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FUOCO E FIAMME NEL CENTRODESTRA: MUSUMECI NEGA LO STATO D’EMERGENZA PER I ROGHI IN SICILIA, SCHIFANI SI INCAZZA: “NON MI RICONOSCO IN QUESTO STATO”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

LA DECISIONE DELLA PROTEZIONE CIVILE SCATENA LE POLEMICHE

Si alza di nuovo la tensione tra Roma e Palermo, oltre che all’interno della maggioranza di centrodestra. Durissima reazione del presidente della Regione siciliana, Renato Schifani, alla decisione (rivelata da Repubblica) del governo di non riconoscere lo stato d’emergenza per gli incendi che hanno flagellato l’Isola nell’ultima estate. A distanza di poco tempo, peraltro, dalle polemiche sui fondi per il Ponte sullo Stretto “prelevati” dalle risorse regionali.
“Uno Stato che nega ai cittadini il risarcimento di un danno di pubblico dominio, subito per colpe o eventi altrui, e lo fa sulla base di cavilli procedurali non applicati prima, non è lo Stato in cui mi riconosco. Uno Stato che viene meno al principio della leale collaborazione dei suoi vari livelli, cosi’ come previsto dall’articolo 120 della Costituzione, non è lo Stato in cui mi riconosco”: così il governatore in una nota nella quale annuncia anche la convocazione per domani di una giunta straordinaria sul caso.
La comunicazione romana era arrivata in sordina tra Capodanno e l’Epifania, provocando un terremoto alla Regione: di fatto viene negato alla Sicilia lo stato di emergenza nazionale per gli incendi del luglio scorso che hanno causato sei vittime e oltre 150 milioni di euro di danni a case, boschi, attività produttive e infrastrutture. A rigettare la richiesta presentata dal governatore forzista Schifani, è stato il dipartimento nazionale di Protezione civile, che fa capo al ministero oggi guidato dall’ex presidente della Regione meloniano Nello Musumeci.
«Sulla base della documentazione fornita e degli esiti dei sopralluoghi tecnici – scrive il capo della Protezione civile nazionale, Fabrizio Curcio – pur riscontrando numerose situazioni di disagio, prevalentemente temporanee, e di puntuali danneggiamenti, si è valutato che gli eventi non siano stati tali da giustificare l’adozione di misure che trascendono le capacità operative e finanziarie degli enti competenti in via ordinaria». Dallo staff di Musumeci scaricano le responsabilità sul dipartimento: «Non è una valutazione politica ma esclusivamente tecnica».
Tesi che ha provato ad avallare lo stesso Musumeci in una dichiarazione di stamattina: «Ho convocato per mercoledì a Roma i direttori dei dipartimenti della Protezione civile nazionale e regionale per un riesame della pratica relativa agli incendi estivi in Sicilia, nel tentativo di trovare una possibile soluzione. Il difetto sta nella relativa norma del Codice di Protezione civile, che va rivista, assieme ad altri adeguamenti. Ci stiamo lavorando e presto la cambieremo». Spiegazione che non ha evidentemente rassicurato Schifani, innescando peraltro la sollevazione delle opposizioni in Sicilia.
«Oltre il danno le beffe – dice il capogruppo Pd all’Ars, Michele Catanzaro – il ministro della Protezione civile Musumeci non firma lo stato di calamita e centinaia di aziende e famiglie danneggiate dagli incendi dello scorso luglio non otterranno alcun indennizzo». «Solo oggi, ripetiamo sei mesi dopo i roghi aggiungono i due deputati dem, Barbagallo e Nicita – Schifani si indigna e si ricorda di essere al governo della Sicilia. C’è da sperare che, una volta svegliatosi, il governatore non conceda il bis rispetto alla vicenda dello scippo per i fondi del Fsc e che, dopo le bellicose dichiarazioni, non si appiattisca ubbidiente ai desiderata di Roma e del governo centrale. Intanto da sei mesi la Sicilia aspetta. Aspettano le aziende danneggiate, aspettano i Comuni, aspettano le famiglie che hanno perso la casa».
«Incredibile ma vero – gli fa eco Ismaele La Vardera, deputato regionale di Sud chiama Nord – Schifani chiede a Roma lo stato di emergenza dopo i sei morti e gli infiniti danni a seguito degli incendi e Roma sbatte la porta in faccia. Il documento che sono in grado di mostrarvi prova ciò, e la beffa è che la risposta arriva dalla Protezione civile che fa riferimento proprio a Nello Musumeci, ex governatore siciliano».
Da qualche giorno a Palermo lavora sul dossier Salvatore Cocina, capo della Protezione civile regionale, che definisce la decisione romana «intempestiva», perch e arriva tre mesi dopo l’ultima nota della Regione: «La prima richiesta – ricostruisce Cocina – è del 28 luglio, il giorno dopo la fine degli incendi, poi da noi integrata il 31 agosto e il 4 ottobre con le ordinanze e i provvedimenti di sgombero dei comuni». Roma contesta poi che non c’è stata attivazione del volontariato fuori regione. «In realtà – replica il numero uno della Protezione civile regionale – abbiamo avuto l’apporto di sole due Regioni perché le altre erano impegnate per l’alluvione in Emilia Romagna».
Per il dipartimento nazionale, il numero delle ordinanze di sgombero degli immobili danneggiati e i provvedimenti urgenti dei Comuni sono troppo pochi per concedere lo stato di crisi. Un passaggio contestato da Cocina: «Gli scenari di fiamme altissime, le devastazioni alle case e ai capannoni, alle coltivazioni e all’ambiente, le centinaia di auto incendiate e, purtroppo, le vittime sono state ampiamente documentate dai media con immagini forti e servizi eloquenti. Confido comunque in una soluzione positiva».
(da La Repubblica)

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NUOVE RIVELAZIONI SU ALDO MORO: “IL CORPO FU TROVATO PRIMA DELLA TELEFONATA DELLE BR, COSSIGA LO SAPEVA”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

SECONDO L’INCHIESTA DI REPORT ANCE AGENTI DEI SERVIZI INGLESI ERANO A ROMA IN QUEI GIORNI

La presenza in quei giorni a Roma di uomini dei servizi segreti inglesi. Ma non solo: anche la notizia di una telefonata arrivata a Francesco Cossiga prima di quella delle Br che annunciava la morte di Aldo Moro. Report oggi alle 21 su Rai Tre conduce una lunga inchiesta sulla morte del volto simbolo della Democrazia cristiana dialogante con la sinistra e l’Est europeo.
I giornalisti della trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci intervistano l’allora numero due del partito socialista Claudio Signorile che dice: “Io quello che pensavo, che sapevo, era che questa continua presenza, che soprattutto nell’ultimo periodo era diventata quasi ossessiva, dei servizi inglesi”.
Aprendo all’ipotesi che si siano stati altri interessi ad armare le Br. Ma non solo. Lo stesso Signorile conferma a Report di una telefonata ricevuta il 9 maggio, quando si trovava nella stanza di Cossiga, che già di prima mattina avvertiva della morte di Moro: “Si accende il cicalino e dal cicalino la voce. Due messaggi. Il primo: la macchina rossa eccetera dentro, poi il secondo dopo qualche minuto: la nota personalità, linguaggio burocratico del Ministero degli Interni, per personalità si tratta eccetera, eccetera a quel punto mi dice mi devo dimettere e io dico, fai bene. Ci abbracciamo”, racconta Signorile.
A questo punto il giornalista Paolo Mondani aggiunge: “Voi ricevete tra le 9 e mezza e le dieci che la comunicazione che la nota personalità è morta, cioè che Moro è stato trovato a via Caetani morto. E invece la telefonata di brigatista Morucci al professor Tritto che dice ‘lo troverete a via Caetani’ è delle 12 e un quarto”.
Signorile e Cossiga ascoltano insomma al ministero, mentre prendono il caffè, due messaggi chiari sul ritrovamento della R4 rossa con il corpo di Moro comunicati dai dirigenti della Polizia tra le 9,30 e le 10,30 del 9 maggio. La telefonata del brigatista Morucci al professor Francesco Tritto, amico e collaboratore di Moro, è delle 12,13. Le Br avvertono lo Stato che Moro è morto. Ma lo Stato già lo sa da ore.
“A metà mattinata salta quindi con un inquietante tempismo la direzione della Dc che avrebbe dovuto riaprire la trattativa per la liberazione di Moro. Una macabra sceneggiatura che testimonia il macroscopico vuoto di verità che ancora pesa come un macigno su questa tragedia”, conclude Report che oggi in questa inchiesta intervisterà altri testimoni chiave dei giorni del rapimento.
(da La Repubblica)

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LE GRANDI CITTA’ SONO E RESTERANNO ETERNE

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

MA QUALE FUGA DAI CENTRI URBANI, IL NUMERO DI CI CI ABITA CONTINUA A CRESCERE…FORSE NON E’ VERO CHE CI SI VIVE COSI’ MALE

Dalle grandi città moderne, e più ancora da quelle che ci aspettano nel futuro, si fugge. Per definizione. Non si contano i romanzi e i film, soprattutto ma non solo di fantascienza, in cui colonne di uomini e donne, vecchi e bambini lasciano le città in tutta fretta, con qualunque mezzo, tirandosi dietro un po’ di carabattole arraffate nella fuga. Anche a piedi, spingendo carretti e carrelli della spesa, se proprio non c’è altro per la bisogna. Ma in modo particolarissimo con le auto, file interminabili di auto una appresso all’altra, strombazzanti prima, rabbiose magari, poi via via sempre più rassegnate al proprio destino.
Il destino, giusto lui. Il destino che vuole la grande città, la metropoli, la megacity aggredita e piegata e sopraffatta da virus che nella sovrappopolazione seminano stragi; da terremoti e incendi e calamità naturali di tutti i tipi; da scoppi di delinquenza di massa e da scontri razziali con tanto di devastazioni e saccheggi e tiro al bersaglio su quanti non si affrettano a darsela a gambe; quando non da guerre vere e proprie, tradizionali o niente affatto tali.
Scenari distopici, si dirà. Ma non ci giureremmo. Accendiamo la televisione e ci imbattiamo nella grande città quasi sempre al negativo. Omicidi, sparatorie, rapine a mano armata, incidenti stradali a bizzeffe. Non c’è che l’imbarazzo della scelta; a volte ci si mette pure la violenza delle forze dell’ordine, in sovrappiù. E poi l’inquinamento, ovviamente, le polveri sottili. E le baby gang. E gli scontri di religione. E le banlieue. E il bullismo nelle scuole. E il degrado urbano. No, dico, basta così o si deve continuare?
Dalle città si scappa, dunque. Nella realtà, non può che essere così per motivi di coerenza con quel che della città si mostra; nella finzione è tutto un fumo che si alza in volute tra grigie e nere dalle città in procinto di venire abbandonate, quando non già a metà diroccate. Ma allora, chi vuole mai abitare nella città? Chi?
Ed ecco l’ovvia – ovvia, lo vedremo – risposta: tutti, pressappoco.
Lo scoppio della popolazione mondiale dagli anni Cinquanta a oggi? E quello che si prefigura prima ancora che la popolazione attorno al settimo decennio del secolo inverta la rotta, ancora ma non per molto prepotentemente crescente? Uno scoppio rurale, forse? No, cittadino, sempre più schiettamente cittadino. E meglio ancora: della grande città. Il formidabile balzo della popolazione mondiale è stato, è e sarà all’insegna della città, della grande città, della megacity.
In termini di abitanti non ci sono dubbi, vale il detto evangelico: “A chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Luca 8,18). Da qui al 2035 la popolazione mondiale crescerà ancora di qualcosa più di un miliardo. Bene, il 70 per cento di questo aumento sarà appannaggio della grande città con oltre 300 mila abitanti. Va da sé che il restante 30 per cento andrà comunque a ricadere in ambiti e territori cittadini. Dalle campagne e dalle montagne, dalle aree rurali, piuttosto, ecco, da qui è tutto un lasciare o, quantomeno, uno stazionare sulla difensiva. Ma stazionare, in un mondo di popolamento esponenziale, equivale inesorabilmente ad arretrare.
È questo il solco, dunque; e pure se lo volessimo non ci sarà modo di uscirne, di tralignare. È un mondo all’insegna della città, quello nel quale viviamo e pure quello che ci aspetta. Dunque, se ancora non lo abbiamo fatto, o non lo stiamo facendo a sufficienza: prepariamoci.
Qualche cifra, indispensabile per avere un’idea più precisa delle dimensioni del fenomeno.
Nel 1950 la terra aveva poco meno di 2,5 miliardi di abitanti; nel 2020 i miliardi sono diventati 7,8. Le città con oltre 300 mila abitanti erano 305 nel 1950, per un totale di 419 milioni di abitanti; vertiginosamente inerpicatesi fino a diventare 1.860 nel 2020, per un totale di 2,6 miliardi di abitanti.
Dunque gli abitanti della terra sono triplicati, mentre quelli delle grandi città sono cresciuti addirittura di sei volte, a un ritmo doppio. E a un ritmo molto più che doppio, quasi triplo, se confrontiamo l’aumento degli abitanti delle grandi città con quello degli abitanti della terra al netto delle grandi città. A oggi ogni tre abitanti della terra uno abita in una grande città di oltre 300 mila abitanti, tra un’altra dozzina d’anni saranno 4 su 10 ad abitare nelle città di queste dimensioni. Se poi dalle grandi città si passa alle medie e alle piccole città, alle cittadine, bene, a quel punto è perfino difficile dire quale sia la proporzione di popolazione urbana sul totale della popolazione della terra: la stragrande maggioranza, indubbiamente.
Al primo posto della graduatoria per proporzione di abitanti che vivono in città di oltre 300 mila abitanti c’è l’Australia, con il 70 per cento della sua popolazione. Ma l’Australia ha solo 26 milioni di abitanti. Se ci si muove attorno a un altro ordine di popolazione, allora sono gli Stati Uniti a primeggiare, con ben 208 su 335 milioni di abitanti che vivono nelle città di quella dimensione (il 62 per cento, due abitanti su tre). Ma è la Cina ad avere il record del numero di città con oltre 300 mila abitanti, che sono oggi 426, dalle 33 che erano nel 1950.
Anche la Cina ha una proporzione altissima di abitanti che vivono in città di quelle dimensioni: ben il 44 per cento, superiore di non molto al 40 per cento della Russia e il doppio del 21 per cento dell’India, che pure con 181 città con oltre 300 mila abitanti si colloca, per numero di queste città, immediatamente dietro alla Cina (426) e prima degli Stati Uniti (144).
I tempi della crescita delle grandi città, quelli sembra che una mano superiore li abbia apposta sfalsati per evitare la zuffa. Ha cominciato l’occidente, ben prima della Seconda guerra mondiale, ma segnatamente negli anni Cinquanta-Sessanta. A ruota è seguita l’America Latina; poi l’Asia dagli anni Ottanta; negli ultimi venti anni irresistibilmente l’Africa. Nel 1950 ben sette città tra le prime trenta più grandi del mondo appartenevano agli Stati Uniti, più della metà erano situate in occidente e Roma e Milano, appaiate, occupavano nella graduatoria rispettivamente la 27esima e la 28esima posizione. Nel 2020 solo quattro delle prime trenta città per abitanti sono occidentali; la prima, New York, è scesa dalla prima posizione del 1950 all’undicesima del 2020: le altre sono Mosca, Los Angeles e Parigi, in fondo alla graduatoria delle prime trenta. Nel 2035 l’occidente sarà praticamente uscito dalla graduatoria delle città più grandi del mondo.
Non resteranno tra le prime trenta che New York e Los Angeles, peraltro in posizioni di rincalzo, e niente altro, non una sola città europea. Roma, per allora, sarà scesa al 147esimo posto; Milano più in giù del 200esimo. In fatto di megacity, ovvero delle città con più di 10 milioni di abitanti, il rimescolamento delle posizioni di testa è già un fatto compiuto; nel futuro diventerà la nota dominante del popolamento del mondo: con il loro spostamento radicale dal nord al sud del mondo. Ad oggi, di 34 megacity con più di 10 milioni di abitanti, 21 sono asiatiche, 6 latinoamericane, 4 nordamericane ed europee, 3 africane.
Le megacity con oltre 10 milioni di abitanti saliranno a 45 nel 2035, con un aumento di 11 nuove megacity, delle quali ben 9 asiatiche, solo una occidentale e una africana. Non ci si lasci ingannare dal basso numero, solo 4 nel 2035 e 3 oggi, delle megacity africane. Nel 1950 appena 19 milioni di africani vivevano in città di oltre 300 mila abitanti; oggi sono più di 300 milioni e la loro crescita è esponenziale. Il Cairo, Lagos e Kinshasa sono già oggi tra le più grandi città del mondo, avranno attorno ai 25 milioni di abitanti nel 2035 e saliranno nelle prime posizioni della graduatoria, mentre Lagos potrebbe diventare la prima città del mondo, con una popolazione a sfiorare i 50 milioni tra una trentina d’anni.
E l’Italia? L’Italia a stare alla Population Division dell’Onu riserva sorprese. Proprio così. La grande ammalata, demograficamente parlando, è, se si esclude la Russia, il primo paese europeo per numero di città con oltre 300 mila abitanti (32), e al secondo posto, dietro alla Gran Bretagna, per numero di abitanti che in queste città vivono: nel 2020 poco più di 26 milioni. Che equivalgono al 44 per cento della popolazione italiana di quell’anno. Proporzione che affianca quella cinese e che indiscutibilmente connota una popolazione in senso urbano, profondamente cittadino. Cresciute in modo particolarissimo nei venti anni tra la seconda metà dei Cinquanta e la prima metà dei Settanta del secolo scorso, le città italiane con più di 300 mila abitanti se si seguono i confini comunali in realtà non sono che dieci, e non 32 come invece certifica la Population Division, che però, senza voler entrare in dettagli tecnici poco interessanti, utilizza criteri che prescindono da questi confini quando non si abbia una vera soluzione di continuità tra un centro abitato e un altro.
Decisamente più interessante è notare che mentre la popolazione italiana è data in contrazione fino a 57,3 milioni nel 2035, a quella data le città con oltre 300 mila abitanti supereranno i 27 milioni di abitanti, cosicché mentre la popolazione generale fletterà di quasi due milioni di abitanti nel frattempo gli abitanti delle grandi città aumenteranno ancora di 1,1 milioni, finendo così per rappresentare oltre il 47 per cento della popolazione italiana.
Tempo dunque un’altra quindicina d’anni da oggi e metà della popolazione italiana abiterà in città di oltre 300 mila abitanti. Un dato che ci impone più di una riflessione sui caratteri dello spopolamento italiano, uno spopolamento in atto da quasi una decina d’anni e destinato a intensificarsi, ma in modi tutt’altro che uniformi, anzi assai dissimili tra i territori. Si salverà la città. O, meglio ancora, la grande città. E lo farà in modo particolarissimo non già perché la dinamica demografica naturale contrassegnata dalla differenza tra natalità e mortalità sia così dissimile tra un’area e un’altra: in verità si nasce poco in tutta Italia senza eccezioni (a parte la provincia di Bolzano, estrema propaggine italiana), e data l’anzianità della popolazione si tende a morire ben di più di quanto non si nasca (quasi il doppio) in tutte le regioni italiane.
La grande città si salverà perché i movimenti di popolazione sono giusto quelli che abbiamo detto all’inizio: nient’affatto via dalla città, ma tutto il contrario: dai monti e dalle colline, dalle aree rurali e periferiche alla grande città, dalle zone poco abitate a quelle più abitate, dalla rarefazione all’accentramento della popolazione.
Ed eccoci allora alla conclusione. Non può essere un caso, un fenomeno di questa persistenza e di queste dimensioni, cominciato in occidente già prima della Seconda guerra mondiale, pur se esploso subito dopo, e approdato assai recentemente in quell’Africa che sta conoscendo uno sviluppo urbano tanto caotico quanto irresistibile.
Non può essere un caso se presenta in sommo grado questo carattere della pervasività, della diffusività che non teme paragone coi virus peggiori. Non c’è area del globo, praticamente, che se ne possa dichiarare immune: tanto lo sviluppo della grande città di oltre 300 mila abitanti quanto quello delle megacity di oltre 10 milioni di abitanti delineano nel mondo, nel mondo nella sua interezza, su piani diversi di affollamento, l’irresistibile tendenza della popolazione umana ad addensarsi, a esplodere in densità urbane sempre date per invivibili e tuttavia sempre vincenti. Si dovrà pure indagare un fenomeno di questa durata, questa diffusione, questa persistenza, questa capacità di proiettarsi nel futuro ancora da scrivere. E invece niente, o molto, troppo poco.
Solo analisi di risulta, pigre, piagnucolose su quanto è frenetica e pericolosa e inaffidabile la città, specialmente se grande, dalle quali non si può che dedurre che l’umanità, visto che preferisce il caos alla tranquillità, il rischio e il pericolo alla vita senza scosse e sussulti, l’umanità nella sua interezza, non un suo segmento più o meno circoscritto, non può che essere un tantino insana.
Stiamo ancora qui, con l’approfondimento: a una logica, ma sarebbe preferibile chiamarla epidemiologia del rischio. Una epidemiologia che sembra salvifica e che invece è monca e, a proposito di rischio, rischia di farci capire assai poco di quel che succede e di quel che si prepara. Ci si chiede di leggere il futuro come uno slalom ininterrotto tra rischi da evitare; la vita un continuo conteggio di calorie e colesterolo e pressione arteriosa. Fortunatamente siamo più scafati, e pure più leggeri, di così. E corriamo dove vediamo opportunità e occasioni, anche delle meno raccomandabili, è inevitabile, ma opportunità e occasioni e speranze e possibilità. Perché non ci sono solo i rischi. Ed ecco perché dalle città non si fugge, come sembrerebbe perfino ovvio fare, visto tutto quello che vi succede di brutto e di rischioso. Ma semmai vi si accorre, da quegli animali sociali che siamo e che prediligono le compagnie, anche le cattive, alle non compagnie. Anzi, visti i dati nel mondo, in tutto il mondo, togliere il “semmai”. Vi si accorre. Punto. Non ultimo anche perché è nelle città, nelle grandi città, che si vive di più. Lo direste mai, a sentire i telegiornali?
(da ilfoglio.it)

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NEGLI ULTIMI ANNI IL NUOVO MITO SOVRANISTA ELON MUSK AVREBBE ASSUNTO LSD, COCAINA, ECSTASY, FUNGHI E KETAMINA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

LO SCRIVE IL “WALL STREET JOURNAL”, CHE RIPORTA LE TESTIMONIANZE DI PERSONE VICINE AL MILIARDARIO E LE PREOCCUPAZIONI DEI VERTICI DI TESLA E SPACE X

LSD, cocaina, ecstasy, funghi e ketamina. Sarebbero alcune delle droghe pesanti e illegali che Elon Musk ha usato negli ultimi anni secondo un articolo del Wall Street Journal che riporta le preoccupazioni dei vertici di Tesla e SpaceX, due delle società del visionario miliardario americano.Secondo alcuni dirigenti e membri del consiglio di amministrazione l’uso di droghe da parte di Musk possono danneggiare le sue aziende. Le provocazioni del miliardario, le sue uscite anti-sistema, sono state giustificate, invece dai suoi sostenitori come un’espressione della sua creatività e non come il risultato dei suoi problemi di salute mentale o le conseguenze dello stress o della privazione del sonno.
Persone vicine a Musk, che hanno osservato o conoscono l’uso di droghe da parte del miliardario, hanno dichiarato che ha assunto LSD, cocaina, ecstasy e funghi psichedelici, spesso durante feste private in tutto il mondo dove gli ospiti firmano accordi di non divulgazione o accettano di non utilizzare i propri telefonini.
Musk ha affermato di avere una prescrizione per la ketamina, un farmaco psichedelico, e di aver già usato marijuana in pubblico, come accaduto durante una festa organizzata a Los Angeles nel 2018, in cui aveva assunto anche diverse compresse di acido.
Secondo il Wsj, Linda Johnson Rice, ex direttrice di Tesla, si è infuriata così tanto per il comportamento del miliardario e per il suo uso di droghe che ha deciso di non candidarsi per la rielezione nel consiglio di amministrazione del produttore di veicoli elettrici nel 2019.
Nel 2018, Musk finì nei guai con la NASA dopo essere stato visto consumare marijuana al Joe Rogan Show. Ciò ha sollevato preoccupazioni sugli effetti del comportamento di Musk sulla società e ha portato a test antidroga casuali sul personale di SpaceX.
(da agenzie)

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A MOSCA RIMOSSO IL PRETE ORTODOSSO CHE CHIEDEVA DI FERMARE LA GUERRA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

ALEKSEJ UMINSKIJ E’ STATO RIMOSSO DAL SUO RETTORATO E GLI E’ STATA VIETATA OGNI FUNZIONE: E’ LA DEMOCRAZIA DEL CRIMINALE KIRILL, L’EX AGENTE DEL KGB, NOME IN CODICE MIKHAILOV, OGGI TRAVESTITO DA PRETE

“Non aveva mai condiviso la guerra all’Ucraina e predicava la pace. Rimosso e sostituito con un altro arciprete sostenitore della guerra di Putin.
A Mosca, l’arciprete Aleksej Uminskij è stato rimosso dal suo rettorato presso la Chiesa della Trinità vivificante, a Khokhly e gli è stata vietata ogni funzione.
Lo riferiscono la giornalista Ksenia Luchenko e il canale televisivo Dozhd, su informazioni dei fedeli. Dozhd sostiene che Alekseiy Uminsky è stato rimosso dal suo incarico per le considerazioni fatte in un’intervista con l’ex caporedattore di Ekho Moskvy, Alexei Venediktov. L’intervista è stata pubblicata sul canale YouTube Living Nail lo scorso novembre.
La diocesi di Mosca non ha confermato le informazioni sull’interdizione di Uminsky dal ministero. Secondo Dozhd, l’arciprete Andrei Tkachev, che ha sostenuto l’invasione delle truppe russe in Ucraina, è stato nominato rettore della Chiesa della Trinità.
Aleksej Uminsky era rettore della Chiesa dal 1993, fin dal primo momento si era espresso contro l’invasione, contro la guerra, aveva invocato la pace: ‘Non posso sostenere queste azioni militari. Prego per la pace, prego che tutto questo finisca al più presto’. Nell’aprile 2021, Uminsky aveva invitato le autorità a mostrare misericordia cristiana e a consentire a un medico di visitare Alexei Navalny, che all’epoca era in sciopero della fame. Dopodiché, in onda sul canale televisivo ‘Spas’ di proprietà della Chiesa ortodossa russa, era stato intimidito, minacciato e definito un ‘criminale in abito talare’.”
(da agenzie)

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FDI SEMPRE PIU’ ORBAN, SULL’INFORMAZIONE IPOTIZZA UN NUOVO MINCULPOP PER “CERTIFICARE” LE NOTIZIE BUONE, POI FA DIETROFRONT

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

MOLLICONE (FDI) FA LA SPARATA ALLA ORBAN, POI IL PARTITO LO SCARICA: “HA PARLATO A TITOLO PERSONALE”

Una sparata alla Orban, visto che anche se la premier ora opera a palazzo Chigi sempre a Colle Oppio è rimasta e alle metodologie missine e con lei tutto il seguito in cerca di chissà quali rivincite.
“Una riforma dell’editoria che certifichi la veridicità delle notizie. È l’ultima iniziativa di Fratelli d’Italia per provare — d’intesa col governo — a controllare l’informazione secondo quanto anticipato da La Repubblica.
L’esponente di FdI difende “La classe dirigente che tutti denigrano”, che dice “è quella che ha fondato il partito e in dieci anni l’ha portato, grazie soprattutto a Giorgia Meloni, a essere la prima forza del Paese. Bisogna piantarla con questa mistificazione”. Frutto, secondo il deputato, della “deriva sensazionalistica imboccata dalla stampa”.
L’appartenente al. partito di estrema destra sottolinea che “Non è possibile che solo per fare clickbaiting, ossia per monetizzare i contatti sui siti, si costruisca un titolo-gancio e si finisca per criminalizzare, se non ridicolizzare, le libere opinioni. Così se la collega Mennuni sostiene che la maternità deve tornare a essere cool fra le giovani donne diventa un mostro e se io spiego che i programmi dedicati ai minori devono essere visionati prima, mi si fa passare per censore. Per non dire del vizio di estrapolare qualche parola dal contesto — com’è successo al ministro Lollobrigida sulla sostituzione etnica — per menare scandalo”.
Dice l’esponente di Fdi: “È in corso la discussione sul Tusmar per la regolamentazione dei media, nel quale affronteremo la grande questione delle piattaforme digitali. Il fatto è che la stampa è in crisi e per incrementare l’audience fa spesso wild social, social selvaggio, per cui sui portali dei maggiori quotidiani che dovrebbero essere fonti autorevoli si trovano contenuti spesso farlocchi quando non smaccatamente pubblicitari”
E annuncia: “bisogna tutelare la credibilità delle fonti, un tema che dovrebbe interessare anche gli editori”. Come? “Occorre lavorare a una certificazione digitale delle notizie per combattere le fake news. Serve una seria riforma dell’editoria, che è quella su cui ci stiamo applicando”, insiste, “per difendere l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni”.
Curioso che per contestare le ‘false informazioni’ questo signore abbia citato la vicenda Lollobrigida sulla sostituzione etnica, frase complottista non estrapolata, ma all’interno di un ragionamento (ragionamento si fa per dire) integralmente registrato e trasmesso e che, tra l’altro, rientra nell’alveo di denunce di sostituzioni etniche in corso fatte da Salvini e Giorgia Meloni. Per non parlare delle allegre bugie dette dagli esponenti della destra e altrettanto allegramente riportate da testate compiacenti.
Nel pomeriggio dietrofront, il partito fa sapere che Mollicone ha parlato a titolo personale, il governo non c’entra.
(da agenzie)

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MATTEO RENZI: “MA CHI VUOLE CHE RICATTI LA MELONI? STA SOLO PREPARANDO L’OPINIONE PUBBLICA”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

“LA NOSTRA PREMIER PASSA LE GIORNATE A INSEGUIRE I FANTASMI, ANZICHÉ GOVERNARE. PREPARA IL CLIMA PERCHÉ SA CHE QUALCUNO DEI SUOI – UNO DI FAMIGLIA O DEL CERCHIO MAGICO – HA COMBINATO QUALCHE PASTICCIO”

Matteo Renzi, a chi si riferisce Giorgia Meloni quando dice che qualcuno la ricatta?
«Ma chi vuole che la ricatti? È il solito vittimismo con cui ci delizia da sedici mesi. La nostra premier passa le giornate a inseguire i fantasmi, anziché governare. Forse perché sa qualcosa che noi non sappiamo».
Sono accuse gravi le sue.
«Nessuna accusa, solo una constatazione. Lei è molto abile e sta già preparando l’opinione pubblica. Evidentemente prepara il clima perché sa che qualcuno dei suoi — uno di famiglia o del cerchio magico — ha combinato qualche pasticcio. Non sarebbe una sorpresa visto il livello dilettantistico della sua squadra. Neanche in Corea del Nord abbiamo una premier che mette la sorella alla guida del partito e il cognato capo delegazione al governo».
Sul caso Pozzolo lei ha detto che Delmastro dovrebbe dimettersi, ma il sottosegretario non era presente nel momento dello sparo.
«E che c’entra? Delmastro organizza la cena e invita gli amici della scorta. Che noi paghiamo per proteggerlo, non per gozzovigliare con lui. Ma lui non ha una scorta come tutti gli altri: ha una falange personale di amici. Uno spettacolo indecoroso: la scorta della polizia penitenziaria è guidata da un compagno di partito che è pure sindacalista. E anziché fare la scorta questo porta tutta la famiglia, bambini inclusi, a una cena con pistole. A me sembrano tutti fuori di testa. Sarò vecchio stile io ma le istituzioni non si meritano queste scene sudamericane».
Non apprezza il fatto che Meloni abbia subito sospeso Pozzolo?
«Puro cinismo. Scarica Pozzolo come capro espiatorio, caprone direi, per salvare l’amichetto Delmastro. Che le serve al governo, specie al ministero della Giustizia, specie con questa polizia penitenziaria. È Delmastro che se ne deve andare e non perché è sotto processo – io sono garantista, aspetto le sentenze – ma perché denota una visione proprietaria delle istituzioni. Uno ferma il treno a piacimento, l’altro organizza il veglione con gli spari, il terzo spiffera in Parlamento documenti riservati. Non si capisce se è il partito di maggioranza o il cast di un cinepattone. Ma loro non fanno ridere».
A suo avviso dopo le Europee il governo entrerà in affanno?
«È già in affanno ma lei è bravissima a nasconderlo. Devono trovare 15 miliardi per il 2024 e 35 miliardi per il 2025. Per sei mesi la premier anestetizzerà tutto con la campagna elettorale. Si atteggerà a statista in politica estera dove pure non tocca palla. Cannibalizzerà Salvini e Tajani e a luglio gestirà il rimpasto da un punto di forza».
Alla conferenza stampa, la premier ha assunto un atteggiamento diverso dal solito, più morbido: forse intende puntare anche ai voti dei moderati, cioè gli stessi ai quali mirate voi.
«Lei svuoterà Forza Italia. Chi tra gli elettori di Berlusconi non vorrà votare una sovranista e giustizialista che ha aumentato le tasse, allora voterà per noi. Tajani è irrilevante da sempre, oggi ancora di più. Un moderato che votava Forza Italia eleggeva Berlusconi, adesso elegge Gasparri. C’è un po’ di differenza, diciamo».
Meloni si è scelta come avversaria Schlein, tagliando fuori Conte: secondo lei perché?
«Perché è una operazione win win per entrambe. L’una ha bisogno dell’altra. Conte ha un altro stile e per certi versi la Meloni lo soffre di più: sul Mes, sulla Rai, sul populismo Conte è la vera stampella di Giorgia. Conoscendo Conte poi potrebbe persino allearsi all’ultimo minuto con la Meloni: uno che passa da Salvini a Zingaretti è capace di tutto».
(da agenzie)

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FERROVIE, CDS, SOGEI E RAI: SI RIAPRE LA PARTITA DELLE NOMINE CON IL RINNOVO DI 63 CDA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

LA TELA DI PARTITI E GOVERNO NELLA CACCIA ALLE POLTRONE

Le grandi manovre sono cominciate. Anche se secondo alcuni è ancora “troppo presto” e nessuno, dicono dal governo, ci ha ancora «messo la testa». Ma in primavera si aprirà una nuova tornata di nomine che toccherà alcune partecipate strategiche a partire da Fs (che deve mettere a terra parecchi miliardi del Pnrr) e Anas (al centro dell’inchiesta sugli appalti che ha portato ai domiciliari Tommaso Verdini), fino a Cassa depositi e prestiti.
Una partita su cui potrebbero tornare in azione quelle lobby cui, stando a fonti di maggioranza, si riferiva Giorgia Meloni parlando di chi “pensava di dare le carte”, assicurando di essere intenzionata a muoversi libera da “condizionamenti”.
Fatte la scorsa primavera le scelte per le grandi partecipate pubbliche, quest’anno toccherà a una serie di società sia a diretto controllo del Mef come Sogei e Sose, ma anche Cinecittà, il Gse e Invimit, sia di numerose società controllate indirettamente attraverso le capogruppo (tra le tante Open Fiber, tra le 5 partecipate indirettamente da Cdp con gli organi in scadenza): in tutto si tratta, stando a un dossier del Servizio per il controllo Parlamentare della Camera) di 63 Cda (di cui 48 di secondo livello).
Per Cdp, uno degli strumenti pubblici più potenti in campo economico e che ha visto espandere la sua attività in questi anni, la partita coinvolge anche delle fondazioni.
Gli enti sono azionisti di minoranza dopo il Mef e, per statuto, esprimono il presidente mentre la maggioranza del cda e l’ad sono di nomina governativa. Un ricambio al posto dell’attuale amministratore delegato Dario Scannapieco appare sempre più probabile ma l’esecutivo non ha ancora espresso una scelta.
Le rose di nomi circolate vanno da Antonino Turicchi (presidente di Ita e peraltro già dg della Cassa in passato) e a due banchieri, Gaetano Miccichè di Intesa e Alessandro Daffina di Rotschild Italia.
Il nome non dovrà comunque essere sgradito alle stesse fondazioni che tuttavia, assieme alla loro associazione Acri, sono in una fase di cambio dei vertici.
Il presidente, Francesco Profumo, lascerà la carica a maggio dopo aver cessato il suo mandato alla Compagnia di San Paolo, grande azionista di Intesa Sanpaolo.
All’Acri i nomi in discussione sarebbero quelli del presidente della Crt Fabrizio Palenzona, politico, manager e banchiere di lungo corso e del numero uno di Cariplo Giovanni Azzone. Altra partita di primo piano quella della Rai su cui, come ha chiarito la premier, è in atto un “riequilibrio” dopo anni di scelte dettate, il suo ragionamento, dal centrosinistra.
Per la tv pubblica si dovrebbe profilare una staffetta tra l’attuale ad Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi. Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Mentre per la presidenza sarebbe al momento quello di Simona Agnes il nome in pole position, attuale consigliere Rai (in quota Fi).
(da La Stampa)

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NEL GIOCO DELLE TRE CARTE SUL PNRR, A RIMANERE FREGATI SONO I SINDACI: NONOSTANTE LE PROMESSE DI FITTO, NON CI SONO LE RISORSE NAZIONALI PER TUTTI I PROGETTI DEI COMUNI USCITI DAL RECOVERY DOPO LA RIMODULAZIONE (IN BALLO 17 MILIARDI DI EURO)

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

GIORGETTI NON APRE IL PORTAFOGLI: UNA CIRCOLARE DELL’ECONOMIA BLOCCA I FINANZIAMENTI…DALLA QUINTA E DALLA SESTA RATA LA COMMISSIONE UE HA CONGELATO PER ORA 10,6 MILIARDI

Giorgia Meloni non ha parlato molto del Piano nazionale di ripresa e resilienza nella conferenza stampa di inizio anno. Ma la premier ha confermato che presto un decreto concretizzerà la revisione del Pnrr e, senza citare il Piano, ha indicato fra le priorità del 2024 due delle sue grandi aree quali giustizia e burocrazia.
Restano dei nodi da sciogliere: a oggi non si sono reperite le risorse nazionali per tutti i progetti dei comuni usciti dal Pnrr, come promesso dal governo; i dati della spesa già rendicontata restano bassi; dalla quinta e dalla sesta rata, relative agli obiettivi di dicembre scorso e giugno prossimo, la Commissione Ue ha congelato per ora 10,6 miliardi di euro in aggregato su un totale di 31,2 miliardi, perché c’è affanno nell’attuazione di alcune misure
Le risorse mancanti
La revisione esclude dal Pnrr progetti dei comuni per quasi 10 miliardi. Il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto è sempre stato convinto che molti di quei piani fossero pulviscolari e di bassa qualità, mentre andavano reperite risorse per i grandi progetti industriali dell’energia. La Commissione Ue ha condiviso questa impostazione.
Fitto si è comunque impegnato con i comuni a rifinanziare i loro piani con risorse nazionali e ora i progetti in cerca di coperture, secondo due diversi osservatori informati, varrebbero 17 miliardi di euro. Su di essi si registrano tensioni fra la struttura di Fitto e il ministero dell’Economia.
Nei giorni scorsi il ministero di via XX Settembre ha emanato una circolare, destinata a diventare norma, che blocca l’accesso ai fondi delle opere già definanziate dal Pnrr. Per queste ora si cercano risorse nel Fondo di sviluppo e coesione (che però ha uno stretto vincolo territoriale a favore del Sud), nel Fondo nazionale complementare al Pnrr da 31 miliardi e nei fondi regionali europei.
Il ministero dell’Economia non intende ampliare le emissioni di debito, eppure circa la metà dei piani comunali usciti dal Pnrr per ora è senza copertura. Si cercherà di dare la priorità ai progetti più avanzati; ma alcuni fra questi o quelli del Fondo complementare resteranno fermi in attesa di tempi migliori.
La spesa e le rate
Sui livelli di spesa del Piano si saprà di più quando il governo presenterà al Parlamento la sua relazione sul Pnrr per il 2023. Per ora quella rendicontata dalla Ragioneria sembra essere di circa 16 miliardi per gli incentivi automatici (Superbonus e altri) e 12 per appalti e contratti. Non molto su 194 miliardi e anche per questo il governo ora fa appello all’efficienza delle grandi società partecipate. Un certo affanno si nota anche sulle riforme.
La quinta rata (dicembre 2023) avrebbe dovuto essere da 20,6 miliardi e invece sarà di 12,1, soprattutto perché sono rinviate di un anno e mezzo otto misure contro i ritardi di pagamento dello Stato. La sesta rata (giugno 2024) avrebbe dovuto essere di 12,6 miliardi ma, a sei mesi dalle scadenze, si è già concordato fra Bruxelles e Roma che sarà di 10,5 miliardi perché sono rinviati di due anni gli obiettivi sulle rete delle ricariche elettriche, di sei mesi le centrali per la telemedicina e vari progetti su irrigazione e reti fognarie.
Certo questi ritardi vanno messi in prospettiva, perché l’Italia resta il solo Paese ad aver già potuto chiedere la quinta rata. Ma essi sottolineano la delicatezza dell’anno che inizia, nella distrazione quasi generale del Paese e di ampie parti dello stesso governo.
(da Il Corriere della Sera)

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