle brigate di difesa territoriale. Lei però è un imprenditore di successo con un elevato patrimonio finanziario: molti le hanno chiesto di investire parte dei suoi capitali per sostenere gli sforzi del Paese. Lo ha fatto?
«Sì, ho investito circa 10 milioni di dollari per sostenere l’esercito e il battaglione di volontari Brothers in Arms, che ho fondato, e per rafforzare le difese antiaeree di Kiev. Inoltre ho stanziato molti fondi in aiuti umanitari, ma i dettagli non sono pubblici».
Torniamo allo status di candidato concesso dall’Unione europea all’Ucraina: ci crede davvero a un’Ucraina nell’Ue?
«Sì, anzi accadrà molto prima di quanto lei creda: la nostra lettera di richiesta di quello status è firmata con il sangue dei nostri soldati, siamo la nazione più euroentusiasta del continente oggi e vogliamo lasciarci alle spalle l’era sovietica. I sondaggi parlano chiaro: tutti i Paesi dell’Ue supportano il nostro ingresso, chi più chi meno, ma è un dato sempre sopra il 50%, l’Europa non perda tempo, è un momento che non va sprecato».
(da TPI)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
“ZELENSKY VUOLE L’ATOMICA? MA COSA STA DICENDO?”
A quattro giorni dall’invasione dell’Ucraina, al telefono con Macron il presidente
russo aveva più volte mentito al capo dell’Eliseo. A cominciare dal ritiro delle truppe, fino a mentire spudoratamente con dichiarazioni inventate del presidente ucraino
Di menzogne nella telefonata con Emmanuel Macron quattro giorni prima dell’invasione in Ucraina, Vladimir Putin ne avrebbe sfornate diverse.
Come già anticipato dalla stampa francese, e in Italia dal Foglio, nella trascrizione della conversazione tra Eliseo e Cremlino, Putin aveva garantito che quella sera stessa sarebbero finite le esercitazioni militari al confine con l’Ucraina.
In più si era anche detto più volte ben disposto a incontrare Joe Biden, per discutere con il presidente americano un piano di de-escalation sulla questione ucraina, già in quei giorni in fermento.
Nell’ultimo passaggio rivelato dalla tv francese ieri, 30 giugno, Putin avrebbe addirittura inventato dichiarazioni che Volodymyr Zelensky non ha mai fatto. Dichiarazioni talmente false, da far reagire in modo scomposto anche i componenti dello staff di Macron, che ascoltavano la telefonata in quel momento.
La protesta dello staff all’Eliseo
In quella telefonata del 20 febbraio, Putin dice a Macron: «Vedi tu stesso quello che succede. Tu e il cancelliere Scholz mi avete detto che Zelensky è pronto a fare un gesto, che ha preparato un progetto di legge per applicare gli accordi di Minsk… in realtà, il nostro caro collega, mister Zelensky, non fa nulla. Vi mente. Non so se hai sentito ieri la sua dichiarazione in cui dice che l’Ucraina deve accedere all’arma atomica». A quel punto si sente il consigliere diplomatico di Macron, Emmanuel Bonne, che commenta stupito: «Ma no, ma cosa dice…».
Il presidente russo è lì che ascolta e replica: «Ho anche sentito i tuoi commenti durante la conferenza stampa a Kiev l’8 febbraio scorso. Tu hai detto che bisogna rivedere gli accordi di Minsk, cito, “affinché siano applicabili”». I consiglieri di Macron intervengono di nuovo protestando: «No, non ha detto questo», per poi aggiungere: «Ora gli dico di non entrare in una discussione dettagliata con lui».
(da agenzie)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
L’ALTRA SERA, IN UN RISTORANTE DI SUSHI A PONTE MILVIO, L’HA LETTA AD ALTA VOCE. PER POI CONFESSARE: “SONO IO A SPINGERLO PERCHÉ LASCI”
Sono ore sofferte per Giuseppe Conte. Stare dentro o fuori il governo? È questa la domanda che assilla il leader del M5S. Un fatto è certo, il comunicato stampa per dire addio a Mario Draghi era già pronto. A scriverlo ci ha pensato il suo portavoce Rocco Casalino. Lo sanno bene i frequentatori abituali di Moku, un ristorante di sushi della Roma bene a Ponte Milvio.
Luci soffuse, palme illuminate da lampade colorate, poltrone di velluto blu e rosa, musica di sottofondo. È lì che Casalino, in tenuta sportiva, con i pantaloncini corti, tra un sashimi e un uramaki, ha letto la nota stampa salvata sul suo cellulare. Erano le 22.30 circa di venerdì scorso. Il portavoce dell’avvocato senza indugi ha chiesto e ottenuto l’attenzione di tutti, e ha spiegato le ragioni dell’addio: «Che stiamo a fare al governo?» si chiedeva Rocco a voce alta. «Ci fanno la guerra, c’è una campagna d’odio in atto verso di noi». incalzava. E poi ecco il comunicato. Occhi sul telefonino e voce impostata: «Ve lo leggo, ve lo leggo. L’ho preparato io», diceva ai suoi otto commensali.
«Stai zitto, abbassa la voce», suggerivano gli amici. Niente, Casalino non ha dato ascolto e, preso da un momento di euforia, ha declamato il contenuto della nota pronta per essere pubblicata. Poi, qualcosa, deve essere andato storto.La nota è rimasta solo sul suo telefonino. E, forse, su quello di Giuseppe Conte che non ha ancora deciso il da farsi. Ufficialmente ha detto «no» ad un eventuale appoggio esterno al governo ma, in cuor suo, non ha ancora abbandonato l’idea.
«Sono io a spingerlo perché lasci» confessa Rocco a tavola. Un comunicato lungo, dettagliato dove si spiegano le ragioni politiche e personali del grande freddo tra Conte e Draghi.
Tra le righe si legge tutto il malessere che, secondo Rocco, esiste tra i due. Una nota tenuta all’oscuro di tutti i parlamentari che, interpellati, non ne sanno nulla. Un fatto è certo: sono anche loro a spingere affinché Giuseppe Conte imbocchi la strada della rottura. Per adesso quel comunicato resta soltanto nelle orecchie indiscrete di chi, quella sera, seduto in quel locale, ha ascoltato il dettato di Rocco.
(da il Giornale)
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Luglio 1st, 2022 Riccardo Fucile
KIEV POTRÀ TRASFERIRE LE RISERVE DI TANK E SOLDATI CHE PER MESI HANNO PRESIDIATO LE SPIAGGE VERSO IL DONBASS PER POTENZIARE L’OFFENSIVA SU KHERSON O APRIRE UN ALTRO FRONTE NELLA ZONA DI ZAPORIZHZHIA
L’abbandono dell’Isola dei Serpenti può segnare una svolta nel conflitto: ieri la
flotta russa ha definitivamente perso il dominio della fascia di mare compresa tra la costa ucraina e quella romena.
La possibilità di uno sbarco in grande stile sul litorale di Odessa viene ridotta al minimo o scompare del tutto, con effetti che potrebbero condizionare presto i combattimenti sul terreno.
Si è dissolto infatti l’incubo delle navi speciali cariche di marines che periodicamente salpavano dalla Crimea per mostrarsi minacciose all’orizzonte.
Da domani il quartiere generale di Kiev potrà trasferire le riserve di tank e soldati che per mesi hanno presidiato le spiagge: truppe che saranno rapidamente in grado di potenziare l’offensiva in corso per liberare Kherson o di aprire un altro fronte nella zona di Zaporizhzhia.
A quel punto il comando di Mosca dovrà raccogliere altre brigate da gettare nella mischia oppure sguarnire quelle che stanno lentamente avanzando nel Donbass.
La vittoria è frutto degli errori russi, soprattutto nelle prime settimane del conflitto quando non è stato fatto nulla per fortificare l’isoletta rocciosa e priva di ripari naturali.
Nel 1944 i tedeschi trasformarono Cézembre, un’isola della Bretagna di identiche dimensioni, in una roccaforte che ha resistito ai più massicci bombardamenti in assoluto della storia. Invece la guarnigione sbarcata il 24 febbraio dall’incrociatore “Moskva” non si è preoccupata di costruire bunker o rifugi sotterranei. Poi il 14 aprile proprio l’affondamento del “Moskva” per la prima volta ha testimoniato la capacità ucraina di sfidare la flotta degli invasori.
Quel colpo aveva obbligato la Marina di Putin ad alzare la guardia, senza rinunciare però a pattugliare le acque davanti Odessa: Kiev poteva contare su un’unica batteria di missili antinave Sea Neptune di produzione nazionale. Ma non ha rinunciato a rendere difficile la vita degli occupanti, attaccando l’isola con droni e cacciabombardieri: raid a cui i russi avevano risposto colpo su colpo. Tutto inutile.
Nelle ultime settimane quantità e qualità delle armi consegnate dall’Occidente hanno spazzato via la guarnigione di Mosca. I missili antinave Harpoon, i razzi con guida di precisione Himars, i cannoni pesanti in calibro 155 millimetri, i nuovi radar da sorveglianza hanno allungato il raggio di azione ucraino e adesso mettono a rischio ogni sortita delle fregate di Mosca, costrette a restare fuori tiro e fermarsi davanti alla Crimea.
Questo non significa la riapertura del porto di Odessa e la partenza dei convogli del grano. I russi dispongono ancora dei sottomarini, dei missili Bastion a lunghissimo raggio dislocati in Crimea, degli stormi di Sukhoi e, inoltre, possono facilmente aggiungere le loro mine a quelle seminate tra le onde dagli ucraini. Soltanto un accordo con Mosca può rendere sicure le rotte dei cereali e sventare la crisi alimentare mondiale: il Cremlino lo sa e continua a portare avanti il suo ricatto.
(da “la Repubblica”)
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