UNA COMFORT ZONE OVATTATA E RASSICURANTE
LA TV DI STATO RUSSA PRIMA E DOPO LA GUERRA… AUMENTATO IL BUDGET DEL GOVERNO AI MEDIA STATALI PER RACCONTARE BALLE
“Forse, per capire dove ci stavamo spingendo, avremmo dovuto guardare più spesso la tv”, mi scrive sgomento un amico e collega, giovane docente universitario russo, due giorni dopo il 24 febbraio.
Perché lui preferisce canali privati e progressisti come “Dožd’” (conosciuto in Europa come TvRain, che ha chiuso forzatamente i battenti pochi giorni dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina) e la televisione di Stato russa non l’ha mai seguita in vita sua, snobbandola e sminuendone erroneamente il potere manipolatorio.
“Puoi vedere la televisione russa in Italia? Se puoi, guardala, lì ti spiegano le cose come stanno. Così capirai anche tu che non c’è niente di cui preoccuparsi”, mi dice invece tutta tranquilla e sicura, sempre due giorni dopo il 24 febbraio, un’affabile signora russa a cui impartisco lezioni di italiano e che inaspettatamente si rivela una sostenitrice della “operazione speciale”, al di là della sua laurea in storia dell’arte e della sua profonda conoscenza del barocco romano.
La fruizione dei canali televisivi filogovernativi rappresenta un indicatore piuttosto chiaro della spaccatura, innanzitutto generazionale, in seno alla società russa: i nipoti, i figli, chi è nato a ridosso della dissoluzione dell’Unione Sovietica o dopo di essa, da un lato; i genitori, gli zii, i nonni e chi è cresciuto e si è formato nel contesto pre-1991 dall’altro (il secondo gruppo, peraltro, è più numeroso del primo: secondo dati demografici del 1 gennaio 2019, in Russia risiedono 61,5 milioni di cittadini sopra i 45 anni contro 59,3 milioni tra i 15 e i 44 anni).
Anche il livello di istruzione e l’area di residenza (grande città vs. provincia) giocano ovviamente un ruolo se parliamo di share, ma la sensazione generale è quella di ritrovarsi davanti a una nuova declinazione della dicotomia tra “padri e figli” tanto cara al canone letterario russo.
La televisione è infatti ora “il Male assoluto”, ora la “scatola zombizzante”, ora “puro trash” per i secondi, ma una voce autorevole per i primi, che anche in una congiuntura storica in cui l’informazione passa prima di tutto attraverso i social e le varie piattaforme, continuano a riportare le notizie sui fatti di attualità iniziando dalla frase: “Ieri in televisione hanno detto che…”.
Nelle ultime settimane le figure di maggior spicco della televisione di Stato russa (conduttori e moderatori come Vladimir Solov’ëv, Dmitrij Kiselëv, Margarita Simonyan) hanno definitivamente conquistato la ribalta mondiale, ritagliandosi anche degli spazi non indifferenti come ospiti nei talk show italiani, ma in patria erano delle celebrità già da anni, e da anni si esprimevano con toni non molto diversi da quelli attuali: come già detto in questa sede a proposito dell’ideologia “militarpatriottica”, il conflitto su larga scala in Ucraina non ha fatto altro che acuire coerentemente delle tendenze già in corso.
Se n’era ben accorto, solo per fare un esempio particolarmente calzante, il regista Andrej Zvjagincev quando, in coda a quella sintesi della vita russa contemporanea (a livello sia microscopico che macroscopico) che è il suo lungometraggio “Loveless” (2017), aveva piazzato salotti con televisioni costantemente sintonizzate su “Rossija 1” e, sugli schermi, reportage scioccanti e faziosi in merito agli scontri nel Donbass del 2014/2015, commentati dall’immancabile Dmitrij Kiselëv.
Certo, canali come “Rossija 1”, “Pervyj Kanal”, RT o NTV prima della guerra non si distinguevano particolarmente da analoghe reti televisive (sia pubbliche che private) nel resto del mondo, offrendo l’usuale gamma di trasmissioni di dubbia qualità, basate in larga parte su canovacci predisposti in anticipo, tra dibattiti pruriginosi su fatti di cronaca e melodrammi familiari (per esempio in “Pust’ govorjat!’”, “Che parlino pure!”), reality show con l’obiettivo finale di formare la coppia perfetta (come il popolarissimo “Davaj poženimsja!”, “Sposiamoci!”), talent show nei format internazionali (“The Voice”), o programmi consacrati alla vita sana per un pubblico essenzialmente femminile (come “O samom glavnom”, “Ciò che è più importante”).
C’erano poi varietà con siparietti comici e special guest, come l’amatissimo “Večernyj Urgant” (“Urgant della sera”, ricalcato sul modello americano alla David Letterman), che lo scorso Capodanno ha conquistato anche il pubblico italiano con la sua magistrale stilizzazione degli anni ’80 sanremesi (autentico feticcio del russo medio) nello show “Ciao 2020” (poi replicato in “Ciao 2021”).
E poi, ovviamente, c’erano lunghi telegiornali e programmi a tema politico ed economico condotti da opinionisti come quelli già citati, ma anche dal regista Nikita Michalkov (si pensi al suo “Besogon”, ovvero “L’esorcista”, rubrica all’insegna del messianesimo russo ortodosso), dal senatore Aleksej Puchkov (molto seguito il suo “Postscriptum”) e tanti altri, caratterizzati da un patriottismo sempre più aggressivo, da uno scetticismo particolarmente spiccato nei confronti dell’Occidente e, a partire dalla Rivoluzione della Dignità (più conosciuta in Europa come Euromajdan) del 2013, da una rappresentazione unilaterale e parziale, quando non inscenata ad hoc, della complessa situazione di crisi in Ucraina (tristemente noto il caso del “bambino crocifisso” dai “neonazisti” in Donbas nel 2014).
Dopo il 24 febbraio 2022, il palinsesto dei principali canali di Stato russi ha subìto una netta virata imposta dall’alto, da tutti i punti di vista. In primo luogo è sensibilmente aumentato il budget riservato dal governo ai media statali; in secondo luogo, le trasmissioni dedicate all’attualità hanno completamente scalzato quelle di intrattenimento: basti ricordare che il già menzionato reality “Sposiamoci!” è stato relegato ad orari notturni, per non parlare del fatto che le nuove puntate di “Urgant della sera” sono state “temporaneamente” (così si dice) interrotte. In realtà lo showman Ivan Urgant (il “Gianni Urganti” che anche gli italiani hanno potuto apprezzare in “Ciao 2020”) non si è voluto pronunciare a favore della cosiddetta “operazione speciale”, anzi ha assunto una posizione pacifista e, come molti suoi colleghi, ha lasciato la Russia. Insomma, gli affezionati di “Rossija 1” o di NTV, salvo rare eccezioni, al momento si ritrovano davanti a programmi dedicati quasi esclusivamente alla guerra in corso, in cui però, paradossalmente, non si parla di guerra.
Si parla infatti di “operazione speciale”, di missione di salvataggio della popolazione russofona del Donbas dal “genocidio” perpetrato dalle forze armate ucraine e, per traslato, dalla NATO negli ultimi otto anni, di prevenzione improrogabile di un attacco contro la Russia in procinto di essere sferrato da Ovest, di ciniche fake news diffuse dai media ucraini ed occidentali circa i crimini commessi dall’esercito russo; e poi dell’ostilità dell’Occidente nei confronti della Russia, dell’invidia di europei e americani per le ricchezze incommensurabili della Siberia, ma anche per la “spiritualità” russa, per quei valori di cui ormai un’Europa disgregata e decadente sarebbe completamente priva; e così via, su questa falsariga.
Il risultato è la creazione di una comfort zone ovattata e rassicurante, in cui il telespettatore russo residente in Russia (ma in realtà un approccio molto simile è adottato anche da buona parte delle comunità russofone e filorusse residenti nei paesi Baltici o in Germania) può convincersi che la vita continua normalmente, sentirsi nel giusto, essere orgoglioso del proprio Paese e di se stesso, eventualmente stemperare nelle glorie patrie il grigiore di una vita in periferia, tra pensioni di poche centinaia di euro e case senza acqua calda. E poi, una volta spento il televisore, dormire sonni tranquilli: d’altronde, come sostengono gli speaker dei notiziari, “l’operazione sta procedendo secondo i piani”.
Un documentario davvero penetrante uscito proprio in questi giorni, “Legami che si spezzano” (“Razryv svjazej”, di Andrej Lošak), mostra con lucidità l’atteggiamento serafico di chi è in pace con se stesso persino (anzi, soprattutto) in queste settimane angoscianti per il mondo intero: la voce dei propagandisti televisivi ha fatto miracoli paragonabili a quelli dei predicatori delle sette religiose, risvegliando sentimenti di profonda solidarietà con Putin e fiducia nel Cremlino anche tra chi negli ultimi anni, poniamo, si era lamentato per l’aumento dell’età pensionabile, la corruzione dei funzionari o le misure anti-Covid.
Non a caso, alcuni psicologi russi hanno già fatto dei paralleli tra i meccanismi di autosuggestione tipici degli adepti di varie sette e la cieca fede nella televisione e nei vertici del Cremlino presso ampie fasce della popolazione russa.
Nemmeno la rabbia e le lacrime di figli, sorelle, mogli che invece si rendono conto della tragicità di quanto sta accadendo (i “legami spezzati” del titolo del documentario sono per l’appunto quelli famigliari, recisi da una guerra che ha scatenato veri e propri conflitti intestini anche in tante famiglie russe) possono convincere chi crede alla propaganda ad uscire anche solo un attimo dall’accogliente “mondo russo” allestito in salotto.
Chi si chiedesse ancora come sia possibile che una parte consistente dei cittadini russi appoggi schiettamente, quasi candidamente, l’invasione dell’Ucraina, potrebbe trovare qui una delle risposte alla sua domanda. Forse, come diceva il mio amico, per provare a capire la Russia contemporanea in tutta la sua complessità bisognava davvero guardare più spesso la tv.
PS. Ovviamente, la propaganda ufficiale del Cremlino applica la sua strategia innanzitutto al vecchio tubo catodico, ma non disdegna altri mezzi di informazione meno obsoleti, come il social network russo Vkontakte o i canali Telegram e Youtube, spesso avvalendosi del supporto di influencer, troll e diffusori di fake news (o smascheratori di presunte fake news). Internet viene sfruttato, in particolare, per fare leva su teorie del complotto particolarmente care alla popolazione russa (e non solo) durante la pandemia di Covid-19 e agevolmente convertibili e adattabili al nuovo contesto bellico.
Le teorie del complotto, differentemente dalla televisione, sono supportate e diffuse anche dai giovani e contribuiscono a creare una nebulosa atmosfera di incertezza all’insegna del mantra della post-verità “Vsë ne tak odnoznačno” (“Non è tutto così inequivocabile”). Ma questa è una storia a parte, che eventualmente avremo modo di approfondire in un’altra occasione.
(da Huffingtonpost)
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