Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
IL RACCOLTO È ANDATO MALE ED È IMPOSSIBILE IMPORTARNE ALTRE
Crisi della catena dei rifornimento o effetto delle sanzioni. Non si tratta di chip o materiali rari, e neanche del grano bloccato nei porti ucraini, ma di patate.
In alcuni dei locali del nuovo fast food russo “Vkusno i tochka” (delizioso e basta) aperti a giugno al posto dei McDonald’s, chiusi dopo l’inizio della guerra in l’Ucraina, mancano dai menù, patate fritte e “patate rustiche”, una versione un poco più spessa. E non ci saranno fino all’autunno.
§La questione, solo in apparenza di secondo pieno, si è presto trasformata in politica, con il governo che scende in campo per negare qualsiasi tipo di problema di rifornimento. Le patate giuste per produrre i piatti che accompagnano i burger sono introvabili. Nel 2021, il raccolto di questa varietà è andato male, si giustifica la compagnia in un comunicato pubblicato dalla Tass.
In genere, le patate vengono acquistate da produttori locali, precisano nel clima di autarchia che si respira ora in Russia.
Ma ora è impossibile importare patate da mercati che avrebbero potuto offrire una soluzione provvisoria. Quindi, non ci sono alternative.
Niente patate fritte.
(da La Stampa)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
SALVINI LO AVEVA SCELTO COME RESPONSABILE DEL RADICAMENTO DEL CARROCCIO NEL CENTROSUD ITALIA… “LA LEGA STA COMMETTENDO UN GRANDE ERRORE, QUELLO DI AVER SOSTITUITO LA CLASSE DIRIGENTE CON LA COMITIVA DEL CERCHIO MAGICO DI MATTEO”
Meglio Di Maio che Salvini. Dopo aver rotto due mesi fa con la Lega ed
essere entrato nel Misto, ad avvicinarsi a Insieme per il Futuro, il gruppo messo su dal ministro degli esteri, è il deputato Francesco Zicchieri, ex braccio destro del Capitano ed ex responsabile del radicamento del Carroccio nel centrosud Italia.
Nipote di Mario Zicchieri, detto «Cremino», militante del Fronte della Gioventù, ucciso il 29 ottobre 1975 dalla Brigate Rosse a Roma, Francesco Zicchieri è un uomo di destra, proviene da Alleanza Nazionale, nel 2017 è stato scelto come capo della Lega nel Lazio e l’anno successivo eletto deputato. Sostituito a livello regionale dall’ex sottosegretario Claudio Durigon e messo alla guida del partito di Matteo Salvini nel centrosud, a maggio ha detto addio al Carroccio.
«Secondo me – sottolinea Zicchieri – la Lega sta commettendo un grande errore, quello di aver sostituito la classe dirigente in alcuni posti importanti con la comitiva del cerchio magico di Matteo. Non a caso i grandi consensi che portarono la Lega nel Lazio ad essere tra i primi partiti nacquero dal mio stare attaccato alla gente, alla vita vera».
Con Luigi Di Maio, che a sua volta ha tagliato i ponti con il Movimento 5 Stelle, invece c’è feeling. «Ho avuto modo di confrontarmi più volte con lui – assicura Zicchieri – e ho cominciato a nutrire un forte apprezzamento, tradottosi in poco tempo in una forte stima reciproca, accogliendo favorevolmente il programma di costituire una grande ed unica forza politica riformatrice di centro».
E le critiche rivolte in passato a quello che era il capo dei pentastellati? «Nella vita si può sempre cambiare idea e farlo è da persone intelligenti, specialmente quando si riscontra oggettivamente un ottimo lavoro».
Nella Lega Zicchieri ha creduto ma ora non ha dubbi: «Bisogna lavorare per rafforzare l’azione di governo e non fare come spesso accade una opposizione populista interna che serve solo per qualche spot».
(da la Repubblica)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
OGGI IN ITALIA LO STIPENDIO DI UN TOP MANAGER È 649 VOLTE SUPERIORE A QUELLO DEI SUOI DIPENDENTI CONTRO LE 45 VOLTE DEL 1980 … L’AD DI STELLANTIS TAVARES HA INCASSATO 19 MILIONI DI EURO, 758 VOLTE UN SUO METALMECCANICO
Sono 21 i Paesi europei che applicano per legge il salario minimo universale, altri sei (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) lo applicano settore per settore, attraverso la contrattazione collettiva.
Ora l’Unione europea ha stabilito che i salari minimi debbano essere aggiornati ogni due anni o al massimo ogni quattro per i Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatica.
Il salario minimo, secondo Bruxelles, deve essere una tutela garantita per tutti i lavoratori. Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%. Nessuno invece si pone il problema del salario massimo, e se deve esserci un rapporto fra lo stipendio dei top manager e quello dei loro dipendenti.
Da Olivetti a Tavares
Adriano Olivetti diceva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso». In quegli anni di boom economico per il nostro Paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne a Fca nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico.
Stiamo parlando di cifre lorde, dove la remunerazione di un top manager è composta da quota fissa e quota variabile, in parte legata ai risultati, alle quali si aggiungono spesso le stock option e la buonuscita quando se ne va. Decisioni che vengono prese dal Cda o dall’assemblea dei soci all’atto della nomina.
Oggi l’azienda si chiama Stellantis, e nel 2021 l’ad Carlos Tavares ha percepito 19,10 milioni di euro: stipendio giustificato dai risultati (+14% dei ricavi), ma pesantemente criticato dallo Stato francese che detiene il 6,1% del gruppo e bocciato il 13 aprile 2022 dal voto consultivo del 52% dei soci.
Tavares prende più del doppio di Herbert Diess, capo del Gruppo Volkswagen (circa 8 milioni di euro), e il quadruplo di Oliver Zipse di Bmw (5,3 milioni) e di Ola Källenius di Mercedes-Benz (5,9 milioni). Guadagna sulla carta 758 volte un suo metalmeccanico.
Sulla carta perché l’ex Fiat fa un massiccio uso della cassa integrazione che da una parte diminuisce lo stipendio reale degli operai e dall’altra migliora gli utili dell’azienda.
Marco Tronchetti Provera incassa 8,1 milioni (296 volte la paga di un operaio Pirelli), grazie a un utile che è passato da 44 a 216,6 milioni. L’operaio però non ha beneficiato di quell’utile che ha contribuito a creare e, infatti, il suo stipendio medio lordo è rimasto tale e quale: 27.374 euro.
Stipendi operai: meno 4%
Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati prendevano 45 volte un loro dipendente. Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio; nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte.
Nella traccia indicata da Olivetti si colloca invece la media degli stipendi dei dirigenti intermedi. Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a 10. In questi dodici anni lo stipendio medio di un operaio è sceso del 4%.
Le buonuscite
Eppure non sempre c’è correlazione tra risultati e stipendi. Nel 2021 Andrea Orcel, ad di UniCredit, ha ricevuto una remunerazione di 7,5 milioni di euro: 2,5 milioni di euro di quota fissa e 5 milioni di quota variabile, integralmente incassata.
UniCredit ha confermato la remunerazione di Orcel, giunto in Italia per la fusione con Mps mai avvenuta, anche per il 2022. Questo nonostante la stessa UniCredit abbia calcolato un’esposizione passiva delle sue attività russe per 5,2 miliardi. Nel 2021 Luigi Gubitosi lascia Tim, e l’azienda che sta perdendo 8,7 miliardi gli riconosce una buonuscita da 6,9 milioni.
Poca cosa rispetto ai 25 milioni del suo predecessore Flavio Cattaneo per aver amministrato per poco più di un anno, o i 40,4 milioni ad Alessandro Profumo per i 12 anni in UniCredit.
Ma non tutti sono uguali. Vincenzo Maranghi, per 15 anni amministratore delegato e direttore generale di Mediobanca, lascia il comando nel 2003 rinunciando all’indennità di uscita. Non ha mai voluto stock option perché «quando mi faccio la barba prima di entrare in banca – diceva – non posso neanche per un istante pensare che durante quella giornata io possa prendere una decisione che possa sembrare nel mio interesse e non in quello della banca».
Chi va in controtendenza
In Banca Etica la componente variabile non può superare il 15% della retribuzione annua lorda fissa e il rapporto tra lo stipendio più basso e quello più alto è al massimo di sei volte. Nel 2020 il direttore generale e la presidente hanno percepito rispettivamente un compenso totale di 157.368,48 e 74.481,56 euro.
L’esercizio 2021 si è chiuso con l’utile più alto di sempre: 16,7 milioni di euro, quasi triplicato rispetto al 2020. Stessa politica per le altre 13 banche etiche europee dove il rapporto tra la remunerazione più bassa e quella più alta arriva al massimo a 12,6 volte.
Cosa succede negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti la differenza di salario la chiamano «pay gap», differenza salariale, e dal 2018 per tutte le aziende quotate è obbligatorio renderla nota alla Sec, la Consob americana. Dovrebbe servire a promuovere la stabilità finanziaria, proteggere i contribuenti e i consumatori, migliorando la trasparenza del sistema, ma non ha inciso di una virgola sulla disparità salariale.
Secondo l’America Federation of Labor nel 2020, ultimo dato disponibile, la retribuzione media degli amministratori delegati delle aziende quotate allo S&P 500 è stata di 299 volte superiore a quella mediana dei lavoratori. Con delle eccezioni: Kevin Clark, Ceo della società di componenti automobilistici Aptiv PLC, con i suoi 31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano.
David Goeckeler (Western Digital Corporation): 35,7 milioni di dollari, 4.934 volte quello mediano. Sonia Syngal (The Gap): 21,9 milioni di dollari, con un divario di 3.113. Christopher Nassetta del Gruppo Hilton (55,9 milioni di dollari, 1.953 di divario), John Donahoe II della Nike (55,5 milioni di dollari, 1.935 di divario) e James Quincey della Coca-Cola (18,4 milioni, 1.621 volte).
Ma cosa succede per esempio a Elon Musk? Il suo stipendio annuo ufficiale è di appena 23.760 dollari, addirittura più basso dello stipendio mediano. Però il patron di Tesla e SpaceX è l’uomo più ricco del pianeta. Ha chiuso il 2021 con un patrimonio di oltre 270 miliardi di dollari, 117 in più rispetto al 2020. Eppure al comparire di inflazione e crisi economica non ha esitato ad annunciare 10 mila licenziamenti.
Il senso del limite
Lo studio dell’Economic Policy Institute mostra che negli Usa, dal 1978 al 2018, le remunerazioni dei Ceo sono cresciute del 940% e quelle dei manager del 339,2%, contro l’11,9% del salario del lavoratore tipo.
L’Organizzazione indipendente statunitense (EPI) sostiene che l’economia non subirebbe alcun danno se gli amministratori delegati fossero pagati di meno e dà dei suggerimenti: 1) adottare soluzioni politiche che limitino stipendi e incentivi per gli amministratori delegati; 2) introdurre imposte più elevate sui redditi ai massimi livelli; 3) fissare aliquote d’imposta più alte per le aziende che hanno un gap più elevato tra la retribuzione di Ceo e lavoratori; 4) consentire agli azionisti di votare il compenso dei massimi dirigenti.
Anche la Francia ha chiesto maggiori regolamentazioni europee in materia. Mentre la Svizzera già nel 2013 ha vietato per legge premi di benvenuto, le buonuscite e indennità di intermediazione in caso di acquisto di un’azienda da parte della concorrenza. Chi sgarra rischia tre anni di carcere.
Ora più che mai le grandi imprese hanno il dovere morale di stabilire dei limiti massimi per la prima linea, e tetti minimi dignitosi, poiché nessuna azienda prospera senza il lavoro degli ultimi anelli della catena.
(da il Corriere della Sera)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
L’OMBRA DELLA VERIFICA E DEL VOTO IN AUTUNNO
Draghi è salito al Colle, e la notizia è di primaria grandezza. La voce girava
oggi insistente a Montecitorio, dopo che si era saputo della decisione dei deputati 5 stelle di uscire dall’aula al momento del voto finale sul Decreto Aiuti: «Attenti che Draghi vuole andare da Mattarella a consultarsi sulla nuova situazione. E vuole farlo prima che Conte faccia uscire i suoi anche al Senato».
§E si sa che al Senato il voto finale sul provvedimento coinciderà – per via del diverso regolamento rispetto alla Camera – con il voto di fiducia. Si verificherebbe cioè il fatto inedito di un partito, il più votato alle scorse elezioni, che pur facendo parte della maggioranza non vota la fiducia al governo.
Ma per quanto sembri paradossale Draghi si è ancor di più spazientito per l’uscita di oggi, perché riguardava il merito di un provvedimento importante.
La preoccupazione evidente del premier è che questa scelta del M5s apra la strada a un comportamento via via contagioso per le altre forze, con l’avvicinarsi delle elezioni: si sta in maggioranza, con tanto di ministri al governo, e però quando le leggi non ci piacciono, o non ci conviene votarle per non irritare la nostra base a pochi mesi dal voto, semplicemente usciamo dall’aula.
È chiaro che con un andazzo simile il governo andrebbe presto a sbattere, come già si è cominciato a vedere oggi, con le parole durissime nei confronti dei 5 stelle e le richieste di andare a una verifica di governo venute da più parti.
Meglio chiarire subito, ha pensato Draghi: o si va avanti seriamente o è meglio chiuderla presto, senza farsi rosolare al fuoco delle polemiche preelettorali
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
LA TV DI STATO RUSSA PRIMA E DOPO LA GUERRA… AUMENTATO IL BUDGET DEL GOVERNO AI MEDIA STATALI PER RACCONTARE BALLE
“Forse, per capire dove ci stavamo spingendo, avremmo dovuto guardare più spesso la tv”, mi scrive sgomento un amico e collega, giovane docente universitario russo, due giorni dopo il 24 febbraio.
Perché lui preferisce canali privati e progressisti come “Dožd’” (conosciuto in Europa come TvRain, che ha chiuso forzatamente i battenti pochi giorni dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina) e la televisione di Stato russa non l’ha mai seguita in vita sua, snobbandola e sminuendone erroneamente il potere manipolatorio.
“Puoi vedere la televisione russa in Italia? Se puoi, guardala, lì ti spiegano le cose come stanno. Così capirai anche tu che non c’è niente di cui preoccuparsi”, mi dice invece tutta tranquilla e sicura, sempre due giorni dopo il 24 febbraio, un’affabile signora russa a cui impartisco lezioni di italiano e che inaspettatamente si rivela una sostenitrice della “operazione speciale”, al di là della sua laurea in storia dell’arte e della sua profonda conoscenza del barocco romano.
La fruizione dei canali televisivi filogovernativi rappresenta un indicatore piuttosto chiaro della spaccatura, innanzitutto generazionale, in seno alla società russa: i nipoti, i figli, chi è nato a ridosso della dissoluzione dell’Unione Sovietica o dopo di essa, da un lato; i genitori, gli zii, i nonni e chi è cresciuto e si è formato nel contesto pre-1991 dall’altro (il secondo gruppo, peraltro, è più numeroso del primo: secondo dati demografici del 1 gennaio 2019, in Russia risiedono 61,5 milioni di cittadini sopra i 45 anni contro 59,3 milioni tra i 15 e i 44 anni).
Anche il livello di istruzione e l’area di residenza (grande città vs. provincia) giocano ovviamente un ruolo se parliamo di share, ma la sensazione generale è quella di ritrovarsi davanti a una nuova declinazione della dicotomia tra “padri e figli” tanto cara al canone letterario russo.
La televisione è infatti ora “il Male assoluto”, ora la “scatola zombizzante”, ora “puro trash” per i secondi, ma una voce autorevole per i primi, che anche in una congiuntura storica in cui l’informazione passa prima di tutto attraverso i social e le varie piattaforme, continuano a riportare le notizie sui fatti di attualità iniziando dalla frase: “Ieri in televisione hanno detto che…”.
Nelle ultime settimane le figure di maggior spicco della televisione di Stato russa (conduttori e moderatori come Vladimir Solov’ëv, Dmitrij Kiselëv, Margarita Simonyan) hanno definitivamente conquistato la ribalta mondiale, ritagliandosi anche degli spazi non indifferenti come ospiti nei talk show italiani, ma in patria erano delle celebrità già da anni, e da anni si esprimevano con toni non molto diversi da quelli attuali: come già detto in questa sede a proposito dell’ideologia “militarpatriottica”, il conflitto su larga scala in Ucraina non ha fatto altro che acuire coerentemente delle tendenze già in corso.
Se n’era ben accorto, solo per fare un esempio particolarmente calzante, il regista Andrej Zvjagincev quando, in coda a quella sintesi della vita russa contemporanea (a livello sia microscopico che macroscopico) che è il suo lungometraggio “Loveless” (2017), aveva piazzato salotti con televisioni costantemente sintonizzate su “Rossija 1” e, sugli schermi, reportage scioccanti e faziosi in merito agli scontri nel Donbass del 2014/2015, commentati dall’immancabile Dmitrij Kiselëv.
Certo, canali come “Rossija 1”, “Pervyj Kanal”, RT o NTV prima della guerra non si distinguevano particolarmente da analoghe reti televisive (sia pubbliche che private) nel resto del mondo, offrendo l’usuale gamma di trasmissioni di dubbia qualità, basate in larga parte su canovacci predisposti in anticipo, tra dibattiti pruriginosi su fatti di cronaca e melodrammi familiari (per esempio in “Pust’ govorjat!’”, “Che parlino pure!”), reality show con l’obiettivo finale di formare la coppia perfetta (come il popolarissimo “Davaj poženimsja!”, “Sposiamoci!”), talent show nei format internazionali (“The Voice”), o programmi consacrati alla vita sana per un pubblico essenzialmente femminile (come “O samom glavnom”, “Ciò che è più importante”).
C’erano poi varietà con siparietti comici e special guest, come l’amatissimo “Večernyj Urgant” (“Urgant della sera”, ricalcato sul modello americano alla David Letterman), che lo scorso Capodanno ha conquistato anche il pubblico italiano con la sua magistrale stilizzazione degli anni ’80 sanremesi (autentico feticcio del russo medio) nello show “Ciao 2020” (poi replicato in “Ciao 2021”).
E poi, ovviamente, c’erano lunghi telegiornali e programmi a tema politico ed economico condotti da opinionisti come quelli già citati, ma anche dal regista Nikita Michalkov (si pensi al suo “Besogon”, ovvero “L’esorcista”, rubrica all’insegna del messianesimo russo ortodosso), dal senatore Aleksej Puchkov (molto seguito il suo “Postscriptum”) e tanti altri, caratterizzati da un patriottismo sempre più aggressivo, da uno scetticismo particolarmente spiccato nei confronti dell’Occidente e, a partire dalla Rivoluzione della Dignità (più conosciuta in Europa come Euromajdan) del 2013, da una rappresentazione unilaterale e parziale, quando non inscenata ad hoc, della complessa situazione di crisi in Ucraina (tristemente noto il caso del “bambino crocifisso” dai “neonazisti” in Donbas nel 2014).
Dopo il 24 febbraio 2022, il palinsesto dei principali canali di Stato russi ha subìto una netta virata imposta dall’alto, da tutti i punti di vista. In primo luogo è sensibilmente aumentato il budget riservato dal governo ai media statali; in secondo luogo, le trasmissioni dedicate all’attualità hanno completamente scalzato quelle di intrattenimento: basti ricordare che il già menzionato reality “Sposiamoci!” è stato relegato ad orari notturni, per non parlare del fatto che le nuove puntate di “Urgant della sera” sono state “temporaneamente” (così si dice) interrotte. In realtà lo showman Ivan Urgant (il “Gianni Urganti” che anche gli italiani hanno potuto apprezzare in “Ciao 2020”) non si è voluto pronunciare a favore della cosiddetta “operazione speciale”, anzi ha assunto una posizione pacifista e, come molti suoi colleghi, ha lasciato la Russia. Insomma, gli affezionati di “Rossija 1” o di NTV, salvo rare eccezioni, al momento si ritrovano davanti a programmi dedicati quasi esclusivamente alla guerra in corso, in cui però, paradossalmente, non si parla di guerra.
Si parla infatti di “operazione speciale”, di missione di salvataggio della popolazione russofona del Donbas dal “genocidio” perpetrato dalle forze armate ucraine e, per traslato, dalla NATO negli ultimi otto anni, di prevenzione improrogabile di un attacco contro la Russia in procinto di essere sferrato da Ovest, di ciniche fake news diffuse dai media ucraini ed occidentali circa i crimini commessi dall’esercito russo; e poi dell’ostilità dell’Occidente nei confronti della Russia, dell’invidia di europei e americani per le ricchezze incommensurabili della Siberia, ma anche per la “spiritualità” russa, per quei valori di cui ormai un’Europa disgregata e decadente sarebbe completamente priva; e così via, su questa falsariga.
Il risultato è la creazione di una comfort zone ovattata e rassicurante, in cui il telespettatore russo residente in Russia (ma in realtà un approccio molto simile è adottato anche da buona parte delle comunità russofone e filorusse residenti nei paesi Baltici o in Germania) può convincersi che la vita continua normalmente, sentirsi nel giusto, essere orgoglioso del proprio Paese e di se stesso, eventualmente stemperare nelle glorie patrie il grigiore di una vita in periferia, tra pensioni di poche centinaia di euro e case senza acqua calda. E poi, una volta spento il televisore, dormire sonni tranquilli: d’altronde, come sostengono gli speaker dei notiziari, “l’operazione sta procedendo secondo i piani”.
Un documentario davvero penetrante uscito proprio in questi giorni, “Legami che si spezzano” (“Razryv svjazej”, di Andrej Lošak), mostra con lucidità l’atteggiamento serafico di chi è in pace con se stesso persino (anzi, soprattutto) in queste settimane angoscianti per il mondo intero: la voce dei propagandisti televisivi ha fatto miracoli paragonabili a quelli dei predicatori delle sette religiose, risvegliando sentimenti di profonda solidarietà con Putin e fiducia nel Cremlino anche tra chi negli ultimi anni, poniamo, si era lamentato per l’aumento dell’età pensionabile, la corruzione dei funzionari o le misure anti-Covid.
Non a caso, alcuni psicologi russi hanno già fatto dei paralleli tra i meccanismi di autosuggestione tipici degli adepti di varie sette e la cieca fede nella televisione e nei vertici del Cremlino presso ampie fasce della popolazione russa.
Nemmeno la rabbia e le lacrime di figli, sorelle, mogli che invece si rendono conto della tragicità di quanto sta accadendo (i “legami spezzati” del titolo del documentario sono per l’appunto quelli famigliari, recisi da una guerra che ha scatenato veri e propri conflitti intestini anche in tante famiglie russe) possono convincere chi crede alla propaganda ad uscire anche solo un attimo dall’accogliente “mondo russo” allestito in salotto.
Chi si chiedesse ancora come sia possibile che una parte consistente dei cittadini russi appoggi schiettamente, quasi candidamente, l’invasione dell’Ucraina, potrebbe trovare qui una delle risposte alla sua domanda. Forse, come diceva il mio amico, per provare a capire la Russia contemporanea in tutta la sua complessità bisognava davvero guardare più spesso la tv.
PS. Ovviamente, la propaganda ufficiale del Cremlino applica la sua strategia innanzitutto al vecchio tubo catodico, ma non disdegna altri mezzi di informazione meno obsoleti, come il social network russo Vkontakte o i canali Telegram e Youtube, spesso avvalendosi del supporto di influencer, troll e diffusori di fake news (o smascheratori di presunte fake news). Internet viene sfruttato, in particolare, per fare leva su teorie del complotto particolarmente care alla popolazione russa (e non solo) durante la pandemia di Covid-19 e agevolmente convertibili e adattabili al nuovo contesto bellico.
Le teorie del complotto, differentemente dalla televisione, sono supportate e diffuse anche dai giovani e contribuiscono a creare una nebulosa atmosfera di incertezza all’insegna del mantra della post-verità “Vsë ne tak odnoznačno” (“Non è tutto così inequivocabile”). Ma questa è una storia a parte, che eventualmente avremo modo di approfondire in un’altra occasione.
(da Huffingtonpost)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
NESSUNA DROGA LIBERA, SONO LE BUFALE MESSE IN GIRO DAI SOVRANISTI… LA DROGA LIBERA E’ QUELLA CHE CIRCOLA GIA’ (I SOVRANISTI CHIEDANO IN MERITO A LUCA MORISI)
Si è avviata nell’Aula della Camera la discussione generale sulla proposta
di legge sulla Cannabis. Ad aprire il dibattito è stato il presidente della commissione Giustizia e relatore del provvedimento, Mario Perantoni (M5s). Il ddl è sostenuto dal centrosinistra e da M5s, mentre Lega, FdI e Forza Italia sono contrari.
“L’inizio dell’esame in Aula della legge che depenalizzazione la coltivazione domestica di quattro piante di cannabis segna una giornata storica per il nostro Paese, ancorato a vecchie e fallimentari politiche antidroga di stampo repressivo”, ha detto Mario Perantoni. “Attualmente su una popolazione carceraria di 54.184 persone ben 18.884 sono detenuti per violazione della legge sulla droga, di cui 1/3 tossicodipendente: cifre enormi che certificano il fallimento della repressione – ha aggiunto – La legge consentirà di risparmiare 600 milioni l’anno di spese per processi inutili ma soprattutto renderà possibile un vasto uso terapeutico e toglierà spazio allo spaccio: un obiettivo importante conseguito senza ledere in alcun modo la salute pubblica. Proibire la coltivazione e l’uso personale di una piccola quantità di cannabis è fuori dalla storia, retaggio di una cultura vecchia e superata: avremmo voluto che oggi fosse qui ad ascoltarci Walter Di Benedetto che tanto si è battuto, a lui il nostro pensiero affettuoso e grato”.
Favorevole al provvedimento anche il deputato dem Walter Verini: “Noi pensiamo che il Parlamento, oggi, cerchi di sintonizzarsi con la realtà e provi a dare risposte serie a problemi che da anni le attendono. In parte queste risposte le ha fornite la corte di Cassazione, con sentenze innovative. Ma è giusto e necessario che sia il Parlamento a offrirne di più organiche”.
Per l’esponente del Partito Democratico “con questo testo non si liberalizzano le droghe, non si sdogana la cultura dello sballo. Al contrario, viene anche istituita, su proposta del gruppo Pd, una giornata di informazione e prevenzione su ogni tipo di dipendenza da contrastare: siano sostanze psicotrope, alcolismo, tabagismo. Queste piaghe, queste dipendenze, le vogliamo prevenire e contrastare. Su questo occorre un grande sforzo di formazione e informazione indirizzato soprattutto verso i giovani, coinvolgendo scuola, mezzi di comunicazione, famiglie. Senza però inefficaci proibizionismi, perbenismi, ma puntando su responsabilità, consapevolezza, dialogo”.
Verini ha chiarito che “con questa proposta non si liberalizza proprio niente. Al contrario, si rende legale la coltivazione per uso personale o terapeutico fino a quattro piantine di Cannabis senza correre il rischio di subire conseguenze penali, sequestri o sanzioni amministrative”.
Cosa prevede la proposta di legge sulla cannabis
Il testo ha subito alcune modifiche durante l’iter in commissione. Il disegno di legge, che interviene con una serie di modifiche al Testo unico sugli stupefacenti, prevede la legalizzazione della coltivazione e detenzione, da parte di maggiorenni e per uso personale, di massimo quattro piante femmine di cannabis.
Oltre il limite di quattro l’utilizzo potrà essere considerato personale e sanzionato sul solo piano amministrativo quando la coltivazione domestica di cannabis ha queste caratteristiche: minima dimensione; rudimentalità delle tecniche utilizzate; scarso numero di piante, anche se superiore a 4; assenza di indici di inserimento nel mercato degli stupefacenti.
Inoltre, si prevede la promozione, all’inizio di ogni anno scolastico, nelle scuole di primo e secondo grado, di una giornata nazionale sui danni derivanti da alcolismo, tabagismo e uso delle sostanze stupefacenti e psicotrope.
È considerato poi illecito amministrativo l’abbandono, in un luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero in un luogo privato di comune o altrui uso, di siringhe o di altri strumenti pericolosi utilizzati per l’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, tale da mettere a rischio l’incolumità altrui.
Tra le altre novità anche l’inasprimento di alcune pene e, allo stesso tempo, se ne depotenziano altre.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dalla legge che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa fino a 10.000 euro, quando la detenzione e il traffico riguardano droghe pesanti; reclusione da 2 mesi a 2 anni e multa fino a 2.000 euro, quando la detenzione e il traffico riguardano droghe leggere.
(da Fanpage
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
I DISTINGUO PER UN CONFLITTO CHE SI PROLUNGA…L’ESAME DELLA SITUAZIONE ARMAMENTI DOVE L’UCRAINA STA DIVENTANDO COMPETITIVA
“Dovrebbero sapere che, tutto sommato, in Ucraina non abbiamo ancora cominciato a fare la guerra sul serio”. Queste sono le minacciose parole espresse dal presidente russo Vladimir Putin giovedì 7 luglio, durante un incontro con i deputati della Duma di Stato russa, poco dopo la vittoria russa nella regione di Luhansk ottenuta a duro prezzo dopo ben oltre 120 giorni di combattimento.
Putin ha ribadito nel suo discorso ai deputati la linea ufficiale di Mosca: la Federazione Russa non si è impegnata in un vero e proprio conflitto militare, ma solo in una “operazione militare speciale” con obiettivi limitati.
Questo significa che, se volesse fare sul serio, per l’Ucraina (e sottinteso, per l’Occidente) non ci sarebbero chance di resistere alla potenza militare russa.
È davvero così? Non proprio.
L’Intelligence militare britannica, nel rapporto pubblicato su Twitter sabato 9 luglio 2022 dal Ministero della Difesa di Londra, afferma che la Russia sta già mobilitando buona parte delle riserve che ha a disposizione per inviarle in Ucraina. Ma aggiunge una informazione interessante: ad una larga porzione di queste nuove riserve è stato assegnato come veicolo corazzato di trasporto truppe il MT-LB.
Si tratta di una scelta molto significativa, in quanto, sebbene MT-LB sia stato usato in questo modo anche in passato, non rappresenta di sicuro la scelta ottimale per questo tipo di utilizzi: difatti ha una armatura molto leggera, monta una sola mitragliatrice di protezione ed è stato creato inizialmente negli Anni 50 come veicolo di trascino dell’artiglieria.
Quando è iniziata la guerra a febbraio la maggior parte delle unità d’assalto russe di prima linea erano state equipaggiate piuttosto con veicoli da combattimento per la fanteria BMP-2, dotati di una corazza spessa fino a 33 mm e di un potente cannone da 30 mm e di un lanciamissili anticarro.
Il fatto che ora Mosca sia costretta ad usare veicoli meno adatti al trasporto truppe è chiaramente indicativo della difficoltà di reperire equipaggiamento moderno per le proprie truppe.
“Nonostante, quindi, Putin abbia dichiarato che l’esercito russo ‘non ha nemmeno iniziato’ il suo impegno militare in Ucraina, molti dei suoi rinforzi sono… equipaggiati con veicoli obsoleti o inadeguati”, commenta perciò l’Intelligence militare britannica.
Ma non è solo la scarsezza di mezzi adeguati il problema. Per compensare la carenza di ‘carne da cannone’, il Cremlino si sta, infatti, affidando a una combinazione di soldati che comprende minoranze etniche impoverite, ucraini mobilitati con la forza provenienti dai territori separatisti, mercenari e unità militarizzate della Guardia Nazionale, e promette forti incentivi in denaro per i volontari – che però di recente rappresentano un numero sempre più grande di deceduti.
Poiché, nonostante tutti gli incentivi di arruolamento, i volontari scarseggiano, le autorità russe si sono ora trovate costrette ad arruolare anche detenuti che hanno avuto esperienza militare (in cambio della propria libertà) pur di avere a disposizione nuovi soldati da mandare in prima in Ucraina.
Tutto questo avviene mentre aumenta drammaticamente il numero delle vittime: l’Intelligence militare britannica ha recentemente stimato il numero di morti russi in 25.000, a cui vanno sommate altre decine di migliaia di feriti, su una forza d’invasione composta da totali 300.000 persone, comprese le unità di supporto.
Tuttavia, nonostante le difficoltà, Putin si oppone ostinatamente all’unica soluzione che secondo molti esperti potrebbe risolvere alla base il problema: la mobilitazione generale.
Evitarla permette infatti al Cremlino di mantenere la finzione che la guerra sia una limitata “operazione militare speciale”, minimizzando al contempo il rischio del tipo di contraccolpo all’interno nell’opinione pubblica russa che ha stimolato precedenti débâcle militari russe, come in Afghanistan a fine Anni Ottanta e nella prima guerra cecena a metà Anni Novanta.
D’altro canto, però, in questo modo le Forze Armate russe si trovano costrette a combattere in una situazione sempre più di svantaggio numerico nei confronti della propria controparte ucraina che invece ha dichiarato la mobilitazione generale lo stesso giorno dell’invasione russa e può contare a tendere su una forza potenziale di 900 mila soldati.
A peggiorare le cose per i russi c’è il fatto che migliaia di nuove reclute ucraine stanno iniziando proprio in questi giorni il proprio addestramento alla battaglia in prima linea in Gran Bretagna. Questo permetterà a breve agli ucraini di poter fare affidamento su forze fresche e ben preparate in sostituzione di quelle che vengono perse ogni giorno in guerra.
Le perdite di mezzi militari russi in combattimento
In questo contesto vanno letti i dati aggiornati del progetto Oryx sulle perdite confermate di equipaggiamento militare russo in combattimento in Ucraina che lasciano ben poco spazio all’immaginazione: ad oggi 4.664 veicoli militari russi sono stati distrutti o catturati, tra cui in particolare 860 carri armati, 481 veicoli corazzati da combattimento, 944 veicoli corazzati di trasporto truppe.
Il principale carro armato usato dai russi in Ucraina è il T-72. La Russia utilizza anche un piccolo numero di T-80 e un numero ancora minore di più moderni carri armati T-90.
Questa la lista aggiornata dei carri armati russi distrutti o catturati secondo i dati del progetto Oryx:
1 T-62
28 T-64
479 T-72
158 T-80
22 T-90
173 modello non identificato
Ciò significa che oltre il 50% delle perdite di carri armati russi in combattimento in Ucraina riguarda proprio il modello T-72, la cui produzione è iniziata nel 1971.
Sebbene siano stati apportati vari miglioramenti, la realtà è che la maggior parte dei carri armati T-72 che la Russia sta utilizzando in Ucraina sono stati prodotti negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo, ovvero che loro età media è superiore ai 40 anni.
Secondo qualsiasi valutazione moderna, i carri armati russi schierati sul campo di battaglia ucraino sono, perciò, vecchi ed obsoleti. Nonostante l’uso di corazze reattive, questi carri armati sono fortemente vulnerabili alle armi anticarro trasportabili a spalla, come il Javelin, e soprattutto ai bombardamenti dall’alto con i micidiali droni Bayraktar TB-2 di fabbricazione turca, il che spiega l’alto numero di perdite riportato.
Come afferma Stephen Bryen in un suo articolo pubblicato su Asia Times: “sebbene la Russia possa ancora prevalere in Ucraina, l’uso di equipaggiamenti obsoleti che hanno preso polvere nei depositi militari dai tempi dell’Unione Sovietica non è una ricetta per la vittoria… La Russia è sul punto di perdere il suo deterrente convenzionale sul fronte europeo, con o senza la vittoria dell’Ucraina. E questo ha enormi implicazioni strategiche per il futuro”.
La “pausa operativa” russa
Altro segnale delle difficoltà russe è il fatto che subito dopo la conquista di Severodonetsk e Lysychansk nella regione di Luhansk, il comando militare russo ha annunciato una “pausa operativa”, riconoscendo nei fatti la necessità di uno stop temporaneo all’offensiva militare, visto lo stato delle forze russe a questo punto della campagna militare.
Le unità russe che hanno completato la conquista delle due città hanno infatti bisogno di rigenerare la potenza di combattimento e di ottenere i necessari rifornimenti, prima di lanciarsi in una nuova sanguinosa offensiva su larga scala nella vicina regione di Donetsk.§
L’ex comandante militare russo Igor Girkin, un fervente nazionalista che sostiene apertamente la necessità da parte russa di proclamare la mobilitazione generale per vincere la guerra e che ha comandato a sua volta i militanti durante la prima guerra del 2014 nel Donbass, ha pubblicato sul suo canale Telegram una severa critica alla gestione della guerra da parte del Cremlino, nel corso della quale ha messo in dubbio il significato della presa di Lysychansk.
Girkin ha detto in particolare che le forze russe hanno pagato un prezzo troppo alto per un guadagno così limitato. Egli ha osservato che la difesa ucraina di Lysychansk è stata deliberatamente progettata per infliggere il massimo danno possibile alle truppe ed alle attrezzature militari russe, ed ha suggerito che accettare la battaglia alle condizioni degli ucraini è stato un passo falso significativo da parte della leadership russa.
Girkin ha inoltre ammesso che le forze russe hanno prospettive limitate di avanzamento in altre parti dell’Ucraina a causa della superiorità ucraina in termini di personale e di equipaggiamento.
Il ruolo delle armi occidentali
A tal proposito, mentre i russi sono impegnati in questa “pausa operativa”, le Forze Armate ucraine stanno prendendo di mira continuamente le infrastrutture militari russe ed in particolare i depositi di munizioni in profondità nel territorio nemico, grazie all’uso dei sistemi di lancio multiplo di razzi HIMARS forniti dagli Stati Uniti dotati di munizioni ad alta precisione a guida satellitare GPS con gittata fino a 80km.
Le Forze Armate ucraine hanno in particolare distrutto i depositi di munizioni russi a Dibrivne, nella regione di Kharkiv, il 4 luglio e a Snizhne, nella regione di Donetsk, a circa 75 km dalle linee del fronte nella notte tra il 3 e il 4 luglio, dopo aver colpito in precedenza uno dei quattro depositi di munizioni russi a Melitopol il 3 luglio.
Nella sola notte tra l’8 ed il 9 luglio, le Forze Armate ucraine hanno distrutto altri 3 depositi di munizioni, rispettivamente a Khartsyzsk nella regione di Donetsk, a Kadievka nella regione di Luhansk ed a Kherson nel sud dell’Ucraina, oltre ad un aeroporto, quello di Chernobaivka, che si trova sempre nella regione di Kherson.
Nella notte tra il 9 ed il 10 luglio sono stati colpiti altri depositi di munizioni ad Alchevsk, nella regione di Luhansk ed a Shakhtarsk nella regione di Donetsk, mentre durante la giornata del 10 luglio è stata colpita una base militare russa nella città occupata di Kherson.
Anche la città di Donetsk, capitale della Repubblica separatista che porta lo stesso nome, non è stata risparmiata: in particolare è stato distrutto negli scorsi giorni un importante deposito di munizioni russe che si trovava nelle vicinanze della stazione ferroviaria.
Secondo una stima pubblicata da BBC News Russian service, in soli 9 giorni gli ucraini sono riusciti a distruggere ben 14 obiettivi tra basi militari russe e depositi di munizioni in profondità nel territorio controllato dai russi in Ucraina. E tutto questo grazie a soli 8 sistemi HIMARS che sono a disposizione degli ucraini al momento – gli Stati Uniti hanno annunciato la scorsa settimana l’invio di altri 4 sistemi HIMARS e relative munizioni il cui arrivo è previsto nei prossimi giorni in Ucraina.
L’accresciuta capacità delle forze ucraine di colpire strutture militari russe di valore strategico con gli HIMARS forniti dall’Occidente dimostra in maniera inequivocabile in che modo gli aiuti militari occidentali forniscano all’Ucraina le nuove e capacità militari necessarie per far fronte all’offensiva russa.
“Sono grato agli Stati Uniti per la decisione di fornire ulteriori unità di lancio HIMARS e altre armi che ci permettono di adottare misure precise e di ridurre le capacità di attacco russe. Faremo di tutto per spezzare il potenziale terroristico degli occupanti”, ha commentato il presidente ucraino Zelensky il 9 luglio.
Anche il suo Ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, ha ammesso che l’arrivo degli HIMARS ha cambiato la situazione al fronte, ma ha aggiunto che l’Ucraina ha bisogno della fornitura di munizioni con gittata fino a 150km per poter colpire ancora più in profondità obiettivi dietro le linee russe.
Da parte russa, ancora una volta a criticare la strategia del comando russo è Girkin, che, commentando le distruzioni causate dagli HIMARS, ha dichiarato che il personale del dipartimento logistico del Ministero della Difesa russo dovrebbe essere processato per non aver camuffato a sufficienza e disperso sul territorio i depositi di munizioni, rendendoli così facile preda degli attacchi ucraini.
Anche il milblogger russo Starshe Eddy e l’ufficiale delle Forze Armate russe Aleksey Suronkin hanno espresso preoccupazioni simili sull’efficacia degli HIMARS, invitando l’esercito russo ad adattarsi alle nuove minacce e a colpire le forze ucraine prima che il massiccio utilizzo di queste nuove armi possa mettere a serio repentaglio la capacità di rifornimento di armi delle forze russe impegnate al fronte.
È quindi sempre più evidente che il sostegno militare occidentale a Kyiv sia decisivo per le sorti di questa guerra. Ma allo stesso tempo rischia di diventare il vero tallone di Achille per Kyiv.
Gli esperti del Kiel Institute for the World Economy (IfW) hanno infatti reso noto che nelle ultime settimane le forniture di armi occidentali all’Ucraina stanno diminuendo. Dall’8 giugno al 1° luglio non vi è stato alcun aumento negli impegni di fornitura di armi, mentre le consegne effettive si sono ridotte rispetto ai mesi precedenti.
In prima linea nell’aiuto a Kyiv resta la Polonia che ha già consegnato il 100% delle armi promesse all’Ucraina, per un controvalore di 1,8 miliardi di euro. Tra i Paesi europei, molto indietro è soprattutto la Germania, che ha promesso all’Ucraina armi per un controvalore di 675 milioni di euro, ma finora ne ha consegnate solo per un controvalore di 269 milioni di euro, vale a dire il 39,9%.
Malumori americani
Ma alcuni segnali di malumore arrivano anche dall’alleato principale, gli Stati Uniti d’America, che finora restano nettamente in prima posizione per gli aiuti a Kyiv, avendo stanziato aiuti militari per ben 7,3 miliardi di dollari di controvalore in armi all’Ucraina, incluso l’ultimo pacchetto di 400 milioni di dollari annunciati la scorsa settimana
“La verità è che Biden ha promesso di sostenere l’Ucraina ‘per tutto il tempo necessario’, ma né lui né nessun altro può dire quanto durerà questa guerra”, afferma il Seattle Times in un articolo pubblicato di recente.
“Ad un certo punto, le scorte di armi negli USA e in Europa si esauriranno. Nonostante gli USA abbiano autorizzato 54 miliardi di dollari in aiuti militari e di altro genere, nessuno si aspetta un altro impegno per pari importo quando finirà questo pacchetto di aiuti”.
Per questo motivo, affermano gli interlocutori del quotidiano, sarà difficile mantenere lo stesso livello di aiuti all’Ucraina, se la guerra dovesse prolungarsi ancora per molto tempo.
“Finché manterremo la rotta, anche i nostri alleati europei ci seguiranno”, afferma il senatore democratico Chris Coons, uno dei principali alleati al Congresso del presidente americano Joe Biden. “Ma la guerra è ben lungi dall’essere conclusa” ed i rischi aumentano ogni giorno.
Il quotidiano di Seattle aggiunge che sono sempre di più coloro che, anche alla Casa Bianca, esprimono privatamente dubbi sulla capacità di Kyiv di poter concludere (a suo vantaggio) la guerra entro fine anno, come più volte augurato pubblicamente dal presidente Zelensky.
“È quindi sempre più evidente che i prossimi sei mesi saranno critici. E che dopo la scadenza di questo periodo, una o entrambe le parti saranno troppo stanche e cercheranno una via d’uscita”.
Tutti insieme, si tratta di chiari segnali del fatto che la stanchezza in Occidente per una guerra di cui si sente parlare sempre di meno sui mezzi di informazione, è sempre più evidente. Ma è questa la vera minaccia per l’Ucraina (e l’Occidente), ben più concreta delle vuote parole di Putin.
Nel caso di una vittoria russa in Ucraina dovuta alla fine del supporto occidentale, nulla fermerebbe più le provocazioni di Putin verso l’Alleanza Atlantica, avendo dalla sua la certezza che i Paesi occidentali non avrebbero il coraggio di rispondere alle sue azioni per paura delle conseguenze, economiche e militari.
Come dimostra la storia, esprimere debolezza di fronte a leader autoritari ed aggressivi, porta sempre a pessimi risultati: basti ricordare che il risultato dell’arrendevolezza occidentale alla Conferenza di Monaco del 1938 è stato l’inizio della Seconda guerra mondiale l’anno seguente.
Sebbene il rischio di una conflagrazione europea non sia imminente – anche perché come abbiamo visto l’esercito russo non è nelle condizioni al momento di effettuare una guerra su larga scala – quanto avvenuto allora è un insegnamento che non bisogna mai dimenticare.
Occorre poi inoltre tenere in considerazione un’altra conseguenza, ben più immediata, di una potenziale vittoria russa in Ucraina: nelle zone ad oggi occupate, i russi hanno già messo in funzione una serie di “campi di filtrazione”.
I racconti provenienti da coloro che sono passati da questi campi parlano di persone torturate, detenute in condizioni orribili e costrette a dichiarazioni false pur di essere rilasciati. Molti sono poi stati “deportati” (con la forza, secondo le autorità ucraine) in luoghi sperduti della enorme periferia russa in scene che ricordano sinistramente le deportazioni dell’era staliniana. Altri sono riusciti a scappare via e raccontare la loro odissea.
Possiamo perciò solo vagamente immaginare cosa potrebbe accadere nel caso in cui la Russia fosse in grado di replicare su larga scala la stessa procedura anche nel resto dell’Ucraina, dopo averla occupata: la peggiore crisi umanitaria su territorio europeo, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.
Sui campi di battaglia in Ucraina è in gioco il futuro stesso dell’Europa come la conosciamo. Una eventuale vittoria russa rappresenterebbe una minaccia esistenziale sia alla sicurezza che all’esistenza stessa delle democrazie occidentali, oltre a fornire a Putin i mezzi per attuare fino in fondo il suo obiettivo dichiarato: il genocidio del popolo e della nazione ucraina.
(da Fanpage)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
ECCO COME PUTIN STA CERCANDO DI ANNETTERE CULTURALMENTE IL DONBASS: AI CITTADINI PIÙ POVERI DELLA RUSSIA VIENE OFFERTA LA POSSIBILITÀ DI LAVORARE IN UCRAINA ORIENTALE CON UNA SERIE DI BENEFIT
Nel futuro del Donbass ci sono i gemellaggi. Le principali città dell’Ucraina
orientale dovranno essere ricostruite e per farlo serviranno rubli russi. Miliardi di rubli.
Così in Russia sono già stati avviati programmi di gemellaggi tra le grandi città russe e realtà devastate come Mariupol (gemellata con San Pietroburgo) dove il mese scorso le Nazioni Unite hanno stimato che i combattimenti abbiano danneggiato il 90% degli edifici della città.
Nel teatro bombardato a marzo, ad esempio, il sindaco della città natale di Vladimir Putin ha provveduto a consegnare tablet ai bambini e a promettere il finanziamento della ricostruzione di case, scuole e asili grazie all’ausilio di intere squadre di imprese edili.
Effettivamente, le autorità russe hanno lanciato in patria una campagna di reclutamento di lavoratori essenziali per la ricostruzione dei territori occupati, che i russi definiscono «liberati».
Al momento, ai cittadini più poveri e patriottici della Russia viene offerta la possibilità di lavorare in Ucraina orientale con stipendi superiori alla media oltre a una serie di benefit.
PAGA TRIPLICATA
Gli annunci online per muratori, meccanici, imbianchini e saldatori si sprecano. Ai lavoratori di regioni periferiche vengono offerti stipendi iniziali due o tre volte superiori alle medie regionali oltre a vitto, alloggio, ferie pagate, opportunità di «crescita professionale» e persino un bonus di 60 dollari in contanti per la segnalazione di un amico fidato. Gli annunci sono pubblicati da appaltatori privati ma il progetto è sponsorizzato dal Ministero delle costruzioni russo e gli annunci sono accompagnati da slogan motivazionali come: «Ricostruiamo insieme il Donbass».
Il centro nevralgico di questo programma è il gemellaggio con le città russe. In totale, più di 40 regioni della Federazione hanno annunciato di voler assumere il patrocinio delle aree dell’Ucraina orientale.
L’idea del programma è quella di sfruttare l’attuale spinta emotiva dei russi che vogliono aiutare gli ucraini «liberati» e allo stesso tempo provare a creare nel lungo periodo un “paradiso” di stile di vita da contrapporre a coloro che restano dall’altra parte del fronte, così da ingolosirli come accadde, a parti inverse, ai cittadini della Germania Est.
L’idea di gemellare città russe e ucraine pare sia stata concepita da Putin in persona ma è stata affidata al suo vice capo di gabinetto, Sergei Kiriyenko, che per il Cremlino supervisiona il territorio ucraino occupato. Al momento il programma è limitato al territorio ricompreso nelle regioni di Lugansk e Donetsk, anche se quest’ ultima non è stata ancora completamente conquistata.
Nonostante la lunga lista di città e regioni russe che annunceranno nuove affiliazioni, non si sa molto riguardo al budget che verrà impegnato esattamente, o da dove proverrà. Secondo alcuni media russi, il denaro sarà stanziato direttamente dai bilanci regionali, mentre altri sostengono che Mosca fornirà una compensazione.
MERCANTE IN FIERA
Fonti vicine al Ministero della Difesa sostengono che per evitare episodi di corruzione ai governatori delle regioni verrà affidata la gestione degli appalti di natura privata, visto che solo alcuni distretti delle singole amministrazioni pubbliche parteciperanno alla ricostruzione. Gli altri bandi saranno assegnati tramite gare di appalto che verranno filtrate in tre diverse occasioni: dalle autorità locali, da quelle federali e infine dagli Oblast del Donbass.
Il piano al momento biennale prevede che le regioni russe saranno chiamate ad investire più di 34 miliardi di dollari. I funzionari della Repubblica Popolare di Lugansk hanno stimato che la ricostruzione solo del loro territorio richiederà 26 miliardi.
Nel frattempo, la Russia sta provvedendo ad avviare anche programmi di “rieducazione” dei prigionieri di guerra ucraini, ai quali nelle strutture detentive viene assegnato lo studio di classici della letteratura russa, da Tolstoj a Dostoevskij, programmi di lingua e persino attività ricreative.
(da Libero)
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Luglio 11th, 2022 Riccardo Fucile
PENE TRA SEI ANNI E QUATTRO ANNI E MEZZO
A otto mesi all’assalto alla sede della Cgil, sono arrivate le prime sei condanne a Roma.
Le violenze avvennero a margine di una manifestazione contro il Green Pass. Il giudice per l’udienza preliminare, al termine di un processo svolto con rito abbreviato, ha inflitto condanne tra i 6 anni e 4 anni e mezzo.
In particolare sei anni sono stati inflitti Fabio Corradetti, figlio della compagna del leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, e Massimiliano Urisno, leader palermitano di Fn. Accolto l’impianto accusatorio del pm Gianfederica Dito che contesta i reati di devastazione e resistenza a pubblico ufficiale aggravata.
Davanti al tribunale ordinario intanto prosegue il processo in rito ordinario che vede imputati tra gli altri i leader di Forza Nuova, Giuliano Castellino e Roberto Fiore e l’ex Nar Luigi Aronica: questi, oltre a devastazione aggravata in concorso e resistenza, sono accusati anche di istigazione a delinquere.
(da agenzie)
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