Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
I “POVERI TASSISTI”, NON VOGLIONO LA CONCORRENZA DELLE APP.: LI COSTRINGEREBBE AD ABBASSARE I PREZZI E A GARANTIRE UN SERVIZIO DECENTE
Chi mette mano ai taxi, in questo Paese, rischia di restare folgorato. Manco fossero cavi dell’alta tensione. È una regola non scritta della politica.
Ora ci prova il governo Draghi, che ha infilato una delega nel ddl Concorrenza che ha scatenato l’ansia della categoria. Tanto che martedì e mercoledì, salvo colpi di scena dell’ultim’ ora, ci sarà uno sciopero di 48 ore dei conducenti delle auto bianche.
Ma anche stavolta i tassisti hanno trovato ascolto in Parlamento: da Fratelli d’Italia alla Lega, al Pd, a Leu, si moltiplicano gli emendamenti che vorrebbero chiuderla lì e rinviare la questione alla prossima Legislatura. Ne sono state presentati quaranta.
Quantomeno si cerca di mettere paletti stringenti alla delega del governo, perché la parola «liberalizzazione» dalle parti delle auto di piazza fa davvero paura.
Per il governo, è all’opera la viceministra alle Infrastrutture, Teresa Bellanova, renziana. Una che ha una coraggiosa storia di sindacalista alle spalle, a favore dei braccianti. E quindi molti pensavano che mai avrebbe favorito le multinazionali e le app.
Ma ora, dopo l’incontro avuto con le sigle sindacali dei tassisti di venerdì, Bellanova è guardata con sospetto. Dice Riccardo Cacchione, coordinatore del sindacato di estrema sinistra Usb: «Il Governo sembra voler andare avanti. Lo sciopero rappresenterà un segnale forte. Potrebbero seguirne altri. Il servizio pubblico per natura stessa non può essere messo in concorrenza».
Così non meraviglia se in odio al liberista Mario Draghi, si schiera a favore dei tassisti anche Giorgio Cremaschi, che viene dalla Cgil dura e pura. E se parla il sindacalista dell’Ugl, tanto, il tono non cambia.
Premesso che Draghi non accetterebbe di cancellare l’intera materia con un tratto di penna, dentro il governo si stanno studiando i diversi emendamenti dei partiti per capire un possibile punto di caduta.
Di sicuro la maggioranza è d’accordo che i tassisti non possono essere trasformati in altrettanti «rider», e che le app delle multinazionali non possono diventare le nuove divinità sul lavoro. Ma poi qualcosa deve comunque succedere e necessariamente scontenterà qualcuno.
C’è una legge del 2019 (governo Conte I) che aveva riscritto le regole, ad esempio, ma già è subentrata una sentenza della Corte costituzionale e la situazione è mutata: perciò gli arcinemici dei tassisti, i conducenti di Ncc, sono stati liberati dall’obbligo di tornare in rimessa quando una corsa è terminata, ma ciò significa che possono aspettare la corsa successiva in strada come un taxi qualsiasi?
E poi, specie a Roma dove ci sono migliaia di conducenti Ncc che lavorano con licenze concesse da Comuni fuori provincia o addirittura fuori Regione, che fine faranno se si applicherà rigidamente la norma del 2019 che restringe il servizio Ncc alla propria provincia?
La partita, però, va molto al di là dell’annoso braccio di ferro tra queste due categorie di autisti perché nel settore ha fatto irruzione la modernità. Ora, per dire, i taxi devono garantire il pagamento con il Pos e c’è chi ancora accampa scuse.
Manca il Registro informatico pubblico nazionale delle imprese titolari di licenza per il servizio taxi, come pure sarebbe previsto da tre anni; oppure il Foglio Elettronico di Servizio, che varrebbe invece per gli Ncc.
E sullo sfondo c’è il fantasma di Uber o piattaforme simili. Un emendamento del partito di Bellanova, Italia viva, a firma delle deputate Raffaella Paita e Sara Moretto, prevede che si distingua tra soluzioni web molto diverse tra loro: una cosa è l’interconnessione con gli utenti, e che prevede la responsabilità diretta nel trasporto da parte dei vettori; altra cosa è l’intermediazione, dove l’intermediario non è responsabile.
Si appoggiano a una sentenza della Corte di giustizia Ue del 2020 (sulle piattaforme di pura intermediazione) e una legge del 1992 (sulle piattaforme che svolgono attività di trasporto in modalità aggregata).
I tassisti temono in buona sostanza che dietro la spinta alla concorrenza, si nasconda una regolazione a favore delle piattaforme tecnologiche. E alla fine è davvero isolatissimo, chi, come +Europa, chiede «l’apertura del settore a servizi a forte contenuto tecnologico come le app, senza se e senza ma, allineando il Paese a quelli più avanzati».
(da la Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
“LA POSIZIONE DEL CENTRODESTRA SUI NUOVI ITALIANI E’ ANACRONISTICA, ALMENO ASCOLTINO LA CEI”
In un’intervista a La Repubblica, Renata Polverini, deputata di Forza Italia, ex
presidente della Regione Lazio, si smarca del centrodestra e dice sì allo Ius Scholae.
“La società è cambiata. Abbiamo tanti ragazzi di seconda generazione nati in Italia, o che si sentono profondamente italiani. Che non conoscono neppure il Paese dei loro genitori. Dare loro la cittadinanza italiana dovrebbe essere scontato, se fossimo un Paese che segue le dinamiche della società. Questi ragazzi frequentano le nostre scuole insieme ai nostri figli, conoscono non solo l’italiano, ma anche i dialetti”.
Poi lancia l’appello al centrosinistra: “Riconoscimento della cittadinanza ai minori figli di stranieri che abbiano completato un ciclo di istruzione di 8 anni, dalla prima elementare alla terza media. Se il centrosinistra accogliesse l’emendamento, Forza Italia voterebbe a favore. L’attuale testo prevede invece 5 anni di scuola, ovvero solo le elementari”.
E sulla posizione della Lega: “Francamente non credo che, anche con modifiche, ci sia spazio per negoziare con i leghisti”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
ORMAI FERMI AL MEDIOEVO RIMANGONO SOLO I SOVRANISTI
La Cei si schiera a favore dello Ius scholae.
La Conferenza episcopale italiana, da sempre uno dei messimi organi della Chiesa Cattolica, interviene così nel dibattito in corso sulla cittadinanza a chi completa un ciclo scolasticodi cinque anni in Italia, con l’apposita proposta di legge che sta per approdare alla Camera. Su questo ddl sono montate le polemiche del centrodestra, con Matteo Salvini e Giorgia Meloni sulle barricate e il primo che ha lanciato un avvertimento, quasi una velata minaccia alla maggioranza di governo, chiedendo di occuparsi di altre cose e dicendo di non poter “accettare altre forzature”.
Secondo monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni della Cei e presidente della Fondazione Migrantes, “la riforma della cittadinanza con lo Ius scholae va incontro alla realtà di un Paese che sta cambiando”.
Il sacerdote, intervistato dall’Ansa si augura che “le ragioni e la realtà prevalgano rispetto ai dibattiti ideologici per il bene non solo di chi aspetta questa legge ma anche dell’Italia che è uno dei Paesi più vecchi”.
Quindi, alle forze politiche che affermano non sia una priorità, replica: “Ne parliamo da almeno quindici anni, contrapporre il caro-bollette non ha senso”.
Le contrapposizioni politiche sono legate al fatto che la legge sullo Ius scholae per Perego “viene letta con parametri ideologici e non guardando invece alla realtà. Quella di un milione e quattrocentomila ragazzi, dei quali 900mila alunni delle nostre scuole e gli altri che hanno più di 18 anni, che aspettano di essere cittadini italiani”. Secondo il monsignore la realtà italiana è anche quella di “cinque milioni e mezzo di migranti che sono un mondo di famiglie, di studenti, di lavoratori: occorre leggere la situazione e utilizzare lo strumento della cittadinanza per rendere partecipi di questa trasformazione le persone che attendono ma anche gli italiani che sempre si sono dette favorevoli, nei sondaggi sono oltre il 70 per cento, a questo provvedimento”.
Secondo il rappresentante della Cei, poi, lo Ius scholae potrebbe favorire una maggiore mobilità in Europa e aiuterebbe anche una circolarità del mondo migratorio nel Vecchio Continente. “Ora spetta alla politica fare uno scatto e uscire dalla ideologia”, conclude monsignor Perego.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
“DIRITTI SENZA CONFLITTI”… I BECERI DELLA REGIONE LOMBARDIA AVEVANO NEGATO IL PATROCINIO
Sono migliaia già in partenza al raggruppamento nella zona della stazione
centrale ma a ogni incrocio l’onda arcobaleno del Pride milanese si arricchisce di nuovi manifestanti.
Partito dopo le tre del pomeriggio da viale della Liberazione, la parata, che è tornata dopo due anni di stop dovuti alla pandemia, attraversa il centro della città per arrivare all’evento finale con il parco all’Arco della Pace. Secondo gli organizzatori a partecipare alla manifestazione dall’inizio alla fino allo spettacolo finale sono 300 mila persone.
Davanti allo striscione della testa del corteo, che recita «Diritti senza conflitti», il motto scelto per questa edizione, ci sono i rappresentanti delle associazioni, gli organizzatori e anche la delegazione della Regione Lombardia.
Proprio questa partecipazione alla sfilata è stata al centro delle polemiche dopo che il presidente dell’Arcigay di Milano, Fabio Pellegatta, ha annunciato ieri la decisione di negare l’accesso al palco al rappresentante ufficiale regionale, il consigliere Dario Violi, visto anche il negato patrocinio alla manifestazione da parte della giunta Fontana.
«È molto importante essere qui – dice Violi alla partenza del corteo – Le istituzioni quando si parla di diritti devono essere unite, la politica si può dividere ma le istituzioni devono essere presenti», ribadendo che la Regione è mancata per molti anni ma oggi è stata presente come istituzione grazie alla mozione approvata in consiglio regionale.
Accanto a Violi anche i consiglieri regionali del M5s Nicola Di Marco e Simone Verni, primo firmatario della mozione che permetterà l’illuminazione del Pirellone con i colori arcobaleno, e la consigliera del Pd, Paola Bocci.
Presente anche l’europarlamentare del Pd Piefrancesco Majorino che approva la decisione dell’Arcigay di lasciare giù dal palco il rappresentante regionale: «La Regione ha fatto un gioco ambiguo come sempre: da una parte il consiglio regionale che approva la partecipazione alla parata con la mozione a voto segreto, dall’altro la giunta Fontana che nega il patrocinio e gli esponenti della Lega che dicono che per un fatto di decoro delle istituzioni non bisogna essere qui. Non sento nessuna mancanza di Fontana, anzi mi fa piacere che non ci sia».
Per il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, la Regione ha però sbagliato a negare il patrocinio al Pride, e si rivolge direttamente al governatore: «Da Fontana ci dividono tante cose, su altre troviamo la formula per lavorare insieme, ma non deve essere un modo di dire. Il sindaco è il sindaco di tutti e probabilmente anche il governatore deve esserlo di tutti».
Al di là delle polemiche politiche comunque è una piazza festosa, piena di giovani. Nicola e Fabio sono una coppia di sedicenni: «È il nostro primo Pride insieme – raccontano avvolti nelle bandiere arcobaleno – oggi è molto importante per noi essere qui, ci siamo fatti forza a vicenda per stare a testa alta contro ogni discriminazione».
Ci sono anche tanti cittadini lombardi che hanno raggiunto Milano per appoggiare le battaglie della comunità Lgbtqi+. Come Aysha, 25enne della provincia di Bergamo, che partecipa alla parata insieme alla mamma Monica e alla zia: «Tutti dovrebbero essere qui per sostenere queste battaglie civili, soprattutto in un paese come l’Italia, che è molto indietro su questi temi».
Tanti i cartelli che appaiono durante la sfilata ma le parole che appaiono di più sono amore e libertà. Alla manifestazione anche il deputato del Pd Emanuele Fiano che precisa: «In Italia bisogna approvare una legge che si chiama Ddl Zan che protegga i membri dell comunità Lgbt dalla violenza omofobia e omotrabsfobica». I Sentinelli di Milano dal loro carro hanno diffuso le risate e gli applausi che si sono sentiti in Senato quando è stato bocciato proprio il Ddl Zan.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
SE RIMANESSE IL ROSATELLUM, AL NORD LA LEGA PERDEREBBE UNA CATERVA DI POLTRONE … I NUOVI RAPPORTI ALL’INTERNO DELLA COALIZIONE, UNITI AL TAGLIO DEI PARLAMENTARI, RISCHIANO DI TRASFORMARSI IN UN SALASSO PER SALVINI, A VANTAGGIO DELLA MELONI E DELLE FRONDE CENTRISTE
Il nodo nel centrodestra non è la leadership o la linea politica. È un problema di collegi.
La questione è dirimente, perché misurerà nella prossima legislatura i rapporti di forza in seno all’alleanza. Rapporti che già potrebbero delinearsi al termine della trattativa sui candidati comuni da presentare nei 221 collegi uninominali di Camera e Senato.
Sempre che il sistema di voto non cambi. Se rimanesse il Rosatellum, i nuovi equilibri in seno al centrodestra finirebbero per cambiare il profilo della coalizione soprattutto al Nord, dove la Lega (oltre a Forza Italia) rischierebbe una grave emorragia di candidature a vantaggio di FdI.
Con un impatto politico di prima grandezza sul Carroccio, che nel Nord ha la sua tradizionale roccaforte. Non a caso un autorevole dirigente leghista – in vista di quel passaggio – ammette che «la trattativa sarà complessa». E ogni singolo partito ne sta già riservatamente discutendo al proprio interno.
I leader dovranno intanto accordarsi sul metodo da usare per la ripartizione dei collegi. Nel 2018 scelsero di adottare una media ponderata, basata su tre diversi sondaggi e sullo storico delle elezioni precedenti.
Se quello schema venisse riapplicato, ciascuno dei tre maggiori partiti otterrebbe grosso modo quasi un terzo delle candidature uninominali, con il resto da assegnare alle forze centriste.
La Meloni non ne è tanto convinta. E non è la sola, visto che nella coalizione si lavora su meccanismi diversi.
Uno di questi – di fonte centrista e basato sul fixing attuale – assegnerebbe a FdI 106 candidati nelle due Camere, 52 alla Lega, 38 a Forza Italia e 15 ai partiti minori. È un calcolo di parte e parziale, che delinea però un dato tendenziale.
Ma anche se il metodo dovesse rimanere quello del 2018, il problema non cambierebbe. E il punto sensibile resterebbe sempre il Nord.
Oggi alle cinque regioni settentrionali (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Liguria) spettano 76 collegi uninominali tra Camera e Senato. Al Nord, alle scorse consultazioni, il rapporto di candidati tra Lega e Forza Italia da una parte, e Fratelli d’Italia dall’altra, fu di tre a uno. Così nel Piemonte, per esempio, vennero eletti dieci parlamentari azzurri, otto leghisti e tre di FdI.
Adesso il quadro è destinato a cambiare radicalmente: come minimo il rapporto tra i maggiori alleati sarebbe di uno a uno.
Se a questo si aggiunge il taglio dei parlamentari, previsto dalla riforma costituzionale, per il Carroccio (oltre che per FI) sarebbe un salasso di almeno venti scranni. A vantaggio della Meloni. Un’ipotesi che viene esaminata prevede di compensare FdI con un maggior numero di collegi al Sud. Ma servirebbe solo a ridurre il danno.
Non sono numeri. È carne viva che incide sul tessuto politico territoriale. Perché la fine delle aspirazioni di quanti ambiscono a candidarsi, produrrebbe demotivazione nella classe dirigente in campagna elettorale. Perciò la questione dei collegi è fondamentale nella partita del centrodestra, siccome influisce sulla sfida della leadership.
Ancor di più rischia di innescare un conflitto nelle realtà locali tra forze formalmente alleate, con conseguenze sul risultato nazionale. Si è già visto alle Amministrative.
L’assenza di una tregua – se non di un accordo – tra i leader, fa dire a Lupi che «sembriamo ormai la brutta copia del centrosinistra». Porta addirittura il segretario dell’Udc Cesa ad interrogarsi: «Ma Salvini e Meloni vogliono vincere?».
La domanda al momento è se vogliano vedersi, perché tra i dirigenti di Fratelli d’Italia c’è chi ritiene che «passerà l’estate». In ogni caso era impossibile che si tenesse un vertice nei giorni scorsi. Il capo del Carroccio – prima di sedersi al tavolo dell’alleanza – deve sedare le forti tensioni nel suo partito, compattarlo con un ufficio politico in cui tutti si sentano finalmente rappresentati e da lì provare a ripartire. Accadrà lunedì. Quanto al destino della coalizione si vedrà. Perché mentre nel centrodestra tutti stanno facendo i conti sui collegi, c’è chi nella Lega sta facendo altri calcoli. Su una nuova legge elettorale.
(da il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
MA BEPPE VUOLE CONTINUARE A SOSTENERE DRAGHI
Dal magma grillino di questi giorni turbinosi, viene a galla un blocco
eterogeneo, ma sempre più pesante, che preme sul leader per lo strappo. I colonnelli di Conte sono quasi tutti per ritirare i ministri. Incalzano il presidente, per ora solo nelle riunioni riservate.
Con toni così: «Continuamo a prendere sberle. Le nostre proposte non passano mai. Che senso ha restare?». Tre dei 5 vice-presidenti del Movimento sono schierati per l’uscita.
Suggeriscono all’ex premier di rompere gli indugi.
Riccardo Ricciardi è il più barricadero. Michele Gubitosa, che aveva definito l’inceneritore di Roma «la linea rossa» dei 5 Stelle per restare nell’esecutivo, è furibondo dopo la bocciatura dell’emendamento grillino in Commissione Finanze che avrebbe impedito la realizzazione dell’impianto.
Paola Taverna, che si espone di meno rispetto agli altri — ha pur sempre il ruolo di vice-presidente del Senato — nei vertici in video-call non fa sconti a Draghi.
Della cinquina, solo Alessandra Todde, sottosegretaria allo Sviluppo, rimane convintamente governista. «Ma mi rimetto alla volontà del presidente». Resta più defilato, attendista, Mario Turco. Sa che «il pressing di deputati e senatori per uscire è forte», ma «aspettiamo le risposte dall’esecutivo sui nostri temi».
Fra le truppe residue di senatori e deputati, i malpancisti non si contano più. Con percentuali variabili, a seconda delle fonti, i parlamentari tendenza-strappo sono dati tra il 70 e l’80% del totale. Quasi tutti i governisti puri sono passati con Luigi Di Maio. Tra chi è rimasto, tanti non si fanno scrupoli ad attaccare Draghi.
Bramano la rottura definitiva. Dal vice-capogruppo al Senato, Gianluca Ferrara, che da giorni pungola i vertici, «Conte ci porti fuori», ad Alberto Airola, che lo ha scritto ieri in un tweet e lo ha ribadito ospite di Metropolis: «Usciamo da questo governo come ci chiede il nostro popolo. Le fragole sono marce».
Altro iper-critico con Draghi è il deputato Luigi Gallo, che l’altro ieri bollava le mosse del premier come «operazioni di palazzo a tutela dell’élite». I toni sono questi.
Tra i big in sofferenza, c’è l’ex ministro Riccardo Fraccaro, il papà del Superbonus che viaggia veloce verso lo stop, nonostante la riformulazione del governo. Alfonso Bonafede in privato non lesina critiche al ministro Cingolani.
L’ex vice-ministro Stefano Buffagni all’indomani della scissione scuoteva la testa: «Restare nel governo? Vediamo, ci dobbiamo riflettere. Secondo me sarà uno dei temi…». La smania di strappare cova da settimane.
Addirittura c’è chi ha proposto di votare no già il 21 giugno, dopo il fiasco delle trattative per la risoluzione sull’Ucraina, in cui i grillini non hanno ottenuto quasi nulla.
«Avremmo votato no o astensione — racconta un big — Ci siamo fermati solo perché Di Maio ha annunciato nelle stesse ore la scissione e non volevamo nobilitare la sua scelta, dettata solo dalla voglia di tenere la poltrona».
Col passare dei giorni la pattuglia dei governisti si fa sempre più isolata e striminzita: la ministra Fabiana Dadone, il collega Federico D’Incà, il capogruppo Davide Crippa. Perfino il capo-delegazione Stefano Patuanelli, racconta chi ci ha parlato, ormai fa parte dei fatalisti. Succeda quel che deve.
(da il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
LO SPETTACOLO IMBARAZZANTE DI DRAGHI IN FUGA DAL G7 PER LENIRE UNA CRISI DI VANITÀ DI CONTE DIMOSTRA AL MONDO LA DEBOLEZZA STRUTTURALE DEL PAESE
La questione che sta mobilitando la politica italiana negli ultimi giorni è in essenza questa: in una conversazione (vera o falsa, non importa) il garante/fondatore del M5s Beppe Grillo e il premier Mario Draghi hanno concordato sul fatto che l’ex premier Giuseppe Conte è un incapace.
Conte non vuole essere considerato tale e quindi ne ha chiesto ragioni. Ciò non al suo “capo”, Grillo, ma al premier, minacciando in caso di mancato ascolto una crisi di governo nel mezzo di una guerra!
Qui ci sono vari ordini di problemi. Dov’è il problema se Grillo e Draghi ritengono Conte un incapace? La politica sempre è fatta di tanti che si ritengono a vicenda, a torto o a ragione, incapaci.
Se Conte si offende per questo e pretende una dichiarazione bollata che dica “non ti ritengo un incapace”, allora tanto più si dimostra tale. Non se ne rende conto? Pare una versione moderna di una novella pirandelliana sulla patente di iettatore.
Qui il soggetto in questione si appunta alla giacca la nuova patente di “non essere cretino”. Ma è chiaro che tale patente certifica invece la sua debolezza.
Il teatro che ha circondato la vicenda lo sottolinea. Conte ora si ritiene soddisfatto perché venerdì ha parlato al telefono con Draghi e lunedì lo incontrerà. Non è chiaro quale fosse il tema urgentissimo da richiamarlo da G7. Né è chiaro cosa dovrebbe importare agli italiani di questo tema urgentissimo.
Appare solo la vanità offesa di Conte. Così, però, il professor Conte appare ridicolo e la sua credibilità a pezzi.
Il professor Conte, per il suo bene, dovrebbe cambiare atteggiamento e dimostrare coi fatti di non essere quello che altri pensano. Se non ci riesce che almeno non si agiti perché fa peggio per sé e avvantaggia solo i suoi nemici.
È possibile che anche i suoi M5s si rendano conto della stupidaggine della situazione ma qui c’è un problema più concreto. Ci sono centinaia di deputati e senatori che prima dell’elezione non avevano né arte né parte. Essi considerano lo scanno alla Camera come il posto fisso di Checco Zalone. Non è possibile Checco-Zalonare le Camere, ma comunque vogliono prolungare il più possibile prebende e privilegi.
Non sanno che fare e si accodano a Conte non per fare cadere il governo, cosa che li manderebbe tutti a casa, ma per strappare un briciolo di attenzione in più. Pensano così di raccogliere qualche voto disperato che li riporti in Parlamento alle prossime elezioni.
È improbabile che questo ottenga il risultato auspicato, anzi. Il crollo dei M5s alle recenti amministrative, la fuga degli elettori dalle urne dicono che su questo crinale Conte e i suoi sono animali in via di estinzione politica. Forse sarà anche un bene per il paese. Vuol dire che gli M5s non servono più all’Italia. Il popolo è sovrano e come promuove così boccia.
Il dramma è per la nazione in un momento delicato e importante dal punto di vista internazionale. Lo spettacolo imbarazzante di Draghi in fuga dal G7 per lenire una crisi di vanità isterica dimostra al mondo la debolezza strutturale del Paese. La cosa che non fa bene a nessuno tranne che agli sfascisti di turno. Essi non si rendono conto che i primi a soccombere sotto le macerie saranno loro.
(da Formiche.net)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI CLAUDIA SUI SOCIAL: “AD AVERE LA PEGGIO SIAMO NOI RAGAZZI, VITTIME DELLO SFRUTTAMENTO E DELLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE”
“Oggi vi racconto la mia ‘esperienza lavorativa’, durata 11 giorni”. 
Inizia così il post scritto su Facebook da Claudia Coppolecchia, una ragazza di 22 anni pagata 2 euro all’ora nello studio del commercialista.
L’ennesimo caso di sfruttamento denunciato da un giovane. Claudia Coppolecchia è una studentessa universitaria di Bari.
In un post racconta della sua prova lavorativa in uno studio di un commercialista. “È di attualità il tema sulla disoccupazione giovanile, spesso legata allo sfruttamento – scrive -. Ho vissuto, sulla mia pelle, l’ennesima conferma, come si sente in tv, che questo fenomeno non dipende dalla mancata voglia di lavorare da parte di noi giovani, ma dalla voglia di sfruttamento da parte dei datori di lavoro”. La ragazza spiega di avere lavorato 11 giorni, quattro ore al giorno, per un totale di 44 ore. “Ero carica ed entusiasta, pronta a mettere qualche soldo da parte per togliermi qualche sfizio in più, mentre concludevo comunque i miei studi di lingue all’università di Bari. Questo nonostante la distanza di 35 km da casa, da Molfetta a Bari Poggiofranco. Mi parlano di circa 1000 euro al mese ma di dover fare una settimana di prova. Mi prolungano questa settimana a due settimane, accetto, proprio perché il lavoro iniziava ad interessarmi”. E poi, al termine delle settimane di prova, la segretaria le riferisce che le avrebbero fatto sapere tra 15 giorni consegnandole una busta, contenente 100 euro. Dunque, la prova era stata retribuita 2,27 euro l’ora. “Non mi sorprendo delle cifre vergognose che permettono a qualcosa che ha tutte le sembianze dell’abuso di essere chiamato lavoro, sebbene non sia regolato da alcuna tutela – denuncia la giovane -. Mi sorprendo che in Italia i diritti dei lavoratori siano scarsamente tutelati e che questa non sia una stravagante novità. E, come sempre, ad averci la peggio siamo noi ragazzi, vittime dello sfruttamento e della disoccupazione giovanile che in Italia pare irrimediabile. La domanda è: da che parte è lo Stato in tutto questo?”.
(da NextQuotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Luglio 2nd, 2022 Riccardo Fucile
LE AMMINISTRATIVE FANNO PERDERE UN PUNTO ALLA MELONI, IL PD TORNA PRIMO PARTITO, M5S 12,1%. DI MAIO 2,3%. FORZA ITALIA SFIORA IL 10%, CALENDA E PARAGONE IL 4%, SALE IL GRADIMENTO PER DRAGHI… IL CAMPO L.ARGO DI LETTA DAVANTI AL CENTRODESTRA
A conclusione della tornata di amministrative con il turno di ballottaggio di domenica scorsa è tempo di bilanci: al di là della consueta contabilità (numero di vittorie e di amministrazioni strappate agli avversari), chi ha vinto e chi ha perso secondo gli italiani? E che impatto ha avuto il voto locale sullo scenario politico nazionale?
Il sondaggio odierno evidenzia una discreta distanza degli italiani dalle vicende politiche recenti, solo in parte spiegabile con il limitato numero di elettori interessati al voto locale (poco più di 9 milioni di cittadini). Infatti, uno su tre (35%) dichiara di non aver seguito i risultati delle amministrative e, in aggiunta, l’8% pur avendole seguite, non è in grado di esprimere un parere; tra coloro che si sono fatti un’opinione, il 20% ritiene che abbia vinto l’astensione, che oggettivamente ha toccato un livello davvero elevato, il 19% attribuisce il miglior risultato al centrosinistra, mentre solo il 4% pensa che abbia vinto il centrodestra e il 14% è del parere che i risultati siano stati eterogenei, con vittorie e sconfitte da parte di tutti.
Da notare che tra gli elettori del Pd, del M5S e tra quelli delle altre liste del centrosinistra prevale (sia pure con percentuali diverse) l’opinione che sia stato il centrosinistra ad avere avuto la meglio, mentre tra gli elettori del centrodestra la maggioranza relativa ritiene che non abbia vinto nessuno, se non l’astensione: dunque i primi escono decisamente più galvanizzati da voto rispetto ai secondi.
Riguardo al significato dell’esito elettorale gli italiani si dividono, infatti il 33% è convinto che si sia trattato di elezioni a carattere solo locale e non sia possibile ricavarne tendenze di voto nazionali, mentre il 32% è di parere opposto, ritenendo che il voto abbia delineato tendenze di cui i partiti dovrebbero tener conto in vista delle politiche della prossima primavera e il 35% non si esprime.
Quanto all’elevata astensione che ha caratterizzato sia i due turni delle amministrative sia la recente consultazione referendaria, la maggioranza assoluta (53%) esprime preoccupazione e pensa sia causata soprattutto dalla delusione e dalla sfiducia nei confronti della politica, più che dallo scarso appeal dei candidati locali o dei quesiti referendari (15%).
Al di là delle amministrative e dei referendum, il mese di giugno è stato piuttosto vivace, sia per le vicende interne ad alcune forze politiche (in primis l’uscita di Di Maio dal M5S di cui è stato a lungo capo politico), sia per le tensioni nel centrodestra, sia infine per il complesso rapporto tra il M5S e il governo.
E, come era lecito attendersi, tutto ciò ha avuto ripercussioni sulle opinioni e sulle preferenze elettorali degli italiani.
I consensi
Iniziamo dagli orientamenti di voto. I cambiamenti di maggior rilievo riguardano il M5S che si attesta al 12,1%, in calo di 1,6% a seguito dell’uscita di Di Maio la cui neonata formazione è accreditata del 2,3%.
Sommando i due dati si ottiene un valore superiore alla stima del M5s di fine maggio, a conferma che Insieme per il futuro ottiene consenso anche al di fuori del partito di provenienza del ministro degli Esteri.
L’altra variazione da segnalare si osserva nel centrodestra, con la flessione di FdI (stimata al 20%) che scende di un punto e si fa sorpassare nella graduatoria dal Pd (20,8%, in calo di 0,2%); in compenso Forza Italia aumenta di 1,5% sfiorando la soglia del 10% e la Lega è sostanzialmente stabile al 15%.
Si può avanzare l’ipotesi che il partito di Giorgia Meloni abbia subito maggiormente le conseguenze di alcune sconfitte locali e quello di Berlusconi si sia rafforzato grazie all’affermazione di alcuni sindaci dal profilo moderato.
Tra le altre forze politiche si segnala l’aumento della federazione Azione + Europa, oggi al 3,8% (+0,5%) e la flessione di Italexit, stimata al 4% (-0,5%). Da notare, ancora una volta, l’aumento della quota di astenuti e indecisi che raggiunge il 42,5%, il livello più elevato negli ultimi 2 anni.
Sulla base di queste stime, il cosiddetto campo largo, a cui sta lavorando di Pd di Enrico Letta, che comprende tutte le forze politiche compreso Insieme per il futuro (nonostante le dichiarazioni di incompatibilità espresse, tra gli altri, da Calenda) è accreditato del 46,4% (+0,2%) e prevale sulle tre principali forze del centrodestra (44,8%, in crescita di 0,4%, grazie alla performance di Forza Italia).
Queste ultime continuano ad avere un vantaggio sul centrosinistra (32%, in flessione di 0,5%) nonché sull’alleanza giallo-rossa (35,9% in calo di oltre 2 punti), tra cui non abbiamo annoverato il movimento di Di Maio.
La popolarità
Anche la popolarità dei leader mostra qualche variazione, a partire dalla flessione di un punto sia di Meloni (indice di gradimento pari a 35) sia di Conte (31), che viene raggiunto da Speranza al secondo posto. Viceversa, risultano in crescita di due punti Letta (28) e Calenda (24), affiancato dal nuovo entrato in graduatoria Di Maio.
Infine, il governo non sembra risentire delle complesse vicende politiche delle ultime settimane e vede confermato l’indice di gradimento del mese di maggio (55), mentre quello del presidente Draghi fa registrare l’aumento di un punto attestandosi a 59.
Siamo solo ai prodromi di una campagna elettorale che si preannuncia lunga e combattuta, a dispetto di un esecutivo di unità nazionale che, nonostante tutto, non paga pegno per le inquietudini di alcune sue componenti.
Nando Pagnoncelli
per il “Corriere della Sera”
argomento: Politica | Commenta »