Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
DOPO AVER INVITATO A VOTARE PER I SOVRANISTI, HA LICENZIATO ANCHE IL SACERDOTE CHE AVEVA AVUTO IL CORAGGIO DI RICORDARGLI CHE LA CHIESA NON DA’ INDICAZIONI DI VOTO
Ha scelto il giorno della nomina del suo successore monsignor Domenico
Pompili, per raccontare la sua verità su quanto accaduto durante la campagna elettorale che ha visto il centrosinistra alla fine riconquistare Verona.
E rispondere alle polemiche sulla sua lettera ostile alle idee gender contro la quale si era schierato don Marco Campedelli, l’insegnante di religione del liceo Maffei di Verona ora in odor di licenziamento. Giuseppe Zenti punta l’indice contro l’informazione, «che ha trascinato la questione in polemica», domandandosi «perché la sua lettera sia stata diffusa» nei giorni caldi precedenti le urne «e poi trasformata in un argomento di discussione». Una missiva in cui Zenti invitava di fatto i sacerdoti a segnalare «eventuali carenze di valori civili con radice cristiana» con particolare riferimento «all’ideologia del gender, al tema dell’aborto, dell’eutanasia» nei candidati in lizza per il voto. Un assist giudicato sin troppo esplicito nei confronti del candidato di centrodestra Federico Sboarina.
Zenti resta fermo sulla sua idea, facendo peraltro comprendere che la smentita sul licenziamento di don Marco diffusa dalla Diocesi dopo lo scoppio delle polemiche è stata, in effetti, una mezza verità.
«Chi insegna religione deve essere in comunione con il suo vescovo, punto – scandisce, alludendo a don Marco – .Se non lo è non può insegnare. Molte polemiche sono fuori luogo e sono state del tutto falsificate, io non sono entrato nella questione elettorale, io ho parlato con i miei preti, i miei familiari».
Zenti aggiunge: «don Marco Campedelli è un mio prete, per lui prego molto perché vorrei che fosse un bravo prete. Ogni insegnante di religione, come è noto, ha un incarico annuale – chiarisce ancora -. Chi non è in comunione con il vescovo non può essere insegnante per l’anno successivo. In questo momento non è in comunione con me».
Nessun passo indietro, dunque, nonostante le numerose manifestazioni di stima che i cittadini di Verona hanno rivolto all’insegnante, arrivando a riempire ieri sera in 500 una piazza del centro storico.
Il destino lavorativo di Don Marco sarà dunque ora nelle mani, verosimilmente da settembre, di monsignor Pompili, che lascia la guida della Diocesi di Rieti per approdare in riva all’Adige.
Non entra nella polemica, il neo sindaco della città Damiano Tommasi. «Come ho detto all’inizio della vicenda, che era nata durante la campagna elettorale, il vescovo e la Chiesa hanno le loro regole – chiarisce – le loro gerarchie e le loro responsabilità». Al primo cittadino resta il compito, conclude, «di guidare Verona e far convivere tutte le realtà che vi sono presenti»
(da agenzie)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
ARRESTATO ANCHE ANATOLY MASLOV DALL’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE DI STANZA AL CREMLINO
Era stato arrestato nonostante fosse gravemente malato, tanto grave da convincere gli stessi Servizi di Putin a consentirne il trasferimento in ospedale, considerato che era stato prelevato da un letto di ospedale.
A dare notizia della morte dello scienziato, la figlia, sui social, e la stessa TASS. Conferma anche dal sito “Taiga.info“.
Lo scorso 30 giugno, un tribunale aveva ordinato l’arresto dello scienziato con l’accusa di tradimento. Era stato prelevato direttamente dall’ospedale e portato al centro di detenzione di Lefortovo a Mosca.
Poi mandato all’ospedale di Novosibirsk, presumibilmente per evitare che lo scienziato morisse in una cella e che la notizia facesse il giro del mondo.
“Mio padre era al quarto stadio del cancro al pancreas… Anziché gli arresti domiciliari, essere portato in una cella, senza cure mediche adeguate è stata la cosa peggiore che potesse accadere… “, ha scritto la figlia dello scienziato Alina Mironova sui social network.
Dmitry Kolker era il capo del Laboratorio di Tecnologie Ottiche Quantistiche presso l’Istituto di Fisica Laser del Ramo Siberiano dell’Accademia Russa delle Scienze e dell’Università Statale di Novosibirsk, nonché professore presso il Dipartimento di Sistemi Laser dell’Università Tecnica Statale di Novosibirsk.
La notizia della morte di Kolker segue solo di ore quella dell’arresto di un altro insigne scienziato, sempre per tradimento, accusa che nel regime neo sovietico di Putin ricalca quella usata come arma letale contro gli oppositori dai regimi sovietici ai quali Putin si ispira.
Anatoly Maslov, scienziato 75enne era stato arrestato poche ore prima, sempre a Novosibirsk, accusato di aver passato notizie ai cinesi.
(da agenzie)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
IL GIOCATORE DI HOCKEY IVAN FEDOTOV È STATO FERMATO A SAN PIETROBURGO DOPO UNA CACCIA ALL’UOMO. IL MOTIVO? AVEVA FIRMATO UN CONTRATTO CON LA SQUADRA AMERICANA DEI “PHILADELPHIA FLYERS”
Non ci sono status che tengano. Nemmeno essere uno sportivo di successo
basta per essere al sicuro. Se vivi in Russia la longa manus del regime ti può raggiungere comunque, al primo passo falso, reale, presunto o pretestuoso che sia. E così la stella dell’hockey su ghiaccio Ivan Fedotov rischia grosso, addirittura di finire a combattere in Ucraina. La sua colpa? L’aver firmato un contratto con i Philadelphia Flyers della National Hockey League americana gli è costata l’accusa di diserzione per essersi sottratto al servizio militare perché tesserato per la squadra dell’esercito.
Fedotov non è un Carneade dello sport, tutt’ altro. Il 25enne è il portiere del Cska Mosca campione di Russia, e della nazionale. Le sue prestazioni hanno attirato l’interesse della ricca e prestigiosa lega americana con tanto di contratto firmato mesi fa. Ma il matrimonio non s’ ha da fare perché per il Cremlino Ivan è formalmente un militare. Il Cska è di fatto la squadra dell’esercito russo e ogni suo tesserato deve rispettare obblighi particolari. E quindi niente espatrio.
Anzi, la polizia, su ordine dell’ufficio militare, ha dato il via a una vera e propria caccia all’uomo e il giocatore è stato arrestato a San Pietroburgo. Dopo diverse ore passate all’ufficio di registrazione e arruolamento militare, è stato ricoverato in ospedale probabilmente a causa di un malore.
Al di là delle minacce e delle sicure pressioni subite, quasi certamente Fedotov riuscirà ad evitare la partenza per il fronte ma il suo sogno di giocare negli Stati Uniti si è interrotto ancora prima di cominciare. Per risolvere il contratto che lo lega al Cska infatti servirebbe una dispensa speciale che, naturalmente, non gli è stata e non gli sarà concessa.
A due giorni dall’inizio del processo nei confronti di Brittney Griner, stella basket Usa arrestata in Russia con l’accusa di spaccio di stupefacenti perché trovata in possesso di uno spray alla cannabis (e in detenzione preventiva da febbraio), un altro episodio che alimenta la crisi diplomatica tra Stati Uniti e Russia. Come se la tensione non fosse già a livelli massimi.
Se per la Griner si sono mosse le alte sfere della diplomazia e si ipotizza un possibile scambio di prigionieri con un trafficante d’armi russo, per Fedotov si sta muovendo la National Hockey League, soprattutto per tutelare gli altri atleti russi che giocano in America. La Lega Hockey ha raccomandato a tutti di non far ritorno in patria per evitare rischi. E non si tratta solo di ragioni economiche, con contratti da decine di milioni di dollari che ballano. Quanto accaduto a Fedotov dimostra che nella Russia di Putin nessuno, nemmeno un campione, può davvero sentirsi al sicuro.
(da il Giornale)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
NON SOLO, IL CREMLINO HA PRESENTATO UNA PROPOSTA DI LEGGE PER MOBILITARE L’INDUSTRIA ALLA RIPARAZIONE E AL RECUPERO DELLE ARMI: PUTIN È A CORTO DI MUNIZIONI, MA ANCHE DI SOLDATI. PER QUESTO HA INNALZATO A 65 ANNI IL LIMITE D’ETÀ PER L’ESERCITO
La Russia afferma di aver recuperato una grande nave da sbarco che sarebbe stata affondata dal suo equipaggio “per prevenire la detonazione delle munizioni di bordo a causa dell’incendio scoppiato” dopo che un missile ucraino l’aveva colpita nel porto di Berdyansk il 24 marzo: è la prima volta che Mosca ammette l’affondamento della Saratov. Lo riporta la Bbc.
Un post di Telegram di un funzionario nominato dalla Russia nell’Ucraina meridionale, Vladimir Rogov, dichiara che missili balistici Tochka-U avevano preso di mira il porto controllato dai russi. La nave sarà rimorchiata a Kerch, in Crimea.
Giovedì, per la prima volta, la Russia ha poi ammesso – almeno indirettamente – di essere a corto di armi e munizioni. Il Cremlino ha presentato infatti alla Duma una proposta di legge federale che prevede «misure economiche speciali» destinate al «controterrorismo e ad altre operazioni» fuori dai confini russi.
Fra queste, c’è un riferimento alla necessità di riparare più rapidamente armi ed attrezzature militari utilizzate «nell’operazione militare speciale in corso nelle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e in Ucraina», di attivare le «risorse materiali» nelle riserve statali e di attuare una mobilitazione industriale «temporanea» che preveda un lavoro straordinario nelle «organizzazioni individuali».
In pratica, la legge prevede che – anche a causa delle «misure restrittive contro cittadini ed entità legali russi» – interi settori industriali siano riconvertiti allo sforzo bellico per aumentare la capacità produttiva del comparto militare e per riorganizzare la logistica dei rifornimenti. Se approvata, darebbe inoltre al Cremlino l’autorità di «stabilire regolamenti speciali in materia di rapporti di lavoro per alcune organizzazioni, e per stabilimenti di produzione selezionati».
Kiev ha problemi analoghi a quelli del nemico, e conta sulla Nato per risolverli. Gli Usa hanno varato l’ennesimo pacchetto che prevede altri razzi guidati per gli Himars, 170 mila proiettili per i cannoni da 155 mm, nuovi radar per scoprire le batterie degli invasori. Dettagli che confermano come la sfida delle artiglierie resti centrale, una fase sottolineata anche da messaggi mediatici.
La stampa americana ha dedicato infatti diversi articoli proprio all’efficacia degli Himars: permettono di raggiungere i target in profondità con accuratezza, molti i depositi russi distrutti, i soldati possono sparare e allontanarsi rapidamente senza correre il rischio di essere colpiti a loro volta. Ne hanno appena una decina, ne hanno chiesto 300, ne basterebbero – secondo un esperto – una sessantina.
Militari ucraini, che hanno in dotazione i semoventi trainati statunitensi M777, hanno raccontato come abbiano 5-10 minuti di tempo per tirare cinque colpi e poi allontanarsi prima che scatti la risposta. L’avversario si affida spesso agli «anziani» Giatsint, bocche da fuoco da 152 mm, che sulle lunghe distanze perdono di precisione. E allora compensano usando «frammenti» incendiari, coprendo così un’area più estesa.
La quantità – recita il detto – diventa qualità. Sempre i serventi si lamentano delle condizioni degli M777 ricevuti: non sono proprio nuovissimi, richiedono molta manutenzione, non sempre è possibile eseguirla a dovere per mancanza di istruzioni. Mosca martella con i missili d’ogni tipo. Infatti ha impiegato sistemi antinave su target terrestri, centinaia gli ordini sparati nell’arco di pochi giorni in particolare su caserme, siti civili e presunti magazzini di armi.
Gli ucraini affermano di aver disperso il materiale più prezioso – Himars, M777, Caesar francesi, proiettili – in quanto è il bersaglio primario per la Russia. I convogli ferroviari con a bordo i mezzi inviati dall’Occidente contengono alcuni vagoni vuoti, stessa cosa per i camion, non escluso che vi siano dei «cortei» di veicoli «civetta» per trarre in inganno la ricognizione.
Le piccole fessure nella censura possono sembrare pericolose ma forse sono una rassicurazione indiretta verso gli Stati Uniti, dove qualcuno ha suggerito di mandare degli ispettori in terra ucraina per vedere la gestione del massiccio supporto.
I russi hanno invece esibito, di nuovo, uno dei loro treni blindati, lo Yenisei: corazzatura sommaria, a bordo mitragliatrici e blindati, se ne servono per pattugliare, mantenere la sicurezza sulla rete fondamentale per la logistica, trasferire equipaggiamenti. A volte muove in tandem con un elicottero d’attacco mandato in avanscoperta, un esploratore volante pronto a segnalare trappole. Difficile dire quanto siano efficaci questi mezzi, però rientrano nella tradizione dell’Armata e li hanno conservati nel tempo.
(da il Corriere della Sera)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
IL RUOLO DI MATTARELLA, LA “QUOTA 100” DI DI MAIO, IL DRAGHI BIS E LA PARTITA DELLE NOMINE
Due immagini ci resteranno impresse, in questa settimana dei giganti della
Terra che l’Italia ha vissuto di nuovo da Strapaese minore, piccolo e reietto.
Una è nota, ed è assolutamente iconica: Mario Draghi, seduto da solo su una panchina del Prado, che parla al telefonino mentre dietro di lui tutti gli altri capi di Stato si accalcano estasiati di fronte ai capolavori di uno dei più bei musei del mondo.
L’altra non è nota, ma è altrettanto simbolica: Draghi, sempre seduto ma stavolta al tavolo circolare del vertice Nato, che non parla ma legge qualcosa sul solito telefonino, e immediatamente si volta alle sue spalle, dove siedono Di Maio e Guerini, per sussurrargli qualcosa.
Nel primo caso, lui stesso ha spiegato che non si ricorda con chi stesse parlando (i meme sui social hanno ironizzato e ipotizzato fosse la moglie Serenella, che gli avrebbe detto «Sbrigati a tornare a casa, qui i ragazzi stanno facendo un casino»).
Nel secondo caso, le “voci di dentro” dei palazzi romani raccontano che il premier, stupito e interdetto, abbia chiesto ai suoi ministri: «Scusate, chi diavolo è questo De Masi?».
Piccoli episodi, che descrivono la Grande Babele italiana. C’è la guerra in Ucraina che durerà anni e il nemico Putin alle porte d’Europa. C’è la pandemia che torna cattiva con Omicron e dimostra che Omega è lontana. C’è l’inflazione che morde come 36 anni fa. C’è il lavoro che cala a 22,9 milioni di occupati e il precariato che esplode a 3,1 milioni di contratti a termine. C’è poca energia (perché lo Zar di Mosca chiude i gasdotti) e pochissima acqua (perché la siccità prosciuga i rubinetti).
Mentre il pianeta cammina mano nella mano con l’Apocalisse, i destini della nazione sembrano appesi all’amletico dilemma dell’Avvocato senza più Popolo.
Giuseppe Conte uscirà dalla maggioranza oppure no? Il governo cadrà oppure reggerà fino alla fine della legislatura? E dopo, quando avremo votato nel 2023, chi guiderà questo sciagurato Paese? Rebus, più che domande.
Eppure, anche nella «evaporazione della politica» di cui scrive Massimo Recalcati bisogna cercare un punto fermo, una rotta, un orizzonte per l’Italia di domani. Proviamo a farlo, mettendo in fila conversazioni e indiscrezioni raccolte in queste ore tra vari protagonisti della scena pubblica tricolore.
Riavvolgiamo il nastro, e torniamo a quel vertice Nato in cui Draghi si lascia sfuggire la battuta. Il professor Domenico De Masi, il giorno prima, fa una rivelazione a Un giorno da pecora: Grillo ha riferito ad alcuni parlamentari che Draghi gli avrebbe chiesto di scaricare Conte.
Il giorno dopo La Stampa lancia la stessa notizia in un articolo di Federico Capurso, che ha raccolto l’indiscrezione da una fonte diretta e tra le più qualificate del Movimento. Il premier non si aspettava questa sortita. Tarda troppo a reagire.
Con i cronisti minimizza: da ex banchiere centrale, abituato alle severe liturgie francofortesi, è poco incline alle lotte nel fango che la politichetta italica da sempre contempla ed impone. Solo a tarda sera arriva la smentita della sua portavoce Paola Ansuini. Ma a quel punto la frittata è già fatta. Ora, gli interrogativi che circolano nelle stanze del potere sono almeno tre. Il primo: Draghi ha davvero chiesto a Grillo di liberarsi di Conte?
La risposta prevalente, nonostante le smentite ufficiali, pare affermativa. E se non è vero che quelle cose le ha scritte (in genere sul telefonino manda giusto gli auguri di Natale) è verosimile che le abbia dette (l’ultima telefonata tra i due, dicono i ben informati, risale a una decina di giorni fa).
Nell’incontro di domani a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio proverà a chiudere l’incidente, ripetendo di non aver mai detto nulla del genere all’Elevato (che a sua volta all’Adnkronos ha liquidato il fatto parlando di «cazzate») e insistendo sul fatto che di sms o whatsapp nessuno ne ha esibiti né potrà mai farlo.
Conte non gli crederà. Di più: secondo molti suoi alleati ed amici, interni ed esterni, Giuseppi è sicuro che il premier sia stato addirittura il vero “regista occulto” della scissione di Luigi Di Maio, considerato uno dei cardini intorno al quale far girare nei prossimi mesi il famoso “partito draghiano senza Draghi”, aggregando i governisti della Lega Giorgetti, Fedriga e Zaia, i ministri dissidenti di Forza Italia Brunetta, Gelmini e Carfagna, i sindaci indipendenti Sala, Gori e Brugnaro, i centristi rissosi Calenda, Renzi e Tabacci.
Se la legge elettorale non cambiasse (ed è una pia illusione che cambi) questa aggregazione o “accozzaglia”, a seconda dei punti di vista, dovrebbe costituirsi come Terzo Polo, puntare a correre nell’ultimo terzo di quota proporzionale del “Rosatellum”, ed entrare in coalizione con il Pd di Letta, a sua volta draghiano di ferro, sfidando alle prossime elezioni il centrodestra a trazione meloniana. «Vaste programme», chioserebbe il generale De Gaulle. Ma che il tentativo riesca poco conta.
Importa il fatto che sia in atto e che in molti ci credano. A partire da Conte, appunto. Questo, d’altra parte, spiega perché il capo pentastellato sia così restio a ricucire, e così tentato dallo strappo definitivo. E questo risolve anche il secondo interrogativo: chi e perché ha voluto far uscire il “siluro telefonico” lanciato da Draghi tramite Grillo?
Qui la risposta è facile: la logica dice che la “bomba” sia stata volutamente fatta esplodere dall’ala dura del Movimento, determinato ad usarla come arma finale per giustificare l’addio alla maggioranza. La “corrente divorzista” è ampia, e ormai va da Patuanelli ad Airola. E qui veniamo al terzo interrogativo, quello più importante: che fa Conte? Lascia o raddoppia?
Il primo impulso del leader di Volturara Appula, martedì scorso, è stato quello di sfasciare tutto. «Basta, facciamo subito l’appoggio esterno», ha detto alle sue truppe. Ma il giorno dopo è salito al Colle, e i bollenti spiriti sono un po’ sbolliti.
A quanto pare, Sergio Mattarella gli avrebbe fatto una lavata di capo di questo tenore: «Lei si rende conto di che impatto avrebbe sul Paese una crisi di governo, in un momento come questo? E sarebbe davvero disposto ad aprirla sulla base delle ricostruzioni di seconda mano fatte da un professore a una radio?».
Molto meno di un “non expedit”, molto più di una “moral suasion”. A quel punto Conte ha frenato e, come da prassi, vacillato e temporeggiato. Ma la tentazione dell’appoggio esterno non è affatto tramontata, e in queste ore tiene ancora banco in un Movimento ormai in confusione totale.
Complice l’insostenibile ambiguità di Beppe Grillo, che nei giorni pari tortura Giuseppi (come ha fatto martedì scorso al Tempio di Adriano, dicendo che «dare un progetto a lui è come buttarlo dalla finestra») e in quelli dispari bastona Di Maio (come ha fatto venerdì, quando sul suo blog ha pubblicato una feroce “fenomenologia del traditore”). Triste il Paese che dal Vaffa in poi deve ogni volta interpretare “oracoli” e “segni” di un cervellotico, esoterico capo-comico-politico, senza partito e senza mandato. Ma questa è un’altra storia.
Conte, come il quarto “cane per strada” cantato da De Gregori, «non sa dove andare/ comunque ci va». A questo punto, dopo il preambolo di Mattarella, per decidere l’appoggio esterno avrebbe bisogno di un pretesto forte. Il Decreto Aiuti, in aula alla Camera da domani, non lo è.
Contiene la norma sul termovalorizzatore di Roma, che per M5S è fumo negli occhi. Ma Draghi ha già deciso: «Su quel testo – è la linea di Palazzo Chigi – il governo metterà la fiducia». Un’occasione potrà esserci tra la fine del mese e i primi di agosto, quando arriverà in aula il quarto Decreto Armi, e tra Farnesina e Difesa si sta già stilando l’elenco dei nuovi mezzi da mandare a Zelensky, a quanto pare assai più offensivi che difensivi.
Ma come dice un ministro che lo conosce assai bene, «il Movimento deve stare attento al mese di agosto: il Papeete di Conte potrebbe essere il suicidio definitivo, visto com’ è andato a finire quello di Salvini».
L’ora fatale potrebbe dunque spostarsi in autunno. Con la crisi economica che si aggrava, il conflitto sociale che esplode, la colonna “movimentista” dei Cinque Stelle avrebbe materia per trarre il suo dado. Ma a parte i vincoli già indicati dal Capo dello Stato, ci sono almeno tre paletti piantati sul terreno, che Conte e il suo cerchio tutt’ altro che magico devono considerare.
Il primo paletto, ancora una volta, è Draghi. È stato il premier, giovedì scorso, a dire in conferenza stampa che «questo governo va avanti solo se ci sono dentro i Cinque Stelle». Quindi – sostiene il premier, che realisticamente lo ripeterà a Conte nell’incontro di domattina – o stai dentro o stai fuori. E se stai fuori, anche con l’appoggio esterno, ti assumi la responsabilità di mandare a casa il governo, precipitando l’Italia nel caos.
Certo, i numeri per andare avanti sulla carta ci sarebbero anche senza i voti pentastellati. Ma “l’esecutivo di unità nazionale” è una formula speciale congegnata da Mattarella con la logica dei “costruttori”: e i costruttori o sono quelli convenuti al giuramento del 13 febbraio 2021, o quel governo non c’è più, e allora si torna a votare. Te la senti, Giuseppi?
Il secondo paletto è Di Maio. Il ministro degli Esteri, numeri alla mano, ha risposto da par suo al quesito che in molti si ponevano dopo la rielezione del Presidente della Repubblica. Quante divisioni ha Di Maio? Fatta la scissione, “Giggino” si è portato via più di 60 parlamentari. Molti di più di quelli che immaginavano i suoi detrattori. Ora, tra Farnesina e dintorni, c’è chi fa già un altro calcolo.
«Se Conte rompe, dal Movimento viene via un’altra quarantina di parlamentari, che confluisce in Insieme per il Futuro». Così la falange dimaiana tra Camera e Senato avrebbe oltre 100 effettivi, e «diventerebbe il terzo, se non addirittura il secondo gruppo del Parlamento». Vero o falso? Di nuovo: verosimile.
A quel punto Conte sarebbe stretto tra due fuochi: perderebbe i governisti rimasti, guidati da D’Inca a Dadone, e resterebbe asserragliato nella ridotta con i dibattistiani e i travaglisti. Ancora una volta: è questo che vuoi, Giuseppi?
Il terzo paletto è Enrico Letta. Finora, di fronte alle convulsioni grilline, il segretario del Pd ha fatto il vago, fischiettando o buttando la palla nella curva del “programma” (dove si rifugiano tutti i leader che non sanno bene che pesci pigliare).
Ma se il Movimento uscisse dal governo, e se a maggior ragione lo facesse sul Decreto Armi, cioè sulla politica estera, come farebbe il Partito democratico a non trarne le dovute conclusioni, chiudendo la stagione dell’alleanza giallorossa e abbandonando una volta per tutte il “campo largo”?
Giovedì scorso, in direzione, Letta ha messo le mani avanti. Ma già ora c’è chi, come Stefano Bonaccini e molti altri, pensa che «se avessimo un po’ più di coraggio e dinamismo potremmo prendere da soli oltre il 30 per cento». E già ora, al Nazareno, c’è chi sostiene che «se in autunno non diamo risposte come Pd, i populisti torneranno a vincere».
È naturale che queste risposte anti-populisti, in una coalizione con un Movimento che affossa il governo Draghi sulla fedeltà atlantica, non si potrebbero dare. Ognuno andrebbe per la sua strada. La sinistra riformista, per quanto accidentata, una strada la può trovare. I pentastellati, isolati e arrabbiati, forse no. E ci risiamo: ti conviene, Giuseppi?
Non si può escludere nulla. Ma tutte queste variabili lasciano pensare che forse la notizia della morte del governo Draghi, come quella di Mark Twain, sia largamente esagerata. E che l’appuntamento con l’Armageddon, per la politica italiana, sia davvero rinviato al 2023.
Ma qui ed ora, e in vista delle elezioni del prossimo anno, nelle istituzioni si sta lavorando per mettere in sicurezza qualche pilastro del sistema. Il disegno del “partito draghiano senza Draghi” è funzionale a questo obiettivo, che riguarda l’oggi ma anche il domani.
È evidente: c’è chi sta già lavorando per un bis dell’ex banchiere centrale nel 2023, perché come profetizza rassegnato Massimo Cacciari «dopo Draghi, c’è solo Draghi». È una consapevolezza amara: presuppone ancora una volta lo Stato d’Eccezione, cioè una scelta che non nasce dalla volontà del popolo sovrano e che sancisce al tempo stesso l’ennesimo fallimento della Politica e l’ulteriore supplenza della Tecnica.
Ma poggia su alcune probabilità e su un interdetto indimostrabile. Le probabilità sono due. La prima: di questo passo, alle elezioni del 2023 (oltre tutto condizionate nell’esito finale da un Parlamento in cui siederanno 345 “onorevoli” in meno) non ci sarà un vero vincitore.
La seconda: mentre oggi nelle Camere i due leader più forti sono palesemente anti-draghiani (Conte e Salvini), dopo il voto del 2023 i due leader più forti saranno tendenzialmente draghiani (Letta e Meloni).
Per questo, se i poli e i partiti non riusciranno a trovare una quadra aritmetica e politica, saranno forse obbligati a tornare da Draghi. E qui c’è ancora un’incognita da considerare, e si chiama Giorgia Meloni.
Se Fratelli d’Italia risultasse il partito più votato, con una coalizione di centrodestra in vantaggio anche solo per una manciata di voti, potrebbe legittimamente pretendere l’incarico.
Ma qui scatta l’interdetto: i malpensanti sostengono che il Presidente della Repubblica, salvo un trionfo elettorale clamoroso della “sorella d’Italia”, non darebbe mai l’incarico alla leader di un partito della destra sovranista, che nell’aula di Strasburgo siede insieme agli estremisti del Patto di Visegraad. Vero o falso?
In questo caso, lo sapremo solo se e quando “l’evento” accadrà. Resta il fatto che Meloni, con Draghi, ha un ottimo rapporto personale. E da mesi FdI fa un’opposizione dura, ma non “sfascista” (salvo i comiziacci spagnoli sul palco di Vox)
La seconda incognita si chiama ancora una volta Draghi. Com’ era accaduto per il Quirinale, il premier si è già sfilato. Ha già detto che questo è “l’ultimo governo” che guiderà. Ha già avvisato i partiti che “il nuovo posto di lavoro” se lo troverà da solo.
Ma siamo alle solite: in una situazione di emergenza, nel vicolo cieco dell’ingovernabilità, come farebbe Supermario a declinare l’eventuale richiesta del Capo dello Stato? Magari persino nella segreta speranza che il bis possa riaprirgli la via del Colle? Fantapolitica.
Ma di questo si parla, in questa torrida estate italiana, nei corridoi del “triangolo istituzionale”: Quirinale-Palazzo Chigi-Montecitorio.
Ed è proprio in questo triangolo che, per blindarne gli equilibri, si sta definendo la road-map dei poteri e delle poltrone che contano e conteranno nei prossimi anni. Qualunque cosa succeda, comunque vadano le prossime elezioni, il “Deep State” ha bisogno di stabilità e continuità.
Per questo, si racconta, Mattarella ha già segnato sulla sua agenda la data dello scioglimento delle Camere. La legislatura scade il 23 marzo, e il presidente emetterebbe il decreto di scioglimento il 22. L’Italia, nel rispetto dell’articolo 61 della Costituzione che prevede le elezioni delle nuove Camere entro i settanta giorni dallo scioglimento delle precedenti, andrebbe a votare ai primi di giugno.
In questo modo il governo Draghi potrà gestire ancora in prima persona la partita delle nomine nelle “Big Seven”, cioè nelle più importanti aziende a partecipazione pubblica del Paese: Eni, Enel, Leonardo, Terna, Poste, Enav, Consip. Una fonte primaria, vicina a questi dossier, ha due certezze.
La prima: «Di tutti i manager in carica ne resterà uno solo: Claudio Descalzi. Per tutti gli altri sarà turn over. E i nuovi saranno tutti rigorosamente tecnici, lontani dalle segreterie di partito».
Com’ è appena successo a Fincantieri e Invitalia. La seconda: «La presidenza dell’Eni dovrebbe andare a Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier».
Ma ci sono ancora due gangli vitali, negli organi di garanzia del Paese, per i quali il passaggio è molto più delicato. Uno è la Consob. Dicono i bene informati che per Paolo Savona sia suonata la campana dell’ultimo giro. Scadrebbe nel marzo 2026, ma Daniele Franco al Mef starebbe studiando una soluzione per accompagnare alla pensione il “sughero sardo”, sovranista impenitente che non affonda mai, ma che a quanto si dice non aiuta la credibilità dell’Italia in Europa.
L’altro, ancora più complesso, è la Banca d’Italia. Ignazio Visco scadrebbe nell’ottobre 2023, ma per non lasciare la nomina del suo successore al Mister o alla Miss X chi vincerà le prossime elezioni, Palazzo Chigi e Palazzo Koch stanno ragionando insieme sull’ipotesi di far dimettere il governatore con un anno d’anticipo, nel prossimo ottobre.
Per lui ci sarebbe un’exit strategy in Goldman Sachs, come accadde allo stesso Draghi dopo la direzione generale del Tesoro e prima del “trasloco” da numero uno in Via Nazionale. Il presidente del Consiglio per ora ha negato: «Non ne so assolutamente nulla, sarà il governatore che deciderà quando vuole, è stato sempre così…».
Ma a quanto pare il Presidente della Repubblica è molto in ansia per Bankitalia. Chiede che la partita sia chiusa prima della fine di quest’ anno. Non vuole che tutto sia rimandato a una stagione incerta e insicura, durante la quale sul Paese potrebbero piovere pietre. Mai come stavolta, purtroppo, la preoccupazione di Mattarella è anche la nostra.
Massimo Giannini
(da “La Stampa”)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
PINCHER AVREBBE FATTO AVANCES INDESIDERATE A COLLEGHI MASCHI IN UN BAR IN PARLAMENTO E NEL SUO STESSO UFFICIO… E POI SONO GLI STESSI IPOCRITI CHE PARLANO DI “VALORI” DA DIFENDERE: QUALI? LE PALPATE SUL CULO?
Sono emerse sei nuove denunce di comportamento inappropriato da parte dell’ex vicecapogruppo (deputy chief whip) del Partito Conservatore alla Camera dei Comuni britannica Chris Pincher, pochi giorni dopo essere stato sospeso come parlamentare conservatore dopo le accuse di aver palpato due uomini.
Si tratta di accuse che risalgono a più di un decennio fa e cui fanno riferimento oggi diversi domenicali nel Regno Unito.
Pincher ha da parte sua affermato che cercherà aiuto medico professionale ma che non ha intenzione di dimettersi da deputato.
Nello specifico, le accuse includono tre casi in cui si presume che Pincher abbia fatto avances indesiderate a parlamentari maschi, anche in un bar in parlamento e nel suo stesso ufficio parlamentare. Non sono tuttavia mai state presentate denunce ufficiali.
Dalle ricostruzioni della stampa emerge che lo scorso febbraio uno dei parlamentari interessati abbia contattato Downing Street per riferire quanto gli era accaduto e manifestare preoccupazione per l’incarico a Pincher – all’epoca ancora in fieri – di vicecapogruppo.
(da agenzie)
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Luglio 3rd, 2022 Riccardo Fucile
30 BOMBE HANNO DISTRUTTO UNA DELLE BASI MILITARI RUSSE
Potenti bombardamenti sono stati segnalati nell’aeroporto di Melitopol, città
dell’Ucraina sud-orientale controllata dalle forze di Mosca da fine febbraio.
Tra le 3:00 e le 5:00 di questa notte una grande nuvola di fumo si è alzata nell’area, visibile anche a decine di chilometri.
Residenti e civili non sono riusciti ad accedere ai rifugi antiaerei perché le truppe russe li avevano chiusi tutti, così in molti stanno tentando la fuga dall’area.
A riferirlo è la testata Ria Melitopol e a confermarlo il sindaco della città, Ivan Fedorov, il quale riporta che le truppe ucraine hanno «distrutto una delle 4 basi militari russe e lanciato oltre 30 bombe».
Ha però specificato che i colpi sono stati solo nelle basi militari e che nonostante «i russi stiano cercando di diffondere che ci sono stati bombardamenti anche su aree civili e che la popolazione è stata colpita, non è vero».
(da agenzie)
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