Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
POI TRA QUALCHE MESE RIENTRA E TUTTO SARA’ COME PRIMA
La decisione verrà presa entro la giornata di mercoledì ma è sempre
più probabile che Giorgia Meloni chieda ai suoi la sospensione dal gruppo parlamentare di Fratelli di Italia del deputato vercellese Emanuele Pozzolo.
L’attesa serve da un lato ad avere tutti i dettagli su quanto è accaduto nella notte di Capodanno quando è stato ferito un parente di un agente della scorta del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove da un colpo partito dalla pistola di Pozzolo.
Ma si attende – e si è sollecitato- anche un passo indietro del diretto interessato, con l’autosospensione dal gruppo che caverebbe le castagne dal fuoco alla Meloni, che certamente dovrà dire qualcosa durante la conferenza stampa di inizio anno del 4 gennaio.
Le responsabilità del deputato di Fratelli di Italia
Non sembrano esserci dubbi sulle gravi responsabilità nella vicenda del deputato di Fratelli di Italia. Portare quella pistola per andare a fare gli auguri è un atto poco comprensibile anche agli occhi dei suoi colleghi di partito. Averla mostrata in pubblico come fosse un giocattolino è stata ulteriore leggerezza.
La cosa più grave – attendendo la magistratura sullo svolgimento dei fatti – è stata quella certa di non avere tenuto in sicurezza la piccola arma. Pozzolo l’ha infatti mostrata e forse passata (c’è anche l’ipotesi che nel gesto sia caduta in terra) senza che la sua micro pistola fosse messa in sicurezza, con il tamburo bloccato.
Le avvertenze dei produttori del revolver
I manuali che accompagnano la North american arms LR22 sono chiarissimi sul punto, con un’avvertenza evidenziata anche dalle foto: «L’arma può sparare se cade o se viene urtata con il cane appoggiato sul fondello di una cartuccia, o se il pollice scivola durante l’armamento o il disarmo del cane con il grilletto premuto. Non portate l’arma con il cane appoggiato su una cartuccia o in monta di sicurezza. In nessuna circostanza il cane deve essere posizionato in modo da appoggiare su una cartuccia carica».
Nelle istruzioni si spiega come bloccare la pistola, ruotando il tamburo. In quel caso anche cadendo non può partire il colpo accidentale. Ma evidentemente questo non è stato fatto da Pozzolo. Per quanto piccola quella pistola è un’arma di precisione, come si vede in numerosi filmati mentre spara al poligono. Ed è pericolosa come armi assai più grandi e apparentemente potenti.
Sul web si moltiplicano sfottò e sarcasmo
Nell’attesa delle decisioni della magistratura e di quelle politiche che arriveranno nelle prossime ore, su web e social si moltiplicano i meme su Pozzolo e sul sottosegretario Delmastro che suo malgrado è stato coinvolto – vittima- del grave episodio. Sono stati assaltati con commenti talvolta indignati, ma il più delle volte sarcastici, anche i social del deputato vercellese armato. Battute scontate come «Il pistola della destra», e altri giochi di parole, come «miravi davvero in alto».
(da Open)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
I FEDELISSIMI PARLANO DI UNA DUCETTA INCAZZATA NERA… A CASA DEL DEPUTATO, INDAGATO PER LESIONI AGGRAVATE, SONO STATE TROVATE ALTRE ARMI (PISTOLE E FUCILI)
Nel mirino adesso c’è lui. Per il quale è pronta una sospensione dal partito e quindi anche dal gruppo parlamentare. Giorgia Meloni sembra aver deciso a proposito di Emanuele Pozzolo, il deputato di Fratelli d’Italia, la cui pistola ha ferito la notte di Capodanno un parente di un agente di scorta del sottosegretario Andrea Delmastro
“Se c’è stata anche solo una leggerezza sarà punita”, dice al Foglio chi ha parlato in queste ore con la premier e leader di Fdi, a dir poco adirata da tutta questa storia.
La procura di Biella intanto ha ritirato il porto d’armi per difesa personale al deputato (concesso il 12 dicembre per motivi ancora non chiarissimi: si parla di presunte minacce dopo un convegno a favore della resistenza iraniana, per le quali gli era stata affidata anche una tutela delle forze dell’ordine nei pressi della sua abitazione).
Il deputato oltre al mini-revolver North American Arms Provo Ut, calibro 22, a casa aveva anche armi e fucili regolarmente registrati in prefettura.
La procura lo ha indagato come atto dovuto per lesioni aggravate. Le opposizioni chiedono un intervento chiaro di Meloni. Che potrebbe dare l’annuncio giovedì in conferenza stampa.
La leader ha anche un’altra possibilità: dire che è stato il deputato ad autosospendersi. Ma insomma poco cambierebbe. Il partito ribolle c’è anche chi ne vorrebbe le dimissioni da parlamentare.
“Era molto allegro e stava mostrando la pistola tenendola nel palmo della mano”, racconta un testimone presente alla festa di Capodanno che è già stato sentito dai carabinieri. “La pistola era molto piccola e stava tutta nel palmo della mano. Sembrava quasi un accendino” spiega il testimone.
Il quale dice che lo sparo “si è sentito all’improvviso e non abbiamo avuto nemmeno il tempo di chiedere di riporre l’arma, visto peraltro che c’erano anche dei bambini”. Una versione che cozza con le prime parole del deputato che appena scoppiato il caso ha detto: “Non ho sparato io”.
(da Dagoreport)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
COSI’ L’ASSENZA DI REGOLE FA DILAGARE LE LOBBY… MOLTI POLITICI SONO PORTATORI DI INTERESSI PRIVATI
Oggi l’oro vero è avere le informazioni prima degli altri. Quello che
nel mondo delle imprese si cerca, e spesso a tutti i costi, è sapere prima quando uscirà un bando, i criteri, come verrà assegnato il punteggio. Lo dimostrano le indagini degli ultimi anni che hanno alzato il velo su cricche composte, quasi sempre, da politici (o parenti), imprenditori e funzionari pubblici. Indagini che hanno sempre un elemento in comune: le porte girevoli tra politica e imprese e le porte “leggere” nei ministeri che gestiscono gare miliardarie.
Il nostro è l’unico Paese nell’Unione Europea, insieme all’Ungheria e alla Slovenia, a non avere una legislazione chiara in materia di conflitti di interesse, corruzione e rapporti di onorevoli e burocrati (familiari compresi) con il mondo dei portatori di interesse. A parte la leggina del 2004, che riguarda i conflitti di interesse di ministri e sottosegretari (a dir poco blanda), non c’è nulla per i parlamentari. A denunciarlo non a caso è l’ultimo report del Geco, l’organo del Consiglio d’Europa che si occupa di lotta alla corruzione, che chiede all’Italia «l’adozione di norme chiare ed effettivamente applicabili in materia di conflitto di interesse dei parlamentari», familiari compresi.
Secondo l’associazione Transparency oggi sono 97 i deputati e i senatori portatori di interessi privati, cioè che hanno partecipazioni in aziende o ruoli in consigli di amministrazione. Il numero più elevato siede nelle fila di Fratelli d’Italia: dalla ministra Daniela Santanché con le sue società legate a Visibilia, ai sottosegretari Marcello Gemmato e Maurizio Leo, che hanno partecipazioni in società che si occupano di settori che rientrano nelle loro deleghe ministeriali, passando per i deputati Marco Osnato e Riccardo Zucconi, che hanno aziende nel settore turistico, solo per citarne alcuni. Segue poi, per numero di deputati con “interessi particolari”, Forza Italia: qui come non citare il presidente della Lazio Claudio Lotito o il capogruppo in Senato Maurizio Gasparri, presidente di una società di cybersicurezza. Terza la Lega di Salvini, seguita dal Partito democratico, Movimento 5 stelle e Italia Viva e Azione.
Poi ci sono i casi delle porte girevoli di politici che hanno lavorato per lobby e grandi aziende e che fanno la spola tra questi ruoli: il ministro della Difesa Guido Crosetto ha guidato prima dell’incarico l’Aiad, la federazione della aziende Italiane che si occupano di aerospazio, difesa e sicurezza; l’ex deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria lavora oggi per le relazioni istituzionali di Webuild, il colosso del gruppo di Pietro Salini che deve realizzare il Ponte sullo Stretto, anche qui solo per fare degli esempi. E tanti ex politici di alto rango lavorano per società di consulenza o per grandi gruppi imprenditoriali: da Angelino Alfano all’ex ministro Roberto Cingolani. Tutto lecito e in chiaro.
Ma nel nostro Paese esiste anche un mondo che sta in mezzo: quello dei politici che restano agganciati ai ministeri attraverso una consulenzina. Repubblica ha contato 35 ex senatori e deputati oggi inquadrati in staff di governo con il ruolo di consulente, da Maria Spena ad Armando Siri a Marco Busetti, solo per citarne alcuni.
Ma non c’è solo la politica a non avere regole chiare con porte a dir poco girevoli. Attorno a ministeri e Regioni, dove si disegnano gare miliardarie, ruotano anche i quattro mila dipendenti di grandi aziende di consulenza, a partire dalle cosiddette grandi “sorelle” del settore (Deloitte, Pwc, Ernst and young, Kpmg) che lavorano per l’assistenza tecnica: si occupano in soldoni di predisporre bandi e linee guida per accelerare la spesa comunitaria, ma le loro aziende lavorano spesso anche per le imprese che a quei bandi dovranno poi partecipare. E anche qui le informazioni girano in maniera vorticosa.
Non sorprende insomma che nei corridoi dei ministeri ci sia un grande viavai, quasi sempre non registrato. Solo il ministero dello Sviluppo economico tiene una agenda e un registro dei lobbysti o portatori di interesse che vi accedono. Poi nessun altro ministero tiene registri e agende.
E in Parlamento? In assenza di leggi chiare esiste alla Camera un registro dei portatori di interesse: imprese, associazioni di categoria e società di lobbying devono indicare i nomi dei deputati contatti. Negli ultimi report disponibili molte grandi aziende e società importanti di lobbying scrivono di non avere avuto alcun contatto con i deputati. Tanto a che serve se possono vederli comunque fuori dal Parlamento e avere anche libero accesso nei ministeri?
(da La Repubblica)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
L’EURODEPUTATO CHE POSA DAVANTI A UN ALBERO DI NATALE CON CARTUCCE E BOSSOLI E MASSIMO ADRIATICI, CHE NEL 2021, A VOGHERA, UCCISE UN MAROCCHINO SENZATETTO
Vecchia storia quella della destra pistolera italiana. Inciampi, gaffes più o meno volute, show elettorali, smargiassate da aspiranti cow boy di provincia, crociate sulla legittima difesa e propaganda del mito della difesa fai da te. E dunque anche spottoni a beneficio della potente lobby delle armi.
Il cenone al piombo di Rosazza by Delmastro compone l’ultima pagina di un libro grigio lungo almeno trent’anni. C’era una volta lo “sceriffo” Giancarlo Gentilini. Da sindaco di Treviso posava come un Tex Willer meno tonico. Era un segnale chiaro a sbandati e ovviamente agli immigrati “invasori”. L’irresistibile tentazione del Far West: e invece è il profondo Nord-Est.
indaci, assessori, parlamentari. Tra i politici che esibiscono la pistola il primato è sempre stato dei leghisti. Elenco lunghissimo. Massimo Bitonci oggi è sottosegretario al ministero del Made in Italy. Nel 2016, da sindaco di Padova, girava armato di una Smith&Wesson calibro 9 e quanto ne andava fiero. Un anno prima c’era stata la brutta vicenda del benzinaio di Ponte di Nanto che sparò e uccise un bandito durante una rapina. Tempo zero e sul posto, a benedire Graziano Stacchio, piombò Salvini: «Giù le mani da chi si difende».
Scatenato anche Joe Formaggio, l’ex sindaco anti-rom di Albettone che pattugliava col fucile: oggi è consigliere regionale di FdI e a febbraio si è fatto immortalare con un mitra. E come non ricordare Gianluca Bonanno, scomparso, europarlamentare leghista e primo cittadino di Borgosesia. Nel 2015 mostra una pistola in diretta tv. «Andare in tivù con la pistola è sciocco e sbagliato», lo riprese Salvini. Il quale, con la solita coerenza, quattro anni dopo, alla Fiera delle armi di Vicenza, imbracciò un fucile e rilanciò: «La legittima difesa è un regalo agli italiani».
Musica per le orecchie della collega Giulia Bongiorno che nel 2018, da ministro della Pubblica amministrazione, chiosa: «Se ho una pistola e vedo qualcuno in casa mia, sparo».
Massimo Adriatici, assessore alla sicurezza di Voghera, sempre Lega, a luglio 2021 ha sparato e ucciso dopo una lite per strada Youns El Boussettaoui, 39enne marocchino, senzatetto. Lo slogan mantra della destra securitaria è un ritornello, «la difesa è sempre legittima». Farsi scappare la frizione, però, è un attimo.
Oggi la competizione interna alla destra si gioca anche sul grilletto. Cinque giorni fa FdI ha calato il suo asso: con un testo arrivato in Senato i meloniani hanno provato a cambiare la legge sulla caccia dando in mano i fucili ai sedicenni. Chissà il godimento dell’europarlamentare Pietro Fiocchi, titolare dell’omonima azienda di munizioni. A Natale ha tappezzato la sua Lecco di manifesti con lui davanti a un albero addobbato con cartucce e bossoli. Per la serie: a Natale siamo tutti buoni.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
MA CHE FRODO E SAM, MA CHE EOWYN , IL PARAGONE PERTINENTE E’ IL MOSTRICCIATOLO GOLLUM
Sotto il grande ombrello tolkeniano che copre e protegge la destra di
Giorgia Meloni c’è un personaggio della popolare saga fantasy del “Signore degli Anelli” che riassume meglio di ogni altro l’anno a Palazzo Chigi della prima donna premier.
Procediamo per sottrazione.
Non si tratta di Frodo, lo hobbit che porta l’Anello del potere per poi distruggerlo. Con Frodo c’è Sam, che lo accompagna nel lungo viaggio alle radici del Male di Sauron. Fu Arianna Meloni a paragonare lei e la sorella Giorgia ai due hobbit, alla vigilia delle elezioni politiche del 2022: “Ti accompagnerò sul Monte Fato a gettare quell’anello nel fuoco, come Sam con Frodo, sapendo che non è la mia storia che verrà raccontata, ma la tua, come è giusto che sia”.
In realtà l’Anello se lo sono tenuto e nel frattempo anche Arianna e il marito ministro Francesco Lollobrigida hanno raccontato la loro storia.
Non Frodo, dunque. E né Eowyn, la principessa di Rohan, innamorata non ricambiata del ramingo Aragorn, altro eroe della saga e che alla fine verrà incoronato re di Gondor. Stavolta, il paragone è di Ignazio La Russa, quando è stata inaugurata a Roma la grande mostra su Tolkien: “Volete sapere a quale personaggio assomiglia Giorgia Meloni? A Eowyn, la principessa che si fa guerriera contro il volere degli uomini e, nella battaglia finale, uccide il cattivissimo signore dei Nazgul”. No, non sembra neanche Eowyn, alla luce di quanto accaduto in questo anno che sta per finire.
E allora chi?
Semplice: Gollum, il mostriciattolo che fa da guida a Frodo e Sam. Ossia il personaggio più ambiguo del Signore degli Anelli. Gollum in origine era Sméagol (un hobbit) e trovò per caso l’Anello di Sauron, che poi gli ha allungato la vita di cinquecento anni. Solo che l’Anello lo ha consumato, condannandolo alla corruzione del fisico e della mente. E quando poi ha scoperto che l’Anello (“il mio tesoro”) è portato da Frodo, ecco venire fuori la sua doppia personalità: Sméagol è la parte buona e servile, disponibile a fare da guida; Gollum quella cattiva, che vuole ammazzare Frodo e Sam per riprendersi il “tesoro”.
Ed è proprio attorno all’ambiguità della sua azione di governo, sovente draghiana qualche volta sovranista, che gira il Ventitré di Giorgia Meloni.
La premier versione Sméagol, accomodante, è quella che scorta l’europremier Ursula von der Leyen a Lampedusa (immagine incredibile dopo lustri trascorsi a gridare contro l’Unione europea) oppure sostiene il finto-leghista Giancarlo Giorgetti, ministro draghiano fino alla cima dei capelli nonché vero Coniglio Mannaro della Terza Repubblica, nel nuovo compromesso-capestro sul Patto di Stabilità. Per non parlare poi dell’atlantismo senza se e senza ma sulle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.
E’ il realismo, bellezza, altro che fantasy. Compensato però dalla Meloni versione Gollum che fa la guerra ai poveri e ai lavoratori sfruttati (lo stop reddito di cittadinanza e al salario minimo), che va a Cutro costretta dall’emozione di un Paese per i 94 migranti morti e infine diserta (lei, premier donna autodefinitasi con orgoglio “underdog”) le iniziative per Giulia Cecchettin nel segno di una destra che non ripudia il modello patriarcale.
Ma il sigillo di Giorgia Gollum è senza dubbio il ritorno della Casta al potere e che adesso vorrebbe pure il premierato per prendersi il 55 per cento dei seggi con neanche il 30 per cento dei voti.
A distanza di più di dieci anni dall’ultimo governo di destra (Berlusconi nel 2011), Meloni è a capo di una coalizione che in questo Ventitré ha accumulato uno scandalo dopo l’altro, e senza alcuna conseguenza: i quadri di Vittorio Sgarbi; le soffiate di Delmastro Delle Vedove; l’assoluzione paterna di La Russa al figlio Leonardo Apache sospettato di violenza; i guai di Santanchè; la fermata ferroviaria ad personam per Lollobrigida, ministro e Cognato d’Italia. Anzi, la reazione sinora è quella di chi vede i magistrati come un nemico pronto a colpire, per dirla con Guido Crosetto, ministro della Difesa. Un riflesso tipicamente berlusconiano.
In ogni caso, dal punto di vista strettamente politico, la premier resta comunque padrona del suo destino, in attesa di capire se il suo ciclo elettorale sarà breve come già quelli dei due Mattei, prima Renzi poi Salvini. Lo snodo sarà quello delle elezioni europee a metà del 2024. Meloni ha senza dubbio il pronostico dalla sua parte, grazie a tre punti forza. Il primo: l’opposizione interna di Salvini non dovrebbe portare la Lega oltre le due cifre, sopra la soglia del dieci per cento; allo stesso tempo i mal di pancia degli azzurri orfani di Berlusconi buonanima non saranno mai letali per la tenuta dell’esecutivo.
E qui veniamo al secondo pilastro del melonismo di lotta e di governo: questa maggioranza al momento non ha alternative, né tecniche di unità nazionale, né di centrosinistra (o Campo largo che sia). Il terzo, infine è il suo carisma, un fattore che pesa eccome nella Terza Repubblica dei partiti personali. Meloni piace sempre tanto al suo elettorato e ha ancora una forte capacità attrattiva. Finanche la separazione dal compagno Andrea Giambruno, ha rafforzato la sua fama di donna diventata “uomo dell’anno”, per citare il surreale titolone di Libero del 29 dicembre scorso. Epperò, a lungo andare, la scissione interiore tra Giorgia Gollum e Giorgia Sméagol rischia di essere logorante e fatale.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
POTREBBE ARRIVARE L’AIUTO DI GIORGIA MELONI: LA “CAMALEONTE” DUCETTA CERCA DISPERATAMENTE DI ENTRARE NELLA STANZA DEI BOTTONI DI BRUXELLES. MA SE VOTA LA “MAGGIORANZA URSULA” DOVRÀ LASCIARE INDIETRO L’AMATO ABASCAL E I POLACCHI DEL PIS, SCONFITTI DA TUSK ALLE ELEZIONI NAZIONALI
«Le elezioni europee potrebbero rivelarsi più pericolose di quelle americane perché temo che i cittadini voteranno in base alla paura». L’allarme lo ha lanciato nei giorni scorsi Josep Borrell, l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione europea. Le incognite a Bruxelles e nelle principali capitali dell’Ue sono tante perché c’è il timore che l’ondata sovranista rialzi di nuovo la cresta, mettendo quantomeno un freno al processo di integrazione.
In Germania l’AfD è data al 20 per cento, in Francia il Rassemblement National addirittura al 28 per cento. Al tempo stesso, però, c’è la consapevolezza che il sistema istituzionale su cui si basa l’Unione europea è molto diverso da quello americano: tra il 6 e il 9 giugno si voterà per rinnovare il Parlamento europeo, ma il voto dei cittadini non avrà un impatto sull’altra camera legislativa, vale a dire il Consiglio, in cui sono rappresentati i governi nazionali.
Anche con un emiciclo più sbilanciato verso destra, questo contrappeso consentirà di evitare “rivoluzioni”. L’ipotesi di “maggioranze alternative” a Strasburgo viene relegata nel campo delle ipotesi fantascientifiche. Secondo i sondaggi, il gruppo Identità e Democrazia (di cui fa parte la Lega) potrebbe salire a quota 93 seggi, ma contro le forze estremiste verrà confermato un cordone sanitario per tenerle fuori dalla stanza dei bottoni.
L’attuale maggioranza formata da popolari, socialisti e liberali dovrebbe ancora avere i numeri (attorno a 400 seggi su 720). È però molto probabile che, per effetto dell’onda sovranista, si assottigli, rendendo necessaria una stampella. Non arriverà certo dai Verdi, in caduta libera (da 71 a 49 seggi secondo l’ultimo sondaggio di Euractiv). E a quel punto il gruppo dei Conservatori (81 seggi), in particolare la delegazione di Fratelli d’Italia, potrebbe giocare un ruolo cruciale.
In ogni caso, dopo il voto, per capire chi saranno le figure incaricate di guidare le istituzioni Ue nella prossima legislatura bisognerà partire dal tavolo del Consiglio europeo. La casella più importante è chiaramente la presidenza della Commissione europea: a scegliere il nome non sarà il Parlamento, ma i capi di Stato e di governo, pur «tenendo conto dei risultati elettorali».
Si tratta di una scelta che i 27 leader dovranno prendere a maggioranza qualificata e che poi dovrà essere confermata dall’Aula (basta la maggioranza assoluta). Il peso degli Stati è significativo e l’esito delle Europee non cambierà certo gli equilibri politici tra i governi che saranno in carica al Consiglio europeo del 27-28 giugno.
Il sistema dello Spitzenkandidat, ossia quello che prevede di assegnare la presidenza della Commissione al candidato di punta della prima famiglia politica, è stato nuovamente respinto dai leader. Il metodo, che ha funzionato nel 2014 con l’elezione di Jean-Claude Juncker, si è inceppato nel 2019 con la bocciatura da parte dei governi di Manfred Weber (capolista del Ppe) e la decisione di estrarre dal cilindro la carta von der Leyen.
Quest’anno sembra che il destino di Palazzo Berlaymont sia appeso alla decisione dell’attuale presidente. Il Ppe è pronto a sostenerla e i governi non sembrano intenzionati a mettersi troppo di traverso, ma la diretta interessata non ha ancora sciolto la riserva. Von der Leyen accarezza anche l’ipotesi di un trasloco alla guida della Nato, alla quale punta Mark Rutte, ma nel frattempo si sta «coccolando» i membri del Consiglio europeo. Vale a dire quelli che dovranno decidere se offrirle la chance del bis oppure no.
Come detto, però, il via libera dei leader non basta. Serve anche la fiducia dell’Europarlamento e nel 2019 von der Leyen l’ha ottenuta per un soffio, con soli 9 voti di scarto. Quest’anno i margini potrebbero essere persino più stretti. Secondo gli ultimi sondaggi, il gruppo dei popolari dovrebbe avere intorno ai 179 seggi, quello dei socialisti-democratici 142 e quello dei liberali 84: in totale fanno 405 voti, ben oltre la maggioranza richiesta che è di 361 (su 720 eurodeputati).
Manfred Weber ha detto di voler proporre ai partner politici un vero e proprio contratto di coalizione per continuare questo schema a tre e guidare così anche la prossima legislatura. «Il problema – spiega una fonte qualificata del Parlamento europeo – è che il presidente della Commissione viene votato a scrutinio segreto. E dunque bisogna mettere in conto un certo numero di franchi tiratori che, come nel 2019, potrebbero decidere di sfilarsi per fare uno sgambetto a von der Leyen o a chi sarà il prossimo presidente indicato dal Consiglio».
Ed è qui che potrebbe entrare in gioco l’intero gruppo dei Conservatori o almeno una parte di esso. Il passaggio all’opposizione in Polonia ha messo nell’angolo il PiS di Mateusz Morawiecki, che molto probabilmente si terrà fuori dalla prossima maggioranza europea.
Per la delegazione di Fratelli d’Italia, invece, sarà imperativo cercare di rimanere nei giochi. Prima di tutto perché Meloni sarà coinvolta in prima persona nella trattativa al Consiglio europeo e poi perché il partito della premier cercherà un posto nella prossima Commissione: difficile dunque immaginare un voto contrario.
La vera incertezza, semmai, riguarda il comportamento degli eurodeputati leghisti: nel 2019 si sfilarono, compiendo il primo passo verso la crisi del Papeete.
Dal 1° luglio, però, ci sarà un altro evento decisamente importante per l’Unione europea: l’Ungheria assumerà la presidenza di turno e il suo leader Viktor “Mister Veto” Orban sarà il più longevo al tavolo del Consiglio europeo. Nei primi sei mesi del 2024 saranno i belgi a guidare l’Ue e nel programma c’è l’intenzione di mettere mano alle norme che regolano i processi decisionali dell’Unione, anche in vista di un futuro allargamento.
Difficile immaginare una vera e propria riforma dei Trattati, ma i 27 potrebbero discutere di come bypassare il veto su alcune questioni grazie alle cosiddette «clausole passerella». Il problema è che durante il semestre ungherese l’iter potrebbe impantanarsi.
Il 2023 si è concluso con due accordi storici: il via libera al Patto migrazione e asilo, più l’intesa tra i governi sulla riforma del Patto di Stabilità. Quest’ultima dovrà essere negoziata con il Parlamento nei primi mesi dell’anno, dopodiché entrerà in vigore. Il 2024 sarà dunque decisivo per vedere all’opera le due maxi-riforme […] e capire se veramente l’Unione riuscirà a gestire meglio i flussi migratori e i conti pubblici dei suoi Stati membri. Due problemi che negli ultimi anni hanno alimentato la macchina della retorica populista anti-Ue. Soprattutto in Italia.
(da La Stampa)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
IL SOTTOSEGRETARIO DA’ LINEE GUIDA SBAGLIATE, GLI ELETTI COSTRETTI A CORREGGERSI
L’uomo “più intelligente che abbia mai conosciuto”, scriveva Giorgia
Meloni nella sua autobiografia. Il soprannome è “spugna” perché assorbe velocemente informazioni e sfrutta conoscenze. Nei primi mesi a Palazzo Chigi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari ha preso le redini di Fratelli d’Italia. La premier si fida solo di lui. Da settembre è stato promosso responsabile comunicazione del governo per dare “linee guida al partito”, spiegava la premier.
Ma da quel momento qualcosa è cambiato. Fazzolari ha esagerato. Non ha cambiato registro rispetto a quando FdI era all’opposizione. Così i parlamentari si ritrovano a firmare comunicati e fare dichiarazioni con errori e fake news. Strafalcioni che li hanno spesso obbligati a dietrofront, in Parlamento o in tv. Tant’è che, seppur anonimamente, le linee guida di Fazzolari ora creano malumori profondi.
L’ultimo errore ha riguardato il Mes. Il 13 dicembre, alla vigilia del Consiglio europeo, Meloni si è presentata al Senato sventolando un “fax” (in verità era una mail interna del ministero degli Esteri) che voleva dimostrare come il governo Conte avesse ratificato la riforma del trattato “con il favore delle tenebre”, dopo essersi dimesso e senza passare dal Parlamento. Ma il documento, in realtà, dimostrava il contrario: la firma risaliva al 20 gennaio, una settimana prima della caduta dell’esecutivo. L’idea del “fax” era di Fazzolari ed è costata, su richiesta proprio dell’ex premier 5S, un giurì d’onore alla Camera presieduto dal forzista Giorgio Mulè: a gennaio Meloni rischia di essere sconfessata dall’organismo di Montecitorio. Come ne uscirà? “Ha molte strade, ma se prima dell’audizione parlerà con Fazzolari potrebbe fregarsi da sola…”, ironizzano nella maggioranza.
Pochi giorni prima, il 10 dicembre, era stato il capogruppo FdI Tommaso Foti a commettere un errore seguendo le indicazioni di Fazzolari. In quelle ore erano usciti i dati dell’Inps sulle politiche attive del lavoro negli ultimi mesi. Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio aveva dato la linea: attaccare il M5S per giustificare l’abolizione del reddito di cittadinanza. Il 9 dicembre Foti aveva parlato di una misura costata “34 miliardi allo Stato” di cui “22 milioni per ognuno dei posti di lavoro” creati. Insomma, “sperpero e fallimenti”. Il giorno dopo il capogruppo meloniano insisteva: “I dati che arrivano dall’Inps sbattono in faccia a Conte la verità – aveva detto Foti – abbiamo speso l’equivalente di una finanziaria per attivare solo 1500 contratti di lavoro. Ogni nuovo posto è costato circa 22 milioni di euro”.
Peccato che questi dati siano una fake news. Come ha fatto notare il deputato 5S Leonardo Donno le 1.500 assunzioni sono solo quelle “agevolate” da sgravi fiscali e i 22 milioni per ognuna sono cifre basate su un calcolo errato: la divisione tra i 34 miliardi spesi e le 1.500 persone assunte. Peccato però che così non vengano calcolati i “non occupabili”, cioè i due terzi dei beneficiari. Il M5S aveva risposto a Foti accusandolo di non conoscere “né l’italiano né la matematica”. Il capogruppo, una volta scoperto l’errore, era andato su tutte le furie. Ma non potendo fare personalmente marcia indietro, ci ha pensato un comunicato della deputata meloniana Marta Schifone a buttare la palla in tribuna dando la colpa al gioco “delle tre carte” dei 5S.
Anche sul Superbonus Fazzolari ha preso alla sprovvista i parlamentari meloniani. Il 6 dicembre il responsabile del programma di FdI Francesco Filini, suo braccio destro, ha chiesto una commissione d’inchiesta sul bonus 110%. Peccato che proprio due anni fa molti meloniani chiedessero la proroga della misura (Forza Italia lo fa ancora oggi). “Con quale faccia possiamo appoggiare la proposta?”, si chiedevano diversi parlamentari. Ma la batteria di dichiarazioni per la commissione d’inchiesta era partita.
Anche la posizione sull’emendamento Costa per vietare la pubblicazione di ordinanze di custodia cautelare ha mandato in tilt il partito. Che prima ha appoggiato la proposta, poi ne ha preso le distanze dopo le reazioni di magistrati e giuristi: nel mattinale “Ore 11” di venerdì, scritto proprio su indicazione di Fazzolari, si legge: “L’Fnsi protesta per un emendamento approvato alla Camera invece che a Palazzo Chigi. Chi intende contestarlo dovrebbe rivolgersi altrove, a meno che al governo non venga rimproverato di non aver esautorato il Parlamento”. Come dovrebbero rispondere i parlamentari di FdI a specifica domanda?
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
LE MISURE CHE SOSTITUISCONO IL REDDITO DI CITTADINANZA SONO INEFFICACI, HANNO ESCLUSO CATEGORIE TRA LE PIU’ BISOGNOSE
L’anno nuovo nel nostro Paese presenta una faccia arcigna per chi si trova in povertà. Nonostante il governo abbia presentato la legge di stabilità come particolarmente attenta a chi si trova in condizione economicamente modesta, per i più poveri ci sono solo peggioramenti. Essendo incapienti, non potranno beneficiare dell’abbassamento delle aliquote fiscali né di alcuno sgravio fiscale. Se madri precariamente occupate, non potranno fruire degli sgravi contributivi, qualsiasi numero di figli abbiano, perché sono destinati solo alle occupate a tempo indeterminato. Se bisognosi di interventi chirurgici o di esami clinici, dovranno accodarsi in lunghe liste di attesa in un sistema sanitario pubblico sempre più in affanno.
In compenso, si vedranno ridotto il sostegno al reddito cui fino a quest’anno avevano o avrebbero avuto diritto. In effetti, la sostituzione del Reddito di cittadinanza con due diverse misure meno generose e per una platea più ridotta è la promessa elettorale più rapidamente mantenuta dal governo Meloni. Il nuovo sistema di sostegno al reddito che dal 1° gennaio sostituisce il Reddito di cittadinanza, mentre non risolve nessuno dei problemi che questo presentava sul fronte dell’attivazione lavorativa e sociale, già dallo scorso agosto lascia scoperte decine di migliaia di persone che non hanno la “fortuna” di essere anziane, disabili o di avere qualche minorenne a carico e perciò sono definite automaticamente come “non vulnerabili” e facilmente occupabili, a prescindere sia dalla domanda di lavoro loro effettivamente accessibile, sia dal grado di vicinanza o lontananza dal mercato del lavoro maturato nel tempo.
Queste persone hanno diritto, a condizioni molto stringenti, solo a 350 euro al mese di sussidio per un massimo di 12 mesi non ripetibili e solo per la durata della frequenza di un corso di formazione. Non tutte, tuttavia, riusciranno ad accedervi. In primo luogo, la soglia Isee al di sotto della quale si ha diritto a questo sussidio è stata drasticamente abbassata da 9360 euro annui a 6000, tagliando fuori anche da questo aiuto individui e famiglie che prima avrebbero avuto diritto al Reddito di cittadinanza.
In secondo luogo, nonostante il dirottamento verso il Sostegno formazione lavoro (Sfl) sia iniziato già ad agosto, i corsi – utili o meno che siano – a tutt’oggi non sono disponibili dappertutto. Ma senza frequenza, per quanto incolpevole, non c’è sussidio. Così come il sussidio cessa una volta terminato il corso, che sia stato utile o meno a trovare una occupazione a condizioni decenti. Più che un incentivo e un aiuto a trovare una occupazione che spesso non c’è adeguata alle, per lo più basse, qualifiche di chi si trova povertà, lo spostamento verso il Sfl di molte persone e famiglie molto povere definite “non vulnerabili” sembra rispondere all’imperativo di ridurre il numero dei beneficiari, a prescindere dal bisogno e dal funzionamento delle politiche attive.
Non stupisce che chi può, e trova assistenti sociali comprensive, cerchi di rientrare in una categoria di vulnerabilità tra quelle elencate in tutta fretta dal ministero del Lavoro in aggiunta a quelle derivanti dalla composizione familiare, per mettere una toppa a una norma che subito si è rivelata non solo crudele, ma in molti caso fuori dalla realtà.
Questa è fatta, ad esempio, di ultracinquantenni disoccupati di lungo periodo, o di genitori a bassissimo reddito con figli maggiorenni a carico perché studenti che cercano di costruirsi un futuro non di povertà. Ma questo ritorno al categorialismo spinto non è solo un ritorno indietro, a un sistema di welfare frammentato e opaco, che, mentre lascia fuori molti, incoraggia piccoli e grandi imbrogli. Sottopone anche chi chiede assistenza all’umiliante trafila di dover dimostrare non solo la propria insufficienza di risorse, ma anche la propria “vulnerabilità aggiuntiva”, sperando in uno sguardo benevolo, ma anche accettandone il potere giudicante e paternalistico.
Le cose vanno solo un poco meglio per chi – appartenendo alle categorie vulnerabili per composizione familiare – dal Reddito di cittadinanza dovrebbe passare all’Adi (Assegno di inclusione). Oltre a trovarsi nella stessa situazione dei percettori di Sfl per quanto riguarda la debolezza o assenza di politiche attive del lavoro, anche tra loro qualcuno rimarrà fuori, pur avendo le caratteristiche famigliari richieste e un Isee al di sotto della soglia di 9360 euro.
L’esclusione degli adulti salvo che nel caso di un genitore di bambino sotto i tre anni, e la ulteriore (rispetto al Rdc) riduzione del valore del coefficiente attribuito ai minorenni, infatti, farà sì che un certo numero di famiglie superi la soglia massima di 6000 euro di reddito equivalente che è uno dei requisiti aggiuntivi all’Isee. Succedeva già con il Rdc che fossero proprio le famiglie con figli minorenni a superare quella soglia, a parità di Isee, stante, appunto, il più basso coefficiente attribuito ai minorenni rispetto ai maggiorenni. Ora il rischio è stato aumentato, in barba a tutta la retorica sul sostegno a chi ha figli. Evidentemente, quelli dei poveri meritano meno considerazione.
A causa dello stesso meccanismo, anche le famiglie che staranno dentro ai parametri riceveranno un sussidio di ammontare inferiore a quanto avrebbero ricevuto con il Rdc, perché sarà calcolato ignorando i componenti adulti non anziani e non disabili della famiglia, salvo che nel caso di genitore di figlio sotto i tre anni. Anche in questo caso, la logica di queste decisioni sembra stare più nella volontà di risparmiare che di fornire un aiuto efficace ed equo.
L’unico miglioramento sta nella riduzione degli anni di residenza necessari per accedere al sostegno, a seguito di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea, e il maggior riconoscimento offerto alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Due cose positive, che tuttavia non compensano il peggioramento delle condizioni con cui migliaia di individui e famiglie in povertà affrontano il nuovo anno.
(da La Stampa)
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Gennaio 2nd, 2024 Riccardo Fucile
“A VARSAVIA E BUDAPEST LE CORTI SONO FINITE NELLA LISTA NERA”
La destra populista, l’assenza di un’opposizione capace di contenerla,
le fragilità democratiche. Tutti elementi che fanno guardare l’anno appena cominciato «con una buona dose di apprensione», dice Giuliano Amato in un’intervista su la Repubblica. L’ex presidente del Consiglio, della Corte costituzione e dell’Agcom guarda al “movimento” di Giorgia Meloni con preoccupazione. «Quella di Fratelli d’Italia e della Lega continuiamo a chiamarla destra, ma di sicuro non ha la cultura politica di Reagan né della Thatcher né di Major. È un’altra cosa, che ha che fare con l’ideologia dell’ostilità e del rancore». La presidente del Consiglio è riuscita, a detta di Amato, a «raccogliere scontentezze di varia natura: i perdenti di una battaglia lontana, i nostalgici di un fascismo che non c’è più, e i perdenti di oggi, quell’enorme prateria del rancore alimentato dal disagio economico e sociale, oltre che dall’insofferenza per i nuovi diritti». Ma ha anche indirizzato i suoi elettori verso nemici comuni: «Ad Atreju (la kermesse di Fratelli d’Italia andata in scena il 14 al 17 dicembre, ndr), nel suo discorso conclusivo ha elencato la lista dei nemici: quelli con il reddito di cittadinanza, ma anche un migrante che occupa abusivamente una casa popolare o un carcerato che viene messo in libertà solo perché obeso e in cella non può essere curato», dice Amato.
L’attacco alle Corti
Tutti esempi «insopportabili» per la destra populista, compresi gli «omosessuali», di «trasgressione». E chi difende i diritti delle minoranze, per l’ex premier, viene guardato con ostilità: «È percepita come un nemico anche la Corte Costituzionale, ossia il più alto organo di garanzia della Carta il cui compito è garantire anche i diritti di carcerati, migranti, omosessuali. Agli occhi degli elettori della destra populista le Corti finiscono per apparire espressione e garanzia di quelle minoranze che turbano il loro ordine. L’Abbiamo visto – continua Amato – in Polonia e Ungheria: le prime ad essere messe nella lista nera sono state le Corti europee, poi le Corti nazionali». E questo può succedere anche in Italia: «Non c’è nulla che lo impedisca. Da noi è ritenuto inconcepibile, ma potrebbe accadere».
«Il premierato? Una frode per gli elettori»
Nell’intervista Amato ritorna inoltre sulla questione “premierato”, già criticato in passato. Secondo il presidente emerito della Corte costituzione è «difficile trovare un costituzionalista che l’approvi. Si tratta di una frode per gli elettori», spiega. «Meloni continua a sostenere che il premierato elettivo metterà fine ai ricatti dei partiti, invece è il contrario! Questa riforma consente ai partiti il massimo potere di ricatto perché il premier eletto dagli elettori ricava solo l’incarico e prima di avere la fiducia del Parlamento deve avere nominato i ministri. Ergo – spiega Amato – nella notte dei lunghi coltelli saranno i partiti a mercanteggiare ministri e posti di comanda: o mi dai gli Interni o ti scordi la fiducia». E se da una parte si allontana la possibilità che questa destra approdi a una sponda conservatrice moderata, dall’altra l’opposizione prima di cambiare la destra deve «cambiare se stessa – sottolinea Amato – mettendo in difficoltà l’avversario politico. Per ora non vedo una competizione».
(da agenzie)
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