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GIUSEPPE CONTE USCIRÀ DALLA MAGGIORANZA O NO? TUTTO LASCIA PENSARE CHE LA NOTIZIA DELLA MORTE DEL GOVERNO DRAGHI SIA ESAGERATA

IL RUOLO DI MATTARELLA, LA “QUOTA 100” DI DI MAIO, IL DRAGHI BIS E LA PARTITA DELLE NOMINE

Due immagini ci resteranno impresse, in questa settimana dei giganti della Terra che l’Italia ha vissuto di nuovo da Strapaese minore, piccolo e reietto.
Una è nota, ed è assolutamente iconica: Mario Draghi, seduto da solo su una panchina del Prado, che parla al telefonino mentre dietro di lui tutti gli altri capi di Stato si accalcano estasiati di fronte ai capolavori di uno dei più bei musei del mondo.
L’altra non è nota, ma è altrettanto simbolica: Draghi, sempre seduto ma stavolta al tavolo circolare del vertice Nato, che non parla ma legge qualcosa sul solito telefonino, e immediatamente si volta alle sue spalle, dove siedono Di Maio e Guerini, per sussurrargli qualcosa.
Nel primo caso, lui stesso ha spiegato che non si ricorda con chi stesse parlando (i meme sui social hanno ironizzato e ipotizzato fosse la moglie Serenella, che gli avrebbe detto «Sbrigati a tornare a casa, qui i ragazzi stanno facendo un casino»).
Nel secondo caso, le “voci di dentro” dei palazzi romani raccontano che il premier, stupito e interdetto, abbia chiesto ai suoi ministri: «Scusate, chi diavolo è questo De Masi?».
Piccoli episodi, che descrivono la Grande Babele italiana. C’è la guerra in Ucraina che durerà anni e il nemico Putin alle porte d’Europa. C’è la pandemia che torna cattiva con Omicron e dimostra che Omega è lontana. C’è l’inflazione che morde come 36 anni fa. C’è il lavoro che cala a 22,9 milioni di occupati e il precariato che esplode a 3,1 milioni di contratti a termine. C’è poca energia (perché lo Zar di Mosca chiude i gasdotti) e pochissima acqua (perché la siccità prosciuga i rubinetti).
Mentre il pianeta cammina mano nella mano con l’Apocalisse, i destini della nazione sembrano appesi all’amletico dilemma dell’Avvocato senza più Popolo.
Giuseppe Conte uscirà dalla maggioranza oppure no? Il governo cadrà oppure reggerà fino alla fine della legislatura? E dopo, quando avremo votato nel 2023, chi guiderà questo sciagurato Paese? Rebus, più che domande.
Eppure, anche nella «evaporazione della politica» di cui scrive Massimo Recalcati bisogna cercare un punto fermo, una rotta, un orizzonte per l’Italia di domani. Proviamo a farlo, mettendo in fila conversazioni e indiscrezioni raccolte in queste ore tra vari protagonisti della scena pubblica tricolore.
Riavvolgiamo il nastro, e torniamo a quel vertice Nato in cui Draghi si lascia sfuggire la battuta. Il professor Domenico De Masi, il giorno prima, fa una rivelazione a Un giorno da pecora: Grillo ha riferito ad alcuni parlamentari che Draghi gli avrebbe chiesto di scaricare Conte.
Il giorno dopo La Stampa lancia la stessa notizia in un articolo di Federico Capurso, che ha raccolto l’indiscrezione da una fonte diretta e tra le più qualificate del Movimento. Il premier non si aspettava questa sortita. Tarda troppo a reagire.
Con i cronisti minimizza: da ex banchiere centrale, abituato alle severe liturgie francofortesi, è poco incline alle lotte nel fango che la politichetta italica da sempre contempla ed impone. Solo a tarda sera arriva la smentita della sua portavoce Paola Ansuini. Ma a quel punto la frittata è già fatta. Ora, gli interrogativi che circolano nelle stanze del potere sono almeno tre. Il primo: Draghi ha davvero chiesto a Grillo di liberarsi di Conte?
La risposta prevalente, nonostante le smentite ufficiali, pare affermativa. E se non è vero che quelle cose le ha scritte (in genere sul telefonino manda giusto gli auguri di Natale) è verosimile che le abbia dette (l’ultima telefonata tra i due, dicono i ben informati, risale a una decina di giorni fa).
Nell’incontro di domani a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio proverà a chiudere l’incidente, ripetendo di non aver mai detto nulla del genere all’Elevato (che a sua volta all’Adnkronos ha liquidato il fatto parlando di «cazzate») e insistendo sul fatto che di sms o whatsapp nessuno ne ha esibiti né potrà mai farlo.
Conte non gli crederà. Di più: secondo molti suoi alleati ed amici, interni ed esterni, Giuseppi è sicuro che il premier sia stato addirittura il vero “regista occulto” della scissione di Luigi Di Maio, considerato uno dei cardini intorno al quale far girare nei prossimi mesi il famoso “partito draghiano senza Draghi”, aggregando i governisti della Lega Giorgetti, Fedriga e Zaia, i ministri dissidenti di Forza Italia Brunetta, Gelmini e Carfagna, i sindaci indipendenti Sala, Gori e Brugnaro, i centristi rissosi Calenda, Renzi e Tabacci.
Se la legge elettorale non cambiasse (ed è una pia illusione che cambi) questa aggregazione o “accozzaglia”, a seconda dei punti di vista, dovrebbe costituirsi come Terzo Polo, puntare a correre nell’ultimo terzo di quota proporzionale del “Rosatellum”, ed entrare in coalizione con il Pd di Letta, a sua volta draghiano di ferro, sfidando alle prossime elezioni il centrodestra a trazione meloniana. «Vaste programme», chioserebbe il generale De Gaulle. Ma che il tentativo riesca poco conta.
Importa il fatto che sia in atto e che in molti ci credano. A partire da Conte, appunto. Questo, d’altra parte, spiega perché il capo pentastellato sia così restio a ricucire, e così tentato dallo strappo definitivo. E questo risolve anche il secondo interrogativo: chi e perché ha voluto far uscire il “siluro telefonico” lanciato da Draghi tramite Grillo?
Qui la risposta è facile: la logica dice che la “bomba” sia stata volutamente fatta esplodere dall’ala dura del Movimento, determinato ad usarla come arma finale per giustificare l’addio alla maggioranza. La “corrente divorzista” è ampia, e ormai va da Patuanelli ad Airola. E qui veniamo al terzo interrogativo, quello più importante: che fa Conte? Lascia o raddoppia?
Il primo impulso del leader di Volturara Appula, martedì scorso, è stato quello di sfasciare tutto. «Basta, facciamo subito l’appoggio esterno», ha detto alle sue truppe. Ma il giorno dopo è salito al Colle, e i bollenti spiriti sono un po’ sbolliti.
A quanto pare, Sergio Mattarella gli avrebbe fatto una lavata di capo di questo tenore: «Lei si rende conto di che impatto avrebbe sul Paese una crisi di governo, in un momento come questo? E sarebbe davvero disposto ad aprirla sulla base delle ricostruzioni di seconda mano fatte da un professore a una radio?».
Molto meno di un “non expedit”, molto più di una “moral suasion”. A quel punto Conte ha frenato e, come da prassi, vacillato e temporeggiato. Ma la tentazione dell’appoggio esterno non è affatto tramontata, e in queste ore tiene ancora banco in un Movimento ormai in confusione totale.
Complice l’insostenibile ambiguità di Beppe Grillo, che nei giorni pari tortura Giuseppi (come ha fatto martedì scorso al Tempio di Adriano, dicendo che «dare un progetto a lui è come buttarlo dalla finestra») e in quelli dispari bastona Di Maio (come ha fatto venerdì, quando sul suo blog ha pubblicato una feroce “fenomenologia del traditore”). Triste il Paese che dal Vaffa in poi deve ogni volta interpretare “oracoli” e “segni” di un cervellotico, esoterico capo-comico-politico, senza partito e senza mandato. Ma questa è un’altra storia.
Conte, come il quarto “cane per strada” cantato da De Gregori, «non sa dove andare/ comunque ci va». A questo punto, dopo il preambolo di Mattarella, per decidere l’appoggio esterno avrebbe bisogno di un pretesto forte. Il Decreto Aiuti, in aula alla Camera da domani, non lo è.
Contiene la norma sul termovalorizzatore di Roma, che per M5S è fumo negli occhi. Ma Draghi ha già deciso: «Su quel testo – è la linea di Palazzo Chigi – il governo metterà la fiducia». Un’occasione potrà esserci tra la fine del mese e i primi di agosto, quando arriverà in aula il quarto Decreto Armi, e tra Farnesina e Difesa si sta già stilando l’elenco dei nuovi mezzi da mandare a Zelensky, a quanto pare assai più offensivi che difensivi.
Ma come dice un ministro che lo conosce assai bene, «il Movimento deve stare attento al mese di agosto: il Papeete di Conte potrebbe essere il suicidio definitivo, visto com’ è andato a finire quello di Salvini».
L’ora fatale potrebbe dunque spostarsi in autunno. Con la crisi economica che si aggrava, il conflitto sociale che esplode, la colonna “movimentista” dei Cinque Stelle avrebbe materia per trarre il suo dado. Ma a parte i vincoli già indicati dal Capo dello Stato, ci sono almeno tre paletti piantati sul terreno, che Conte e il suo cerchio tutt’ altro che magico devono considerare.
Il primo paletto, ancora una volta, è Draghi. È stato il premier, giovedì scorso, a dire in conferenza stampa che «questo governo va avanti solo se ci sono dentro i Cinque Stelle». Quindi – sostiene il premier, che realisticamente lo ripeterà a Conte nell’incontro di domattina – o stai dentro o stai fuori. E se stai fuori, anche con l’appoggio esterno, ti assumi la responsabilità di mandare a casa il governo, precipitando l’Italia nel caos.
Certo, i numeri per andare avanti sulla carta ci sarebbero anche senza i voti pentastellati. Ma “l’esecutivo di unità nazionale” è una formula speciale congegnata da Mattarella con la logica dei “costruttori”: e i costruttori o sono quelli convenuti al giuramento del 13 febbraio 2021, o quel governo non c’è più, e allora si torna a votare. Te la senti, Giuseppi?
Il secondo paletto è Di Maio. Il ministro degli Esteri, numeri alla mano, ha risposto da par suo al quesito che in molti si ponevano dopo la rielezione del Presidente della Repubblica. Quante divisioni ha Di Maio? Fatta la scissione, “Giggino” si è portato via più di 60 parlamentari. Molti di più di quelli che immaginavano i suoi detrattori. Ora, tra Farnesina e dintorni, c’è chi fa già un altro calcolo.
«Se Conte rompe, dal Movimento viene via un’altra quarantina di parlamentari, che confluisce in Insieme per il Futuro». Così la falange dimaiana tra Camera e Senato avrebbe oltre 100 effettivi, e «diventerebbe il terzo, se non addirittura il secondo gruppo del Parlamento». Vero o falso? Di nuovo: verosimile.
A quel punto Conte sarebbe stretto tra due fuochi: perderebbe i governisti rimasti, guidati da D’Inca a Dadone, e resterebbe asserragliato nella ridotta con i dibattistiani e i travaglisti. Ancora una volta: è questo che vuoi, Giuseppi?
Il terzo paletto è Enrico Letta. Finora, di fronte alle convulsioni grilline, il segretario del Pd ha fatto il vago, fischiettando o buttando la palla nella curva del “programma” (dove si rifugiano tutti i leader che non sanno bene che pesci pigliare).
Ma se il Movimento uscisse dal governo, e se a maggior ragione lo facesse sul Decreto Armi, cioè sulla politica estera, come farebbe il Partito democratico a non trarne le dovute conclusioni, chiudendo la stagione dell’alleanza giallorossa e abbandonando una volta per tutte il “campo largo”?
Giovedì scorso, in direzione, Letta ha messo le mani avanti. Ma già ora c’è chi, come Stefano Bonaccini e molti altri, pensa che «se avessimo un po’ più di coraggio e dinamismo potremmo prendere da soli oltre il 30 per cento». E già ora, al Nazareno, c’è chi sostiene che «se in autunno non diamo risposte come Pd, i populisti torneranno a vincere».
È naturale che queste risposte anti-populisti, in una coalizione con un Movimento che affossa il governo Draghi sulla fedeltà atlantica, non si potrebbero dare. Ognuno andrebbe per la sua strada. La sinistra riformista, per quanto accidentata, una strada la può trovare. I pentastellati, isolati e arrabbiati, forse no. E ci risiamo: ti conviene, Giuseppi?
Non si può escludere nulla. Ma tutte queste variabili lasciano pensare che forse la notizia della morte del governo Draghi, come quella di Mark Twain, sia largamente esagerata. E che l’appuntamento con l’Armageddon, per la politica italiana, sia davvero rinviato al 2023.
Ma qui ed ora, e in vista delle elezioni del prossimo anno, nelle istituzioni si sta lavorando per mettere in sicurezza qualche pilastro del sistema. Il disegno del “partito draghiano senza Draghi” è funzionale a questo obiettivo, che riguarda l’oggi ma anche il domani.
È evidente: c’è chi sta già lavorando per un bis dell’ex banchiere centrale nel 2023, perché come profetizza rassegnato Massimo Cacciari «dopo Draghi, c’è solo Draghi». È una consapevolezza amara: presuppone ancora una volta lo Stato d’Eccezione, cioè una scelta che non nasce dalla volontà del popolo sovrano e che sancisce al tempo stesso l’ennesimo fallimento della Politica e l’ulteriore supplenza della Tecnica.
Ma poggia su alcune probabilità e su un interdetto indimostrabile. Le probabilità sono due. La prima: di questo passo, alle elezioni del 2023 (oltre tutto condizionate nell’esito finale da un Parlamento in cui siederanno 345 “onorevoli” in meno) non ci sarà un vero vincitore.
La seconda: mentre oggi nelle Camere i due leader più forti sono palesemente anti-draghiani (Conte e Salvini), dopo il voto del 2023 i due leader più forti saranno tendenzialmente draghiani (Letta e Meloni).
Per questo, se i poli e i partiti non riusciranno a trovare una quadra aritmetica e politica, saranno forse obbligati a tornare da Draghi. E qui c’è ancora un’incognita da considerare, e si chiama Giorgia Meloni.
Se Fratelli d’Italia risultasse il partito più votato, con una coalizione di centrodestra in vantaggio anche solo per una manciata di voti, potrebbe legittimamente pretendere l’incarico.
Ma qui scatta l’interdetto: i malpensanti sostengono che il Presidente della Repubblica, salvo un trionfo elettorale clamoroso della “sorella d’Italia”, non darebbe mai l’incarico alla leader di un partito della destra sovranista, che nell’aula di Strasburgo siede insieme agli estremisti del Patto di Visegraad. Vero o falso?
In questo caso, lo sapremo solo se e quando “l’evento” accadrà. Resta il fatto che Meloni, con Draghi, ha un ottimo rapporto personale. E da mesi FdI fa un’opposizione dura, ma non “sfascista” (salvo i comiziacci spagnoli sul palco di Vox)
La seconda incognita si chiama ancora una volta Draghi. Com’ era accaduto per il Quirinale, il premier si è già sfilato. Ha già detto che questo è “l’ultimo governo” che guiderà. Ha già avvisato i partiti che “il nuovo posto di lavoro” se lo troverà da solo.
Ma siamo alle solite: in una situazione di emergenza, nel vicolo cieco dell’ingovernabilità, come farebbe Supermario a declinare l’eventuale richiesta del Capo dello Stato? Magari persino nella segreta speranza che il bis possa riaprirgli la via del Colle? Fantapolitica.
Ma di questo si parla, in questa torrida estate italiana, nei corridoi del “triangolo istituzionale”: Quirinale-Palazzo Chigi-Montecitorio.
Ed è proprio in questo triangolo che, per blindarne gli equilibri, si sta definendo la road-map dei poteri e delle poltrone che contano e conteranno nei prossimi anni. Qualunque cosa succeda, comunque vadano le prossime elezioni, il “Deep State” ha bisogno di stabilità e continuità.
Per questo, si racconta, Mattarella ha già segnato sulla sua agenda la data dello scioglimento delle Camere. La legislatura scade il 23 marzo, e il presidente emetterebbe il decreto di scioglimento il 22. L’Italia, nel rispetto dell’articolo 61 della Costituzione che prevede le elezioni delle nuove Camere entro i settanta giorni dallo scioglimento delle precedenti, andrebbe a votare ai primi di giugno.
In questo modo il governo Draghi potrà gestire ancora in prima persona la partita delle nomine nelle “Big Seven”, cioè nelle più importanti aziende a partecipazione pubblica del Paese: Eni, Enel, Leonardo, Terna, Poste, Enav, Consip. Una fonte primaria, vicina a questi dossier, ha due certezze.
La prima: «Di tutti i manager in carica ne resterà uno solo: Claudio Descalzi. Per tutti gli altri sarà turn over. E i nuovi saranno tutti rigorosamente tecnici, lontani dalle segreterie di partito».
Com’ è appena successo a Fincantieri e Invitalia. La seconda: «La presidenza dell’Eni dovrebbe andare a Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier».
Ma ci sono ancora due gangli vitali, negli organi di garanzia del Paese, per i quali il passaggio è molto più delicato. Uno è la Consob. Dicono i bene informati che per Paolo Savona sia suonata la campana dell’ultimo giro. Scadrebbe nel marzo 2026, ma Daniele Franco al Mef starebbe studiando una soluzione per accompagnare alla pensione il “sughero sardo”, sovranista impenitente che non affonda mai, ma che a quanto si dice non aiuta la credibilità dell’Italia in Europa.
L’altro, ancora più complesso, è la Banca d’Italia. Ignazio Visco scadrebbe nell’ottobre 2023, ma per non lasciare la nomina del suo successore al Mister o alla Miss X chi vincerà le prossime elezioni, Palazzo Chigi e Palazzo Koch stanno ragionando insieme sull’ipotesi di far dimettere il governatore con un anno d’anticipo, nel prossimo ottobre.
Per lui ci sarebbe un’exit strategy in Goldman Sachs, come accadde allo stesso Draghi dopo la direzione generale del Tesoro e prima del “trasloco” da numero uno in Via Nazionale. Il presidente del Consiglio per ora ha negato: «Non ne so assolutamente nulla, sarà il governatore che deciderà quando vuole, è stato sempre così…».
Ma a quanto pare il Presidente della Repubblica è molto in ansia per Bankitalia. Chiede che la partita sia chiusa prima della fine di quest’ anno. Non vuole che tutto sia rimandato a una stagione incerta e insicura, durante la quale sul Paese potrebbero piovere pietre. Mai come stavolta, purtroppo, la preoccupazione di Mattarella è anche la nostra.
Massimo Giannini
(da “La Stampa”)

This entry was posted on domenica, Luglio 3rd, 2022 at 16:37 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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