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PATTO PER GLI ANZIANI, QUANDO SI SCOPRE CHE IL GOVERNO LI HA PRESI PER IL CULO

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

L’INCREMENTO DI ACCOMPAGNAMENTO NON RIGUARDA 14 MILIONI DI ANZIANI, MA SONO 25.000, OVVERO IL 2,5% DEGLI OVER 80 “GRAVISSIMI” E CON ISEE INFERIORI A 6.000 EURO… NON SOLO, IN MOLTE REGIONI GIA’ ESISTE E NON E’ CUMULABILE CON IL NUOVO ANNUNCIATO

“Come promesso abbiamo approvato oggi un decreto legislativo attuativo del Patto per la Terza Età: è una riforma di cui andiamo orgogliosi e che l’Italia aspettava da più di 20 anni, solo una tappa di un percorso che andrà avanti per tutta la Legislatura”. Sono le parole delle grandi occasioni, quelle scelte da Giorgia Meloni per annunciare le novità della riforma per l’assistenza agli anziani, che il suo esecutivo ha varato giovedì 25 gennaio, dopo aver lavorato a tappe forzate (la scadenza era il 31 gennaio) sulla norma che era stata avviata in zona Cesarini dal governo Draghi.
Dunque orgoglio, grandi emozioni e anche un fuori programma a sorpresa: l’aumento dell’assegno di accompagnamento da 530 a 1380 euro al mese. Che è poi quello che ha dato fior di titoli ai quotidiani dell’indomani, come pure al Tg1 della sera stessa dove la notizia è stata letteralmente accostata quella sulla data delle elezioni, con un lapsus dall’impatto non trascurabile, vista la polemica sulla “propaganda elettorale” che ne è seguita. “Con più di 1 miliardo di euro in due anni e l’avvio della sperimentazione di una prestazione universale che consentirà di aumentare di oltre il 200% l’assegno di accompagnamento degli anziani più fragili e bisognosi, diamo finalmente risposte concrete ai bisogni dei nostri oltre 14 milioni di anziani, ai non autosufficienti e alle loro famiglie”, ha sintetizzato Meloni confermando sostanzialmente le anticipazioni della vigilia e rilanciando le entusiastiche dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa post consiglio dei ministri dalla viceministra del Lavoro, Maria Teresa Bellucci.
Anche se poi, scava scava, non è tutto oro quello che luccica.
Non tanto e non soltanto perché la montagna ha partorito un topolino, visto che l’incremento dell’assegno avverrà con una specie di voucher da spendere in prestazioni assistenziali da 850 euro al mese, 150 in meno dei mille inizialmente previsti e nella sperimentazione andrà solo agli ultraottantenni disabili gravissimi, non autosufficienti certificati Inps e con un Isee inferiore ai 6mila euro.
Cioè al massimo 25mila persone in tutta Italia, contro una platea di 3,8 milioni di ultrasessantacinquenni non autosufficienti e di 14 milioni di anziani.
Piuttosto il punto è che in molte regioni d’Italia agli invalidi gravissimi viene già distribuito agli aventi titolo un assegno di cura variamente denominato che attinge al fondo per la non autosufficienza e va da 350 a 1200 euro al mese, con limiti Isee decisamente superiori a 6.000 euro, ma sempre da spendere per l’assistenza regolarmente contrattualizzata.
Per fare alcuni esempi, dalla Lombardia alla Liguria, passando per la Campania, la Puglia (tutte arrivano a ridosso dei 1200 euro al mese), il Lazio con Roma che sostiene l’assistenza con assegni fino a 800 euro, il Molise (500 euro al mese oltre a varie misure aggiuntive), fino all’Emilia Romagna che è tra le meno generose con circa 400 euro al mese.
La somma scende se l’invalidità è grave invece di gravissima e/o se a prendersi cura dell’invalido è un parente (il caregiver) invece di un professionista, attestandosi in genere sui 400- 350 euro al mese.
In alternativa ogni Regione, che solitamente opera di concerto con Asl e Comuni, stanzia fondi per le cosiddette Rsa aperte e/o altre forme di assistenza, ovvero per coprire la quota sanitaria del ricovero in Rsa. Invece i Comuni dovrebbero coprire la cosiddetta quota alberghiera per i gravissimi incapienti, previe rigorose verifiche su Isee e patrimoni dell’interessato e delle relative famiglie, con soglie comunque superiori ai 6mila euro. In alternativa sta sempre ai Comuni provvedere all’assistenza domiciliare e all’invio a casa dei pasti per i più poveri.
Questo perché la spesa assistenziale per un non autosufficiente è ben superiore sia all’importo dell’accompagnamento, sia a quello dell’accompagnamento rafforzato a 1.380 euro al mese.
Secondo la definizione di non autosufficienza la persona non è in grado di compiere da sola le funzioni essenziali della vita quotidiana, come nutrirsi, spostarsi, vestirsi, lavarsi e ha bisogno di essere aiutata 24 ore su 24 da personale spesso specializzato, senza contare le cure sanitarie.
Per un costo mensile non da poco: soltanto una badante non qualificata a tempo pieno costa almeno 1.300 euro al mese (si sale a minimo 1.800 euro per il personale qualificato) oltre tredicesima, tfr e ferie, somma cui va aggiunto il costo della sostituzione del finesettimana, per un totale che supera i 2.000 euro al mese. Oltre alle spese per la casa, i presidi (pannoloni che le Asl lesinano, le traverse, i prodotti specifici per l’igiene degli allettati e per l’alimentazione dei disfagici) i fisioterapisti e gli infermieri per le terapie complesse.
L’assegno rafforzato per i più poveri, spiegano dal ministero del Lavoro a ilfattoquotidiano.it, non si sommerà agli assegni di cura nelle loro declinazioni regionali, ma sarà alternativo.
Cioè l’utente sarà libero di scegliere tra l’assegno di cura e lo stanziamento statale, al quale va comunque aggiunto, l’assegno d’inclusione di 780 euro al mese.
Quindi l’esecutivo Meloni ha scelto di puntare più della metà dei soldi attinti da fondi Pnrr, Fondi Ue e Fondo per la non autosufficienza – in cifre quasi 600 milioni di euro su un totale di 1 miliardo – per inserire questa, chiamiamola variabile, che riguarderà al massimo il 2,5% degli ultraottantenni gravissimi e non autosufficienti e lo 0,2% dei 14 milioni di anziani d’Italia, che dovrebbero essere già coperti da Asl, Regioni e Comuni.
Una spesa consistente, vista la scarsità dello stanziamento complessivo, ma comunque non risolutiva e non coerente con la riforma che invece sulla carta punterebbe ad armonizzare e ottimizzare il lavoro di Inps, Regioni, Asl e Comuni. Cosa che in questa sperimentazione non si vede.
E lo fa all’interno di quello che qualcuno definisce il capitolo “più innovativo della riforma”, cioè la già contestata Prestazione universale con cui la legge delega punta a riformare l’indennità di accompagnamento di circa 530 euro al mese che oggi l’Inps versa senza limitazione di Isee agli anziani non autosufficienti totali come riconosciuti da una commissione mista Inps-Asl.
Questo assegno d’invalidità rappresenta una goccia nell’oceano delle necessità di chi lo riceve, naturale che le associazioni più vicine ai dettami costituzionali lo difendano a spada tratta.
Tanto più che la riforma, come detto, punta a mescolarlo alle prestazioni assistenziali che afferiscono al sociale, unendo così socio e sanitario, che pure hanno livelli di assistenza e di prestazioni differenti, con la quota sociale limitata alle disponibilità di budget, mentre quella sanitaria non lo è.
Ma il fatto che la persona non autosufficiente – vecchia o giovane – sia un malato, quindi un paziente da curare obbligatoriamente tramite il Ssn indipendentemente dal suo Isee, è innegabile.
E la proposta di integrare assegno e prestazioni assistenziali fa suonare più di un campanello non tanto perché tocca l’assegno, quanto perché con il solo fatto di convertire la pensione di invalidità in ore di infermiere o simili, introdurrebbe per legge il principio che un malato cronico non autosufficiente debba pagarsi le prestazioni sanitarie che dovrebbe comunque ricevere, se gli sono dovute per le sue condizioni di paziente. Invece aumentarle facendole pagare all’utente con il suo assegno di invalidità non è accettabile.
Così le associazioni riunite nel Coordinamento per il diritto alla sanità per le persone malate e non autosufficienti (Cdsa), forti anche del parere diGiovanni Maria Flick, giurista e presidente emerito della Corte Costituzionale, temono soprattutto che, al di là della bontà o meno delle intenzioni, alla prova dei fatti la riforma finisca paradossalmente con il salvataggio dei conti del Sistema sanitario nazionale a spese della popolazione anziana che ne verrebbe esclusa.
(da Il Fatto Quotidiano)

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VIOLENZA SULLE DONNE, L’ISTAT: “ORA LE DONNE DENUNCIANO DI PIU'”

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

“IL CASO CECCHETTIN E IL FILM DI CORTELLESI HANNO ACCESO IL DIBATTITO”… “DENUNCE FINO A 3 VOLTE PIU’ DEGLI ANNI PRECEDENTI”

Se se ne parla si denuncia. Nel 2023 le richieste ricevute dal numero verde di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, il 1522, sono state 51.713, in aumento rispetto agli anni precedenti (+143% è la variazione rispetto al 2019, +59% rispetto al 2022). Si tratta di un incremento che nell’ultimo trimestre 2023 è particolarmente accentuato, «spesso a causa della grande risonanza della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre» e anche «per gli effetti sull’opinione pubblica dell’omicidio di Giulia Cecchettin». La conferma, nero su bianco arriva durante un’audizione Commissione Parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, dove Saverio Gazzelloni, direttore della Direzione centrale delle statistiche demografiche e del censimento della popolazione ha illustrato gli ultimi dati sul fenomeno.
«L’aumento delle chiamate al 1522 nel IV trimestre si verifica ogni anno, a causa della grande risonanza della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre», spiega a Open la dottoressa Maria Giuseppina Muratore, dirigente di ricerca del Servizio Registro della popolazione, statistiche demografiche e condizioni di vita. «Nel 2023, tuttavia, l’incremento registrato è particolarmente evidente anche rispetto agli stessi trimestri degli anni precedenti, come dimostrano i numeri (+302,9%, +238,3%, +108,8% e 142,5% le variazioni dal 2019 al 2022)», precisa Muratore. «È probabile che le richieste di aiuto ed informazioni al 1522 siano state ancora più accentuate dal dibattito pubblico che si è creato intorno all’omicidio di Giulia Cecchettin, ma non si può parlare di correlazione statistica tra i due fenomeni», precisa la dirigente. «Va ricordato inoltre che nello stesso periodo di novembre 2023 è stato approvato il disegno di legge Roccella “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”, già presentato precedentemente, che ha sicuramente mosso l’opinione pubblica, così come la visione del film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani“».
Il 31,3% delle telefonate è per assistenza contro casi di violenza, ma in tante chiamano per chiedere informazioni sul servizio (33,5%) e sui Centri Antiviolenza (11,6%). Sono in gran parte donne le richiedenti 79,7%. E sono di più rispetto all’anno precedente. Nel 2023 16mila e 283 persone hanno chiamato il 1522 più 36,7 rispetto al 2022. L’87,2 per cento di queste donne sono italiane.
Spesso chi chiama denuncia violenze che vanno avanti da anni
La decisione di intraprendere un percorso per uscire dalla violenza sembra arrivare a distanza di anni dall’inizio della violenza stessa. Per il 41,3% delle donne che si rivolgono all’1522 sono passati più di cinque anni dai primi episodi di violenza subita, per il 33,5% da uno a cinque anni, per il 13,5% da sei mesi a un anno e solo per il 7,1% delle donne che chiamano hanno un percorso si sei mesi tra violenza subita e l’inizio del percorso presso il Centro anti violenza. Chi chiama ha prevalentemente tra i 40 e 49 anni (27,5 per cento), seguono le 30-39enni (24,6 per cento). Solo il 18,6 per cento delle donne ha sotto i 29 anni mentre le giovanissime sono lo 0,3 per cento. Il 66,7% di loro denuncia una violenza fisica, il 50,7% una minaccia, l’11,7% uno stupro o tentato stupro. Oltre a loro c’è una fetta, non irrilevante, il 14,4%, che ha subito altre tipologie di violenze ovvero quelle online, revenge porn, costrizioni umilianti. Quasi nove donne su 10 denunciano una violenza psicologica in concomitanza con altre forme di violenza.
L’abbandono dei pronti soccorso
Nel 2022 gli accessi delle donne in Pronto Soccorso con indicazione di violenza sono stati 14.448, in aumento rispetto agli accessi registrati nel 2021 (12.780, +13%). L’Istat segnala però un fenomeno particolare, l’abbandono dell’ospedale prima della fine della visita. Nel 4% dei casi questo avviene prima o durante gli accertamenti, mentre il 3% delle donne lascia il pronto soccorso dopo la visita rifiutando il ricovero. Non solo: ai PS la quota di codici gialli è sensibilmente aumentata. Nel 2017 era il 12,8% mentre nel 2020 sale al 25,1%. Questo per via delle “Linee guida nazionali per le aziende sanitarie e ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle donne che subiscono violenza” che prevedono una codifica gialla o similare in modo tale da avere meno tempi di attesa.
Femminicidi, le differenze rispetto agli anni precedenti
Secondo quanto ricostruito da Istat i primi dati relativi agli omicidi commessi nell’anno 2023, appena diffusi dal Ministero dell’Interno, indicano un moderato aumento dei casi di omicidio volontario: dai 322 del 2022 si passa a 330. Stiamo parlando degli omicidi in generale sia su uomini che donne. Mentre, per l’anno in corso, i femminicidi sarebbero meno rispetto allo scorso anno.
«A fronte di un aumento per gli uomini, gli omicidi di donne diminuiscono dai 126 del 2022 ai 120 del 2023», recita il report illustrato in Commissione. Le analisi realizzate nel corso degli anni indicano che, in misura stabile, oltre la metà degli omicidi «sono attribuiti al partner o all’ex partner della donna uccisa e circa il 20% ad altri parenti; 4 omicidi su 5 avvengono quindi nell’ambito familiare». I femminicidi sono in diminuzione o in crescita? «Ancora non sono disponibili i dati sui femminicidi per il 2023. Serve un’attenta analisi prima di poter rilasciare questi dati», precisa a Open Muratore. «Si può dire comunque che i dati sugli omicidi delle donne, pubblicati dal Ministero dell’Interno, siano in diminuzione per le sole donne, dai 126 del 2022 ai 120 del 2023», spiega Muratore. Nel 2022 i femminicidi sono stati 106 su 126 omicidi di donne (nel 2021 erano 104 su 119 omicidi con una vittima donna, nel 2020 104 su 116). Nel dettaglio le donne uccise dal partner o ex partner sono 61; gli omicidi a opera di un altro parente sono 43, mentre una donna è stata uccisa da un conoscente con movente passionale e una uccisa da sconosciuti, nell’ambito della criminalità organizzata.
(da agenzie)

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IL PARTITO CONSERVATORE BRITANNICO SCARICA IL PREMIER, RISHI SUNAK: L’EX MINISTRO SIMON CLARKE NE HA CHIESTO PUBBLICAMENTE LA RIMOZIONE, PER EVITARE UNA DISFATTA COLOSSALE ALLE PROSSIME ELEZIONI

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

IL GOLPE È STATO DISINNESCATO SOLTANTO PER NON CAMBIARE IL QUARTO PRIMO MINISTRO IN UN ANNO E MEZZO, MA PER SUNAK, CHE HA TROVATO UNA GRANDE INTESA CON GIORGIA MELONI, È SOLO QUESTIONE DI TEMPO

Estinzione o regicidio? È il dilemma di fronte al quale si sono dilaniati in questa ultima settimana i conservatori britannici, fra trame, voci e complotti. Tutto parte da un sondaggio che ha mostrato come alle prossime elezioni (previste entro l’anno) il partito di governo sarebbe letteralmente spazzato via, ridotto a «macerie fumanti», come ha detto Lord Frost, l’ex negoziatore per la Brexit.
Passa qualche giorno e un ex ministro, Simon Clarke, chiede pubblicamente la rimozione del premier Rishi Sunak, ormai incapace di evitare la disfatta. Quello di Clarke si rivela essere un golpe solitario, perché nessuno segue il suo appello: ma in realtà ha dato voce a quello che nel partito molti pensano, ossia che sia meglio rischiare il tutto per tutto e sostituire l’«inutile» Sunak con qualcuno di maggiore appeal .
Il problema, però, è che si tratterebbe del quarto primo ministro in un anno e mezzo (dopo Johnson, Truss e Sunak): non un grande esempio di stabilità per i conservatori. Il premier sembra dunque aver evitato la pugnalata immediata, ma ne è uscito indebolito: e c’è chi dice che la sua caduta sia solo questione di tempo.
Chi dopo di lui? La favorita della base è Kemi Badenoch, ministra dell’Industria e del Commercio, carismatica immigrata nigeriana. Ma all’orizzonte si staglia l’ombra di Mr Brexit, ossia Nigel Farage: che potrebbe essere tentato di scalare i conservatori e trasformarli definitivamente in un partito nazional-populista di destra
(da agenzie)

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CASO POZZOLO, ECCO PERCHE’ IL DEPUTATO CONTINUERA’ A DIRE DI NON AVER SPARATO

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

LA STRATEGIA DIFENSIVA DEI SUOI AVVOCATI: “PER NOI L’ESAME DELLO STUB NON E’ INDICATIVO”

Un giorno l’onorevole Emanuele Pozzolo dirà ufficialmente la sua versione dei fatti sul capodanno dei pistoleri. Questa è l’unica certezza. Parlerà eccome, a costo di inimicarsi l’amico di una vita, il sottosegretario alla Giustizia, «il fratello» Andrea Delmastro.
Parlerà perché sa di essere politicamente bruciato. Dopo essere stato espulso dalla Lega, ora è sospeso da Fratelli d’Italia. Parlerà perché ritiene di essere stato sacrificato dal partito, nonostante non sono sia stato lui a premere il grilletto per errore: «Per salvare qualcun altro, buttano me giù dalla torre».
Quando arriverà l’esito definitivo della perizia balistica e dopo averla studiata con l’avvocato Andrea Corsaro, l’onorevole Pozzolo chiederà di essere sentito in procura. Quel giorno ripeterà quanto ha sempre sostenuto: «Non sono stato io».
Il suo partito sembra aver fretta di archiviare il caso. Lo dimostrano certe dichiarazioni di questi giorni, dopo l’esito positivo dello Stub. «A questo punto mi pare evidente che sia stato lui a sparare» ha detto Giovanni Donzelli, il responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia alla Camera. E il capogruppo Tommaso Foti ha rincarato la dose: «Se Pozzolo avesse detto subito che era stato lui, non ne avremmo parlato per un mese».
Lo accusano di aver sparato tre persone presenti alla festa di capodanno nell’ex scuola elementare di Rosazza. Ma sono tre parenti. Tre persone legate strette da una storia comune. Perché il ferito è sposato con la figlia di Pablito Morello. Ed è proprio lei, l’unica esterna alla scena, a confermare la versione che vede Pozzolo nei panni del pistolero. Tre parenti. Ma nessun altro invitato che abbia visto e confermato la scena.
Poi lo Stub. Proprio l’esame che i compagni di partito giudicano univoco e dirimente, invece potrebbe non esserlo.
È scritto nelle stesse carte dei carabinieri del Ris: «Posto che la tecnica non si presta a determinare con certezza il soggetto sparatore secondo la logica bayesiana che caratterizza le scienze forensi, andrebbe determinata quale sia la più probabile fra due ipotesi tra loro concorrenti».
Insomma: lo Stub sarebbe molto più indicativo se l’esame fosse stato fatto anche al capo scorta della polizia penitenziaria Pablito Morello. Nel rapporto fra le due esposizioni alla polvere da sparo, si sarebbe capito con maggiore sicurezza chi aveva premuto il grilletto. Ma qui c’è una sola persona che ha tracce sulle mani e sui vestiti. Perché è l’unica persona che ha dovuto sottoporsi ai prelievi della scientifica.
«Per noi l’esame dello Stub non è indicativo», va ripetendo l’avvocato Corsaro. «Indica soltanto che l’onorevole Pozzolo era presente. E Pozzolo non ha mai negato di essere stato nelle vicinanze dell’area dello sparo. Quindi il fatto che ci sia una generica positività era scontato fin dall’inizio».
Sull’arma verrà fatta una perizia specifica. Ma il capo scorta Morello ha già spiegato che le sue impronte verranno trovate certamente. «Dopo lo sparo ho preso la pistola e l’ho messa al sicuro». Ma anche questo è un comportamento che può sembrare anomalo dopo un fatto del genere. Non si tocca «l’arma del delitto». Lo sanno tutti. A maggior ragione dovrebbe saperlo un agente di polizia.
C’è poi, ancora, la questione dei tempi: come mai il ferito ha aspettato tre giorni prima di presentare querela? Cosa è successo in quei tre giorni?
Sono queste le ombre del caso. E dentro a queste ombre verrà combattuta la battaglia legale.
Perché – si chiede Pozzolo – scaricano lui per salvare il capo scorta di Andrea Delmastro?
(da La Stampa)

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POSIZIONARE ARMI NUCLEARI NEL REGNO UNITO E UN CAMBIO DI STRATEGIA

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

ECCO IL PIANO SEGRETO DELL’AMERICA SUL CONFLITTO IN UCRAINA

Cambio di passo dell’amministrazione di Joe Biden sul dossier ucraino. Gli Usa lavorano a una strategia di lungo termine volta a sostenere Kiev che non passa tuttavia per la riconquista dei territori occupati dalla Russia. Secondo quanto riferito dal Washington Post, il piano messo a punto dagli Stati Uniti, azionista di riferimento del conflitto in Ucraina, punta ad aiutare il Paese dell’Europa orientale nel neutralizzare nuove avanzate russe, rafforzandone la capacità di combattimento e l’economia entro il 2024, sostenendo le operazioni militari a breve termine e creando una futura forza militare ucraina che scoraggi aggressioni russe.
Gli Usa pensano anche a piani, che coinvolgono altre nazioni, per ricostituire ed espandere il settore industriale e le esportazioni e assistere Kiev nelle riforme politiche necessarie all’integrazione nelle istituzioni occidentali. Il piano costituisce un netto cambio di passo rispetto allo scorso anno, quando gli Usa e le forze armate alleate avevano inviato armi e garantito addestramento alle forze ucraine nella speranza di una controffensiva che si è rivelata tuttavia limitata. A questo si aggiunge l’esaurimento dei fondi Usa destinati a Kiev e lo stallo degli stanziamenti medesimi al Congresso. Secondo un altro rapporto, inoltre, Washington punta a posizionare armi nucleari nel Regno Unito per la prima volta in 15 anni in risposta alla «crescente minaccia» rappresentata dalla Russia. Secondo quanto riportato dal Telegraph, testate tre volte più potenti della bomba di Hiroshima sarebbero posizionate presso la Raf Lakenheath nel Suffolk. Recentemente reiterati appelli su entrambe le sponde dell’Atlantico invitavano Londra a prepararsi in caso di una potenziale guerra tra le forze Nato e la Russia.
(da La Stampa)

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IL MINISTRO DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE E COGNATO D’ITALIA, FRANCESCO LOLLOBRIGIDA, DI FRONTE ALLE PROTESTE “DEI TRATTORI” PRENDE POSIZIONE: “IL GOVERNO STA DALLA PARTE DEGLI AGRICOLTORI, LA VERITÀ È CHE LE POLITICHE DELL’UE SONO STATE FOLLI”.

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

VEDREMO COSA SUCCEDERÀ QUANDO I SUOI CARI COLTIVATORI SI ACCORGERANNO CHE ANCHE IL SUO GOVERNO NON POTRÀ FARE NULLA (ANZI) PER EVITARE L’AUMENTO DEI COSTI E DARE UNA SFOLTITA ALLA BUROCRAZIA

Si chiama «la protesta dei trattori». E sta unendo, per ora, l’Europa come non sempre riesce a fare la politica. Tutto è cominciato in Germania, a metà dicembre.
Alle manifestazioni si sono poi uniti coltivatori e allevatori di Francia, Grecia, Belgio e Lussemburgo (in Francia, le barricate stradali con camion e trattori ricordano i blocchi attuati nel 2018 dai «gilet gialli», la cui azione paralizzò a lungo il Paese).
Negli ultimi giorni, il contagio della protesta è arrivato anche in Italia. Le azioni sono spontanee e si formano dal basso. La giornata di ieri ha segnato una svolta. Centinaia di trattori hanno occupato strade e piazze in diversi punti della Penisola. La più radicale a Orte (Viterbo).
Più di cento mezzi si sono radunati sulla rotatoria all’ingresso autostradale, sulla A1.
Il casello è stato chiuso per oltre due ore sia in entrata che in uscita. Si leggeva sui cartelli dei manifestanti: «Non vogliamo sussidi, vogliamo il giusto prezzo per ciò che produciamo». «Sosteniamo il made in Italy». Altre due manifestazioni si sono svolte a Enna e a Pescara.
Gli agricoltori non sono una categoria omogenea. La realtà è complessa. Ma in genere il forte malcontento trae origine da alcuni fattori: aumenti dei costi, eccesso di burocrazia, difesa dei sussidi europei, tasse elevate.
Evocato in vario modo dai manifestanti, il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, ha precisato la posizione del governo. Spiegando che c’è una differenza tra la situazione italiana e quella delle altre proteste europee: «Il governo Meloni è dalla parte degli agricoltori senza se e senza ma. Da noi non c’è un governo da convincere come sta avvenendo in altre nazioni. La verità è che le politiche dell’Ue, avallate dai governi che ci hanno preceduto, sono state semplicemente folli. Mentre l’Italia ha mantenuto i benefici sul carburante agricolo e non ha intenzione di cambiare questa scelta».
La protesta dei trattori è comunque destinata a durare. Almeno stando alle parole e alla rabbia di chi la porta avanti. Raduni sono previsti martedì prossimo in varie zone della Lombardia, in Toscana e in Sardegna dal movimento «Riscatto Agricolo». Mercoledì un altro gruppo sta organizzando a Verona un grande presidio in occasione dell’inaugurazione di Fieragricola.
(da il Corriere della Sera”)

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LE TESTATE DI TUTTO IL MONDO COLLASSANO TRA RICAVI A PICCO, LICENZIAMENTI, SCIOPERI E LA MINACCIA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE CHE INCOMBE

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

UNA CRISI CHE SOLO APPARENTEMENTE SOMIGLIA A QUELLA DEL 2008: QUESTA VOLTA NESSUNO SI LASCIA ANDARE ALL’OTTIMISMO

Non è passato poi così tanto tempo da quando l’acquisto di un quotidiano storico da parte di un miliardario era un segno di speranza e ottimismo. Dopo tutto, i miliardari avevano denaro da buttare via e si erano guadagnati i loro patrimoni creando qualcosa di nuovo. Magari potevano anche capire come far funzionare i media?
E che dire dell’attività di private equity, ovvero la sfera d’investimenti finanziari fondata sui piani di risanamento? Si acquisiscono aziende dai bassi rendimenti, le si reinventa e le si porta al successo.
O prendiamo le storiche testate giornalistiche di proprietà familiare: si mantiene l’attività nell’ambito della famiglia senza l’obiettivo di profitti eccessivi, giusto quel livello di stabilità sufficiente a mantenere vivi nome e retaggio.
Purtroppo, a quanto pare, nessuna delle suddette categorie risulta in grado di salvare il declinante settore dei media, nel quale i modelli di business sono ancora inchiodati al passato (programmaticità, questa sconosciuta!) e i modelli editoriali sono pensati per un mondo antecedente a Facebook, Tik Tok e all’intelligenza artificiale.
Il settore del media sta affrontando una crisi che non si vedeva dal caos finanziario del 2008, caratterizzata da licenziamenti e tagli dei costi a ogni piè sospinto. I tagli hanno tutti avuto luogo nel contesto del calo di lettori sul web che ha colpito molti principali editori. Mentre giganti tecnologici come Meta (Instagram, Facebook) e Google si sforzano di trattenere i consumatori sulle loro piattaforme, i vecchi punti di riferimento quali Twitter/X non attirano più tanti lettori e il panorama dei social media si frantuma.
Solo questo mese Washington Post, Los Angeles Times, Time, Condé Nast, Sports Illustrated, Business Insider, New York Daily News, National Geographic e Baltimore Sun hanno fatto notizia per licenziamenti, tagli dei costi, scioperi e fosche previsioni
Benché la vendita a un fondo di Private Equity non sia mai stata accolta di buon grado da qualsivoglia redazione, un decennio fa l’emergenza di acquirenti facoltosi lo era ampiamente, partendo dal presupposto che – grazie a uno sconfinato conto in banca – il settore delle news avrebbe avuto tempo – e sovvenzioni – per capire che futuro avesse.
L’accordo più degno di nota, ovviamente, vide protagonista l’uomo più ricco del mondo: Jeff Bezos, che nel 2013 acquisì il Washington Post per 250 milioni di dollari. Ma cotale operazione finanziaria all’epoca era ben lungi da essere un caso isolato.
Ricordate quando il co-fondatore di Facebook Chris Hughes acquisì il New Republic? O quando il fondatore di eBay Pierre Omidyar pompò milioni e milioni in una nuova impresa chiamata First Look Media? O quando BuzzFeed rifiutò l’offerta di un miliardo di dollari della Disney? O quando il New York Times si preoccupava dell’HuffPost?
Le operazioni finanziarie di cui sopra sono decisamente un lontano ricordo, visto che Hughes ha scaricato il New Republic nel 2016, che First Look Media licenzia i dipendenti di aziende di sua proprietà quali Intercept e Topic Studios, e che BuzzFeed quota 22 centesimi per azione dopo aver chiuso la sua divisione news e aver acquisito l’HuffPost. E ovviamente il Washington Post di Bezos il mese scorso ha tagliato centinaia di posti di lavoro ricorrendo al cosiddetto “buyout” dei dipendenti, facendoli quindi subentrare nella proprietà così da evitare i licenziamenti.
Naturalmente, nel settore dei media un decennio fa può benissimo equivalere a una vita fa. Ma anche operazioni finanziarie più recenti hanno mostrato segni di tensione, o in alcuni casi di collasso.
Basti guardare il Los Angeles Times di proprietà del dottor Patrick Soon-Shiong, il miliardario del biotech che ha acquisito il Times da Tronc (ricordate?) per 500 milioni di dollari nel 2018. Ora il patrimonio di Soon-Shiong è in ambasce, con il valore del suo azionariato crollato di miliardi di dollari negli ultimi anni, secondo alcuni rapporti.
Questo mese il veterano dell’emittente televisiva ESPN e del Washington Post Kevin Merida, la cui assunzione fu motivo d’orgoglio per Soon-Shiong, si è dimesso prima di sostanziali e dolorosi tagli ai posti di lavoro (e nel bel mezzo di scontri con la figlia del miliardario). “La decisione di oggi è dolorosa per tutti, ma è imperativo agire d’urgenza e prendere provvedimenti per costruire un giornale vitale e fiorente per le generazioni future. E ci impegniamo a farlo”, ha dichiarato Soon-Shiong a The Times mentre partivano i licenziamenti.
Giovedì scorso sempre The Times ha dichiarato che Terry Tang sarebbe diventato editor esecutivo ad interim. Secondo le fonti, la redazione ha appreso dell’assunzione non da Soon-Shiong, bensì da The Wrap.
E poi c’è il Time, la pubblicazione fiore all’occhiello della defunta Time Inc., che è stata venduta al fondatore di Salesforce Marc Benioff nel 2018 per 190 milioni di dollari. L’azienda ha fatto progressi, con i suoi Time Studios che adesso totalizzano ricavi per oltre 100 milioni di dollari, circa un quarto degli affari dell’azienda, secondo la CEO Jess Sibley.
Ma come la Sibley ha detto alla redazione in un memo martedì scorso annunciando licenziamenti in azienda: “Negli ultimi dodici mesi abbiamo ridotto con diligenza le nostre spese. C’è ancora del lavoro da fare.” Time, ha notato la CEO, non è ancora remunerativo.
Martedì scorso la rivista Forbes, adesso di proprietà di un gruppo d’investimento con base a Hong Kong, ha annunciato il taglio del tre per cento della sua forza lavoro. E perfino la rivale Bloomberg Businessweek, i cui proprietari vantano grandi disponibilità finanziarie e fanno soldi vendendo decine di migliaia di terminali alle aziende di Wall Street, sta passando alla periodicità mensile.
E poi c’è Sports Illustrated, l’altra grande scommessa del fondatore di Time, Henry Luce. Al momento la rinomata testata è al centro di un tiramolla tra il fondatore della bevanda 5-Hour Energy Manoj Bhargava, che controlla l’azienda editoriale Arena Group, e il fondatore di Authentic Brands Group Jamie Selter, che adesso controlla il brand SI e che l’ha concesso in licenza ad Arena.
La redazione di SI si trova tra due fuochi, con Arena che li licenzia mentre parla di un accordo con ABG, che però contemporaneamente cerca un nuovo concessore di licenze.
Il presupposto secondo cui i grandi patrimoni possano offrire una via d’uscita dal declino dei media sembra dunque andare in pezzi.
Ma nell’ambito del private equity non è andata molto meglio. Questa settimana la redazione del New York Daily News ha scioperato contro i tagli dei costi da parte della proprietaria Alden Global Capital. E Alden ha venduto il Baltimore Sun a David Smith, presidente del Sinclair Broadcast Group. “Cosa c’è ancora dire dei quotidiani americani?” ha dichiarato in risposta il già reporter del Sun e creatore di The Wire David Simon.
Recurrent Ventures, proprietaria di brand come Popular Science e Field & Stream (che è stato appena venduto, secondo AdWeek), ha raccolto 300 milioni di dollari da Blackstone e da allora ha licenziato un’ottantina di persone. E alla Business Insider, che è di proprietà della Axel Springer spalleggiata da KKR, giovedì scorso è stato licenziato l’8 per cento del personale.
I funzionari di Condé Nast, stimatissimo proprietario di Vogue e del New Yorker controllato dalla famiglia Newhouse, hanno tagliato circa il 5 per cento della forza lavoro incorporando Pitchfork dentro GQ, anche se il sindacato che rappresenta la redazione ha respinto alcuni tagli proposti.Il settore dei media ha subito batoste sul lato del business, nel quale la pubblicità programmatica e le operazioni finanziarie con marchi storici vantano ancora ricavi esorbitanti, e sul lato del consumatore, una volta abituato a ricavare notizie dagli organi di stampa tradizionali e che ora sceglie invece di affidarsi a TikTok, Apple News o ad altre pubblicazioni digitali di nicchia.
Per poter avere un’attività pubblicitaria funzionante bisogna soddisfare gli operatori di marketing, e per avere un’attività di abbonamenti funzionante bisogna soddisfare i consumatori, e pare che al momento nessuna delle due categorie venga accontentata.
Senza contare il fatto che l’incombente minaccia dell’Intelligenza Artificiale Generativa non ha ancora avuto il suo impatto sul settore, benché gli addetti ai lavori vedano bene ciò che riserva il futuro, come dimostra il contenzioso legale del New York Times contro Microsoft e OpenAI.
La chiave potrebbe essere questa: nel 2008 il mercato pubblicitario fu bastonato dal crash dei mercati, e nuove piattaforme come Facebook, Twitter e YouTube rappresentarono una minaccia tutta nuova per il business dei media storici. Peccato però che all’epoca gli operatori storici non videro ciò che era in serbo nel futuro.
Nel 2024 ci troviamo di fronte a un’altra crisi pubblicitaria, ma sono tutti più informati su come stanno le cose, e, a differenza del passato quando si mantenne a galla grazie a remunerativi accordi fra operatori televisivi, il settore dei notiziari Tv non sarà immune alla moria di ricavi che ha flagellato giornali e siti web.
Come ha scritto il CEO della CNN Mark Thompson alla redazione lo scorso 17 gennaio: “L’universo della Tv tradizionale si sta riducendo in maniera costante. Il passaggio dalla trasmissione lineare a quella digitale ha portato soltanto negli ultimi due anni a un calo di pubblico pari quasi a un quinto, per quanto concerne i canali televisivi di news via cavo negli Stati Uniti.”
Insomma, pare proprio che nessuno, né i miliardari, né gli esperti di risanamenti della private equity, né le grandi famiglie, abbiano una percezione sicura di come far funzionare la baracca.
(da hollywoodreporter)

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KI GROUP, SOCIETA’ LEGATA A SANTANCHE’, BEFFA LE PARTITE IVA E INGAGGIA IL MANAGER INDAGATO

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

HA RISARCITO I DIPENDENTI UFFICIALI MA HA LASCIATO CON UN PUGNO DI MOSCHE 70 COLLABORATORI A PARTITA IVA

La Ki Group riferibile a Daniela Santanchè ed ora in fallimento ha risarcito i dipendenti ufficiali ma ha lasciato con un pugno di mosche circa 70 collaboratori a partita Iva, alcuni dei quali in azienda da 30 anni. È quanto ha scoperto Report, che questa sera porterà in onda su RaiTre una nuova puntata della vicenda che ha portato la ministra del Turismo ad essere indagata dalla Procura di Milano per il reato di falso in bilancio. La Ki Group, azienda di produzione e distribuzione di prodotti biologici, è una società legata a stretto giro alla Visibilia Srl, l’azienda per la quale Santanchè e il suo ex compagno Canio Mazzaro sono finiti sotto i riflettori dei pm meneghini, dopo gli scoop pubblicati lo scorso anno dal Fatto. Su Ki Group gravano ancora circa 9 milioni di euro di debiti – alcuni nei confronti di aziende note come Danone e Alce Nero – di cui 2,7 milioni derivanti da un prestito di Invitalia (e dunque dello Stato). Tuttavia l’azienda, dopo le polemiche dell’ultimo anno, ha deciso di saldare gli arretrati dei dipendenti. Sono rimasti però ancora a bocca asciutta circa 70 agenti commerciali. “Erano quelli che intrattenevano il rapporto con la clientela – spiega a Report Monica Lasagna, ex responsabile commerciale Ki Group – Erano quelli che hanno fatto insomma la storia dell’azineda. C’era gente che lavorava con noi da almeno trent’anni”. Uno degli agenti, sentito dal cronista Giorgio Mottola, afferma di aver ricevuto meno di 9mila euro a fronte di quasi 65mila di arretrati
Non solo. Report ha scoperto anche che per risanare i conti di Ki Group Holding (diversa da Ki Group srl, che invece è fallita) è stato chiamato un manager milanese, Massimo Mazzi, esperto di società in liquidazione. Mazzi tuttavia rischia il rinvio a giudizio a Milano per bancarotta fraudolenta nell’ambito di tutt’altra vicenda, legata alla società Valle Padana. “Gli contestano – spiega il cronista di Milano Today, Alfredo Faieta – di essersi impossessato di più di un milione di euro di denaro e comunque di aver causato un dissesto che ha portato in negativo per alcuni milioni di euro il patrimonio netto della società”. Mazzi è stato scelto dal collegio sindacale di Ki Group Holding, composto da tre manager tutti riferibili allo studio di Massimo Gabelli, per anni presidente del collegio sindacale delle società Visibilia e Ki Group e, per il suo ruolo in Visibilia, indagato per falso in bilancio. “Ma con loro non ho nulla da convidere né di storico, né di conoscenza”, puntualizza Mazzi.
(da agenzie)

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VOLONTARI FRANCESI IN UCRAINA “RESUSCITANO” E SMENTISCONO LA NOTIZIA RUSSA SUI MERCENARI MORTI

Gennaio 28th, 2024 Riccardo Fucile

“QUELLE LISTE SONO UN SACCO SI SPAZZATURA”

«A sentire i russi, sarei già morto due volte» sorride Franck, uno dei presunti «mercenari» francesi in Ucraina che Mosca afferma di aver ucciso in un recente attacco.
Senza fornire prove, il ministero della Difesa russo ha affermato che l’attacco notturno della scorsa settimana a Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, ha «eliminato» circa 60 combattenti, «la maggior parte» dei quali «cittadini francesi», e ne ha feriti altri 20.
«Per fortuna non si è trattato di morti gravi, perché sono tornato in vita», ha scherzato il corpulento francese, che ha parlato con l’agenzia di stampa AFP dalla prima linea in Ucraina, dove combatte nella Legione Internazionale.
Diversi elenchi – tra cui uno che rivelerebbe l’identità di circa 30 «mercenari francesi morti» – sono stati condivisi massicciamente sui social media dai canali Telegram del Cremlino e dagli attivisti filo-Cremlino.
Tra i nomi c’è quello di Franck, che i media russi avevano già dichiarato morto in un video del 2022. «Ho perso la mia videocamera Go-pro in una trincea nella regione di Zaporizhzhia», ha spiegato all’agenzia France-Presse, con il volto scoperto ma mantenendo segreto il suo nome completo per motivi di sicurezza. «Hanno mescolato le mie foto con quelle di cadaveri per dire che il mio intero gruppo era morto».
Ma Franck non è l’unico: l’agenzia France Presse ha parlato anche con altri due cittadini francesi presenti nelle liste.
Tutti e tre i veterani dell’esercito francese hanno negato di essere stati a Kharkiv durante l’attacco e hanno respinto l’accusa di essere mercenari. Hanno affermato di essere stati bersaglio di «propaganda» progettata per «minare la loro credibilità» come volontari che combattevano a fianco dell’esercito ucraino.
Beranger Minaud, che ha incontrato di persona l’Afp il 25 gennaio nell’est della Francia, ha raccontato di aver lasciato l’Ucraina nel settembre 2023 dopo essere stato ferito. «Per quanto mi riguarda, è impossibile che 50 combattenti francesi si trovino nello stesso posto e nello stesso momento in Ucraina», ha detto. «Trovo difficile credere che ce ne siano più di 50 in tutto adesso. E quelli che conosco si trovano in diverse unità in tutto il paese», ha detto.
Fonti della sicurezza francese stimano che siano circa 100 i volontari francesi che combattono in Ucraina.
Minaud ha lasciato il suo lavoro di fattorino per svolgere attività umanitaria prima di imbracciare le armi, mosso dal desiderio di «fermare i massacri» di civili.
Il 45enne con il pizzetto ingrigito ha mostrato all’agenzia France-Presse il suo passaporto francese con il suo nome completo e la sua carta d’identità militare ucraina.
«Quelle liste sono un sacco di spazzatura», ha detto un altro combattente che ha rivelato la sua identità di Sly, 43 anni. «Ci sono ragazzi che conosco nelle liste. Erano già in Ucraina ma sono tornati in Francia da qualche tempo».
Contattato tramite WhatsApp, Sly ha detto che stava combattendo «nel sud dell’Ucraina».
Secondo Franck, che ha contattato persone conosciute a Kharkiv dalla regione orientale del Donbas, dove ha detto di operare come cecchino, «il bombardamento di quella notte non ha colpito alcun edificio militare».
«Ha colpito le infrastrutture civili e 19 civili sono rimasti feriti, ma questo è tutto», riferisce.
Il bilancio di Franck è simile a quello riportato dalle autorità di Kharkiv. Alcuni nomi nelle liste sono semplicemente inventati, secondo fonti diplomatiche e militari francesi.
Alcuni elenchi «generati da ChatGPT» includevano falsi ridicoli come «Air Jordan». «Iniziano con informazioni verificate sui cittadini francesi in Ucraina… e le mescolano con dati falsi», ha sostenuto la fonte.
Xavier Tytelman, redattore capo della rivista Air & Cosmos, che ha riferimenti nella Legione Internazionale, ha detto di essere stato in contatto con una dozzina di persone sulla lista. «Sono tutti vivi», ha riferito.
(da La Stampa)

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