Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DA ITALIA VIVA CERTIFICANO: “ABBIAMO FATTO UNA FIGURACCIA INTERNAZIONALE”
“La politica estera italiana spetta al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri.
L’accaduto non cambierà i nostri rapporti di amicizia con la Francia, pur nelle diverse sensibilità. Siamo alleati con Parigi e lo rimarremo ancor più in un momento così critico nel quadro internazionale”. Lo dichiara Deborah Bergamini, vicesegretaria nazionale di Forza Italia e responsabile Esteri del partito.
“Lo abbiamo detto sin da subito che le dichiarazioni imbarazzanti di Salvini contro Macron mettevano dentro un alone di ambiguità il governo e l’azione della presidente del Consiglio, che a Washington e nel Consiglio europeo siede al fianco del presidente francese predicando l’unità europea e a Roma lascia il suo vice attaccare con toni sguaiati uno dei nostri principali alleati.
Avevamo consigliato a Giorgia Meloni di chiarire da subito la posizione, per non esporre il nostro Paese a una brutta figura internazionale. Non lo ha fatto e ora il nostro ambasciatore a Parigi è stato convocato dal governo francese aprendo una pagina imbarazzante per l’Italia”. Lo scrive sui social il senatore Enrico Borghi, vicepresidente di Italia viva.
“Perché in Europa ora legittimamente si staranno chiedendo: ma Meloni sta con la retorica filo putinista del suo vice o a che gioco sta giocando? Con buona pace – conclude – di chi racconta la presunta abilità della premier, questa è un’altra vicenda dalla quale emerge la pochezza di una classe di governo di destra”.
(da agenzie)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DUE COLLEGI DIVERSI HANNO RESPINTO LE RICHIESTE DEI PM (CHE IPOTIZZANO UN SISTEMA DI CORRUZIONE) PER TUTTI E SEI GLI ARRESTATI DELL’INCHIESTA
Ora per alla procura di Milano è il tempo dell’attesa. Per capire le prossime mosse sarà fondamentale aspettare le motivazioni che hanno spinto i giudici del Riesame, e due collegi distinti in composizioni diverse, a liberare tutti e sei gli arrestati dell’inchiesta sull’urbanistica milanese. Di fatto respingendo le richieste dei pm. Che non escludono un ricorso in Cassazione.
Vanno capite però le ragioni del Riesame e si potrebbe dover attendere anche settimane. Perché sia il 12 (esprimendosi sui ricorsi di Andrea Bezziccheri e Alessandro Scandurra) e il 14 agosto (decidendo su Giancarlo Tancredi, Giuseppe Marinoni e Federico Pella) le giudici Pendino-Ghezzi-Papagno sia ieri i giudici Cucciniello-Braggion-Ricciardi, chiamati ad esprimersi
sul ricorso presentato da Manfredi Catella, hanno depositato solo una riga di dispositivo, rinviando ogni spiegazione alle motivazioni. Ma hanno a disposizione fino a 45 giorni dall’udienza per depositarle. Tradotto: l’attesa potrebbe durare fino alla fine di settembre.
I due collegi che hanno revocato gli arresti per i sei arrestati (sostituendoli con una ben più mite interdittiva solo per l’ex assessore Tancredi, il manager Pella e l’ex presidente della commissione per il Paesaggio Marinoni) potrebbero così prendersi tutto il tempo per spiegare le loro ragioni. Che potrebbero portare a scenari molto diversi.
Al momento si possono solo formulare ipotesi. E dire che il Riesame potrebbe in un caso essersi basato solo sulle esigenze cautelari. E quindi aver ritenuto che non c’erano sufficienti motivi per tenere i sei arrestati ai domiciliari o in carcere (nel solo caso del costruttore Andrea Bezziccheri). Uno scenario possibile, che si intuisce sia anche quello auspicato dai pm.
Perché diversamente, se cioè i giudici fossero entrati nel merito, la loro scelta avrebbe un peso diverso. Potrebbe significare difatti che gli arresti siano caduti per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza a carico dei sei, accusati di corruzione, induzione indebita a dare e promettere utilità e falso.
E si tratterebbe in questo caso di una severa messa in discussione da parte del Riesame dell’impianto accusatorio del pool di pm guidati dall’aggiunto Tiziana Siciliano che ipotizza «un sistema di corruzione» che avrebbe governato le scelte urbanistiche di Palazzo Marino negli ultimi anni in città. In tal caso, la procura potrebbe dunque valutare di ricorrere in Cassazione. C’è anche
un terzo scenario, meno probabile secondo fonti legali, e cioè che i giudici abbiano eccepito alcuni vizi formali.
In attesa delle motivazioni, la procura milanese intanto ha già fatto appello contro l’ordinanza del gip Mattia Fiorentini dello scorso 31 luglio.
(da Repubblica)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI PROVA A METTERE LA MORDACCHIA AI SUOI (SALVINI E LOLLOBRIGIDA IN PRIMIS) CHE CANNONEGGIANO CONTRO IL MINISTRO DELLA SALUTE, CHE HA MINACCIATO DI DIMETTERSI… MATTARELLA HA GIÀ FATTO SAPERE CHE, DOPO I CAMBI IN CORSA DI FITTO E SANGIULIANO, UN’ALTRA MODIFICA DELLA SQUADRA DI GOVERNO IMPLICHEREBBE UN PASSAGGIO ALLA CAMERE PER RINNOVARE LA FIDUCIA
La premier lo avrebbe già fatto capire ai suoi: «Rischiare un Meloni bis per Serravalle e
Bellavite (i due medici silurati da Schillaci e che dire scettici sui vaccini è un eufemismo, ndr) anche no».
Perché in questo momento continuare il tiro al piccione contro il titolare della Salute ostacolando riforme e tagliando i finanziamenti per ripicca significherebbe spingerlo verso le dimissioni.
Una carta che ai suoi avrebbe confidato di essere pronto ad usare «se incontrassi difficoltà insuperabili ad attuare il programma sulla sanità che è poi quello elettorale del governo».
E Mattarella, a parte la stima per Schillaci, ha già fatto sapere a suo tempo che dopo i cambi in corsa di Fitto e Sangiuliano un’altra modifica della squadra di governo implicherebbe un passaggio alla Camere per rinnovare la fiducia.
Un bis dal quale Giorgia Meloni si è sempre tenuta alla larga sapendo quanto possa essere destabilizzante smuovere gli
appetiti dei partiti della sua maggioranza. Quelli della Lega su tutti, che mirerebbe a piazzare uno dei suoi proprio al posto dell’ex rettore di Tor Vergata.
Non a caso dopo le punzecchiature di Salvini a Schillaci il Carroccio si è spinto ad annunciare l’intenzione di portare in Parlamento una proposta di legge per l’abrogazione dell’obbligo vaccinale nelle scuole.
Ma la reazione di FI e FdI è indicativa di come tra gli altri partiti della coalizione ci sia voglia di spegnere questo fuoco estivo divampiamo intorno al tema sempre caldo dei vaccini. «Non è una priorità e soprattutto non è nel programma elettorale» si sono affrettati a precisare azzurri e meloniani.
Fin qui però siamo nel solco di quanto già visto negli ultimi giorni, con Forza Italia schierata senza se e senza ma a difesa della decisione presa da Schillaci di azzerare l’intero Nitag, il comitato consultivo sui vaccini che nessuno ha mai nemmeno interpellato ai tempi della campagna vaccinale anti Covid e che ora ha creato una spaccatura nella maggioranza per via di quei due nomi che anno provocato una levata di scudi da parte di tutta la comunità scientifica e dell’intera armata dei professionisti oltre che delle Regioni.
Ma il vento sembra girare. Il partito di Meloni infatti, dopo aver bacchettato Schillaci ora bolla come una «boutade estiva» la proposta leghista. Con i vertici di FdI a taccuini chiusi che ricordano come «nel programma elettorale non risulta ci fossero riferimenti all’abolizione dell’obbligo vaccinale».
Insomma dopo la grattata di pancia alla galassia No-vax, sembra che a Via della Scrofa si stia virando verso posizioni meno anti
scienza.
Anche perché due conti se li sono fatti anche da quelle parti, calcolando che gli anti-vaccini non valgono più di un 3-5% mentre il 70% è convinto della loro utilità. Certo, la frattura con Schillaci reo di non aver ascoltato il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, che gli chiedeva di soprassedere fino a settembre sulle nomine del Nitag, resta ed è pure profonda.
Ma la premier e i suoi sanno che spingere Schillaci verso le dimissioni sarebbe un boomerang, con una levata di scudi da parte di scienziati e ordini professionali vari che finirebbe per far passare l’idea di un governo poco affidabile su un tema elettoralmente così sensibile come quello della salute.
E poi Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di lasciare a Schlein la carta della sanità. Tanto che è stata proprio la premier a dire al titolare dell’Economia Giorgetti: «Impediamo all’opposizione di attaccarci ancora con la storia della spesa sanitaria in arretramento sul Pil».
Così dal suo primo incontro a via XX settembre Schillaci ne è uscito con la promessa di due miliardi in più oltre ai 4 già previsti per il prossimo anno. Soldi che il ministro vuole spendere soprattutto per assumere e tagliare le liste di attesa. Un piano che a Palazzo Chigi non conviene a nessuno sabotare.
(da La Stampa)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
IL PASSATO DEL CURVAROLO GIULI, IL CUI RIFERIMENTO FILOSOFICO ERA “ER MELANZANA” (“SMILZO PREGIUDICATO DI TOR BELLA MONACA”, FINITO A FARE PORNO)
Occupazione se di sinistra, solidarietà sociale se declinato a destra, così te la raccontano da CasaPound. Sfumature linguistiche a cui però i fascisti del terzo millennio sembrano tenere particolarmente perché «no, noi non siamo come quelli lì». Ma chi?
«Quelli dei centri sociali di sinistra». Al civico 8 di via Napoleone III a Roma sono 22 anni di occupazione “nera” in un palazzo elegante, a cinque minuti a piedi dalla stazione Termini, in uno dei quartieri più multietnici della Capitale. Ci vivono una ventina di famiglie. «Rigorosamente italiane», ci tengono a specificare. «Sono persone in emergenza abitativa. Disabili, bambini».
E famiglie di militanti di CasaPound. Compresa, pare, almeno sino a qualche tempo fa, quella del leader Gianluca Iannone. «I militanti non possono essere in difficoltà?», ribatte il portavoce Luca Marsella. «Se uno non ha un lavoro, non si può permettere un affitto, noi lo accogliamo… Basta che sia italiano».
Questa la loro versione. Poi c’è quella dei rapporti degli investigatori in cui si parla ben poco di emergenza abitativa, ma tanto di propaganda politica. Di incontri, di base d’appoggio per chi arriva a Roma a gennaio per la commemorazione di Acca Larentia.
Nel palazzo di CasaPound sono in trincea. L’altro ieri è stato sgomberato il Leoncavallo di Milano, simbolo di tutti i centri sociali d’Italia, e ora dall’opposizione chiedono a gran voce chesi proceda anche per lo stabile di via Napoleone III. A quanto risulta a La Stampa, il palazzo (come quello di Spin Time, occupato da centinaia di famiglie e gestito da una costellazione di associazioni di sinistra e cattoliche) era stato inserito dall’allora prefetto di Roma Matteo Piantedosi nell’elenco dei centri sociali da sgomberare e nelle ultime settimane il ministro dell’Interno ha chiesto di procedere con un censimento. Un passaggio che generalmente anticipa lo sgombero.
CasaPound in trincea. Un militante entra veloce nel palazzo: «Nun ce sta niente da dì, niente da vedé, niente da capì». Giusto il tempo di scorgere un murale con una caterva di nomi, tra cui Romolo e Pirandello, e il portone si richiude. Chi risponde al citofono, con l’etichetta tricolore, è deciso: «Non rilasciamo intervista».
Entrare? Nemmeno a parlarne. E così non resta che osservare da fuori. Sei piani, una terrazza dove sventola la bandiera con il simbolo di CasaPound. È lì che si fanno le feste. E, raccontano, si griglia, si vendono panini, birre, merchandising. Un modo per fare autofinanziamento. C’è la sala riunioni per l’attività politica. Poi le famiglie.
L’occupazione “nera” inizia nel dicembre 2003, quando in cinquanta si appropriano dell’edificio che in passato ospitava gli uffici del ministero dell’Istruzione. «Sono stato uno dei primi. Ho vissuto lì da quando avevo 17 anni sino ai 36. Ero con mia madre, ci avevano sfrattato», dice Davide Di Stefano, fratello di Simone, sino a qualche tempo fa uno dei maggiori esponenti del movimento di estrema destra.
Sulla facciata del palazzo c’era la scritta CasaPound con caratteri
del ventennio, che nel 2019 l’ex sindaca Virgina Raggi fa rimuovere. E sollecita il demanio a procedere con lo sgombero. Anche perché il danno economico, tra mancata riscossione dei canoni e impossibilità di usare il bene, supera i 4,5 milioni di euro.
Ed è un susseguirsi di provvedimenti annunciati e mai eseguiti. Sino al 2023, quando CasaPound celebra i “Vent’anni a testa alta”. Nel giugno di due anni fa, a mettere ordine ci prova la giustizia. Il tribunale di Roma condanna dieci militanti a due anni e due mesi di reclusione per occupazione abusiva aggravata. Il ministro della Cultura Alessandro Giuli, al meeting di Rimini, apre uno spiraglio: intervenire a Milano è stato corretto. «Non devono esserci spazi di illegalità. Sgomberare CasaPound? Se si allinea a dei criteri di legalità, no». L’occupazione, per ora, resta. E stride con le dichiarazioni della premier: «In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche. Le occupazioni abusive sono un danno per i cittadini che rispettano le regole». […] su X
(da agenzie)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
L’EX CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA: “SERVE UNA CATENA DI COMANDO CHIARA DA PARTE DELLE FORZE EUROPEE”
Il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e della
Difesa, fissa una condizione imprescindibile perché sia garantita la sicurezza dell’Ucraina, e quindi dell’Europa. Le «garanzie» frutto di accordi politici rischiano di avere fiato corto, spiega Camporini che al Messaggero cita il precedente storico del 1939 che portò all’invasione della Polonia da parte di Adolf Hitler.
Secondo il generale non c’è alternativa al dispiegamento di forze militari a difesa del confine ucraino per garantire davvero la sicurezza del paese. Oggi responsabile Difesa e sicurezza di Azione, Camporini insiste che qualsiasi accordo di pace deve prevedere garanzie concrete che solo la presenza fisica di truppe può assicurare. Soldati che agiscano su mandato dei «Volenterosi» e non della Nato.
Le condizioni per la vera garanzia di pace e il precedente «pericoloso»
«Un accordo sarà possibile solo se a Kiev si sentiranno abbastanza sicuri – spiega Camporini a Marco Ventura – Pace e garanzie vanno viste insieme». La disponibilità a trattare svanisce senza la certezza della sicurezza, dice il generale, perché Putin deve sapere che «in caso di nuovo attacco, ci sarebbe una risposta armata di altri Paesi. Non della Nato, che non considera un interlocutore, ma dei volenterosi». Il generale definisce la coalizione dei Volenterosi «tecnicamente possibile, politicamente pericolosa». Il riferimento storico è illuminante: il 25 agosto 1939 la Gran Bretagna stipulò un patto di mutuo soccorso con la Polonia, ma Hitler non lo ritenne credibile e sei giorni dopo invase. «Così funzionano le garanzie», osserva Camporini.
Presenza fisica sul terreno: l’unica garanzia credibile
Lo scenario ipotizzato prevede ucraini lungo i 1200 chilometri di fronte, forze occidentali nelle città interne e americani nei cieli. Per il generale non si tratta di un gioco strategico: «Qualsiasi garanzia militare non può prescindere da uno schieramento di forze sul terreno. Se in caso di aggressione devo spostare le unità dal confine polacco, il gioco non funziona». La presenza in prossimità della prima linea, anche se non direttamente sul fronte, risulta imprescindibile. Il problema è che Mosca ha chiarito che un accordo con questa clausola non può essere stipulato. «Allora non ha senso neanche sedersi a un tavolo».
La pretesa del diritto di veto dei russi
Il parallelo con i negoziati di Istanbul del 2022 è eloquente: la Russia pretendeva il veto sull’intervento occidentale in caso di nuovo attacco. «Se c’è una garanzia fornita da potenze in cui ciascuna ha un diritto di veto, parliamo del nulla», commenta il generale. «Io che voglio attaccare mi accordo che ci sarà una reazione, poi però vi proibisco di intervenire? È infantile».
La situazione militare sul campo
Riguardo agli sviluppi sul terreno, Camporini spiega sotto il profilo tecnico che i russi continuano ad avanzare senza riuscire a sfondare. «C’è stata la penetrazione di alcune unità di assalto russe in una specifica direzione e sarebbero state fermate. Un’avanzata di qualche centinaio di metri pagata a carissimo prezzo e non risolutiva».
La pressione russa continua grazie alla superiorità numerica, ma non riesce a superare le difese ucraine. «Chi attacca deve sempre avere forze di gran lunga superiori: i russi sono in vantaggio
strutturale, ma non vedo una irresistibile avanzata», osserva il generale.
La guerra di resistenza e le sfide intelligence
«Vince chi resiste di più», sintetizza Camporini, sottolineando l’importanza del lavoro dei sistemi di intelligence, che però attraversano difficoltà. La nomina di Tulsi Gabbard a capo dell’intelligence americana potrebbe comportare il divieto di scambio informazioni nei Five Eyes, indebolendo la condivisione tra Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Il punto cruciale rimane verificare se gli europei possano sostenere l’Ucraina con le proprie risorse o acquistandole dagli americani. Il dispiegamento di truppe resta «molto difficile» perché un contingente non è solo uomini e mezzi: serve una struttura di comando e controllo che non si improvvisa, insiste il generale che aggiunge: «La disponibilità europea dipende anche dall’identificazione di una catena di comando e controllo ad hoc, non Nato».
Le capacità militari ucraine
Il generale riconosce le competenze tecnologiche dell’Ucraina, che «non è un paese del terzo mondo» ma era una centrale tecnologica dell’Urss. Non sorprende quindi lo sviluppo di droni avanzati o del missile Neptun utilizzato per affondare il Moskva, l’ammiraglia russa del Mar Nero. Il nuovo missile Flamingo da 3.000 chilometri rappresenta una minaccia seria: «Può colpire ben all’interno della Russia, è una minaccia che rende vulnerabile gran parte del territorio russo: il Cremlino fa bene a essere preoccupato».
Il contributo italiano: «Il massimo possibile»
L’Italia ha fornito un contributo secretato che Camporini ritiene «il massimo possibile con i nostri arsenali». Incerta rimane la capacità produttiva per rimpinguare le scorte. Il paese partecipa all’air policing e mantiene reparti a rotazione nei paesi Nato confinanti, mentre i velivoli di intelligence raccolgono informazioni di valore strategico sorvolando spazi aerei vicino al confine ucraino.
(da Open)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
“SERVE PIU’ EUROPA, NON MENO”
Mario Draghi è salito sul palco del Meeting di Rimini accolto da un lungo scroscio di applausi. Poi, con il suo consueto tono serafico, ha sputato fuoco contro l’attuale Unione europea e le scelte dei suoi leader, a partire dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.
L’incipit è stato dritto e fulminante: «Per anni l’Unione europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata».
Poi ha snocciolato gli esempi a riprova dello sgretolarsi della leadership europea e ognuno è stato una pugnalata all’azione politica degli attuali vertici: «Abbiamo dovuto rassegnarci ai dazi americani» e all’aumento delle spese militari della Nato, «in forme e modi che probabilmente non riflettono l’interesse dell’Europa», inoltre l’Ue ha avuto «finora un ruolo abbastanza marginale nei negoziati per la pace in Ucraina, nonostante abbia dato il maggior contributo finanziario alla guerra.
È rimasta «spettatrice» quando «il massacro di Gaza si intensificava», ha detto, interrotto da un lungo applauso. La sintesi è stata altrettanto brutale: la dimensione economica da sola non assicura più alcun potere geopolitico.
Nel passato il modello politico di difesa collettiva della pace e il mercato unico europeo sono stati le grandi innovazioni dell’Ue ed è «insostenibile argomentare che staremmo meglio senza». Ma «quel mondo è finito e molte delle sue caratteristiche sono state cancellate». Che fare allora? La risposta di Draghi è univoca: l’organizzazione politica deve «cambiare» e «adattarsi alle nuove esigenze».
Con due dimensioni fondamentali: quella del mercato interno, di cui vanno «ridotte le barriere interne» in modo che la produttività del lavoro in Ue possa essere del 7 per cento più alta; quella tecnologica, ovvero quella dei semiconduttori e dei chip, da cui nessun paese può permettersi di essere escluso.
Il tono di Draghi è molto duro nei confronti del presente e in alcune considerazioni potrebbe sembrare che risuonino le posizioni degli euroscettici di Lega e Fratelli d’Italia. In realtà, pur evidenziando le stesse criticità, la soluzione dell’ex premier è opposta: serve più Europa, non meno, ma deve essere in grado di riformarsi.
«È insostenibile dire che staremmo meglio senza l’Ue» e la sfida ora è «discontinuità negli obiettivi, nei modi e nei tempi di lavoro», uscendo dalle macchinose liturgie europee e rimuovendo le barriere non necessarie, ritrovando unità d’azione. Un esempio: la presenza di cinque leader europei (tra cui anche Giorgia Meloni) alla Casa Bianca nel bilaterale per l’Ucraina come «manifestazione di unità che vale più di tante riunioni a Bruxelles»
Lo sprone di Draghi è rivolto alla politica e alla sua organizzazione ormai inadeguata al presente: il settore privato si
è adattato al nuovo, «il settore pubblico è rimasto indietro» e il cambiamento «va fatto ora che abbiamo ancora il potere di disegnare il nostro futuro», trasformando l’Ue da «comprimaria ad attore protagonista». Con uno slogan lanciato al pubblico di Rimini: «Trasformate il vostro scetticismo in azione».
L’intervento di Draghi deve essere risuonato forte e fastidioso come il trillo di una sveglia nelle orecchie dei vertici dell’Unione, ma è stato anche una chiara presa di distanza dalle posizioni antieuropeiste delle destre europee. Le criticità dell’Ue esistono e sono molte ma vanno risolte ricostruendo la casa comune, è la lettura pragmatica dell’ex premier, così da scongiurare il rischio di venire travolti da un mondo in cui rischia di prevalere la legge del più forte.
Ora l’attesa è per le reazioni della politica, di cui ogni anno il Meeting di Rimini è termometro in vista dell’ultimo quadrimestre dell’anno. I centristi di Italia viva e gli europeisti di Forza Italia hanno subito accolto le sollecitazioni di Draghi, che invece rischiano di essere indigeste per la premier Giorgia Meloni, a suo agio nell’ottica di un’Ue subalterna agli Stati Uniti di Donald Trump, e per il vicepremier Matteo Salvini che preferisce il sovranismo all’integrazione europea.
(da La Stampa)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DAL PALCO DEL MEETING DI RIMINI, L’EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SBERTUCCIA I NO-EURO: “ANCHE IO QUANDO SCRISSI LA MIA TESI DI LAUREA SOSTENNI CHE LA MONETA UNICA ERA UNA GRAN SCIOCCHEZZA. È INSOSTENIBILE ARGOMENTARE CHE STAREMMO MEGLIO SENZA”… LE BORDATE DI DRAGHI ALLA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA SUCCUBE DI TRUMP (“ABBIAMO DOVUTO RASSEGNARCI AI DAZI IMPOSTI”) E ALLA PREMIER, CHEERLEADER DEL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO
Racconta chi ha discusso del suo intervento a Rimini, che l’ex premier non avesse
nessuna voglia di fare un discorso di sapore politico. Poi Bernard Scholz, uomo forte del Meeting, lo ha convinto diversamente.
E così, dopo aver letto il testo scritto sull’Europa e i suoi limiti – il canovaccio è ormai lo stesso da qualche mese – si è seduto per una chiacchierata solo apparentemente spontanea. La scusa per lanciare il messaggio è un aneddoto sul giovane Mario Draghi.
«Non provengo da un ambiente culturale particolarmente europeo. Quando scrissi la mia tesi di laurea sostenni che la moneta unica era una gran sciocchezza». Il pubblico – l’auditorium è pieno – ride. Draghi prosegue nel ragionamento: «Il mio europeismo non parte dai grandi principi che lo hanno
ispirato. Quando mi parlano di visione mi tornano sempre in mente le parole che usava spesso un cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, quando gli chiedevano quale fosse la sua: «Se cerchi una visione vai dall’oculista».
Draghi si definisce «un europeista pragmatico, con i piedi molto per terra». Racconta – non lo aveva mai fatto – come ha lavorato al rapporto sulla competitività dell’Unione commissionato da Ursula von der Leyen. «Si può dire che è stato realizzato con tre gambe: i funzionari della Commissione di Bruxelles, interviste ad imprenditori europei, e il contributo di tre premi Nobel, fisici e ingegneri».
In tutto il ragionamento di Draghi si intuisce la volontà di uscire dalla guerra dei mondi fra europeisti e antieuropeisti, ovvero fra sinistra e destra, progressisti e conservatori.
Trump e la Cina per Draghi uguali sono: una minaccia per la sopravvivenza dell’Europa. Per questo dobbiamo stringerci tutti insieme per far avanzare l’Unione. Ma con pragmatismo: «Carlo Azeglio Ciampi raccontava spesso che lo sconsigliavano di contribuire alla nascita dell’euro per non perdere la sovranità monetaria, ma già allora la lira dipendeva dal marco tedesco».
I maliziosi trovano sempre nelle citazioni dell’ex presidente della Repubblica il sapore dell’antica ambizione quirinalizia di Draghi. Sia come sia, il messaggio è anzitutto a destra: indietro non si può tornare, non ci conviene.
(da La Stampa)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
LA FRANCIA, CHE HA BOLLATO LE DICHIARAZIONI COME “GRAVI E INACCETTABILI”, HA CONVOCATO L’AMBASCIATRICE ITALIANA INCALZANDO PALAZZO CHIGI: SALVINI PARLA A NOME DEL GOVERNO, ESSENDO VICEPREMIER?… LA STATISTA DELLA GARBATELLA SI TROVA DI FRONTE A UN BIVIO: STIGMATIZZARE SALVINI, OPPURE RESTARE IN SILENZIO COMPLICANDO ULTERIORMENTE LE RELAZIONI GIÀ COMPLESSE CON MACRON…IL TIMORE DI POSSIBILI RITORSIONI POLITICHE DA PARTE DI PARIGI
Adesso lo scontro è pubblico, evidente, rumoroso. L’ambasciatrice Emanuela D’Alessandro, scrive la Afp citando fonti diplomatiche, è stata convocata dal governo francese a causa delle ‘’inaccettabili dichiarazioni’’ che Matteo Salvini ha dedicato nei giorni scorsi ad Emmanuel Macron. L’ira dell’Eliseo, di cui aveva riferito ieri Repubblica, aveva fatto seguito alle parole del vicepremier leghista contro il Presidente francese.
Il terreno su cui si consuma il duello è quello dei volenterosi, cruciale nella partita ucraina. L’idea anglo-francese di inviare truppe sul terreno per mantenere la pace è stata duramente avversata nei mesi scorsi da Giorgia Meloni, ma soprattutto da Salvini. Il leghista ha portato avanti una campagna mediatica stringente contro questa opzione. E contro Macron. Fino a sostenere, pochissimi giorni fa, a proposito dell’idea francese di schierare soldati in Ucraina: “A Milano si direbbe taches al tram (attaccati al tram, ndr). Vacci tu se vuoi. Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina”.
Parigi ha deciso di muoversi. La prima mossa è stata quella di sollecitare attraverso due canali di primissimo livello una reazione di Palazzo Chigi: sono stati il consigliere diplomatico di Macron e l’ambasciatore francese in Italia a rivolgersi personalmente a Palazzo Chigi e alla Farnesina chiedendo di battere un colpo e sconfessare il leghista.
Con un quesito chiaro rivolto alla controparte italiana: Salvini parla a nome del governo, essendo vicepremier, o Meloni la pensa diversa e intende stigmatizzare questi attacchi? In assenza di una reazione, Parigi ha deciso di alzare ulteriormente il tiro e convocare la diplomatica italiana.
Secondo le stesse fonti citate dall’Afp ‘’è stato ricordato all’ambasciatrice che queste dichiarazioni erano in contrasto con il clima di fiducia e le storiche relazioni tra i nostri due Paesi, nonché con i recenti sviluppi bilaterali, che hanno evidenziato forti convergenze tra i due Paesi, in particolare per quanto riguarda il loro incrollabile sostegno all’Ucraina”.
In effetti, gli attacchi di Salvini sono arrivati proprio mentre Meloni si trovava a Washington assieme a Macron per gestire il tentativo di Donald Trump di avvicinare una tregua in Ucraina, difendendo nello stesso tempo le ragioni di Kiev. I partner europei si sono spesi in modo coordinato per proporre uno scudo difensivo per l’Ucraina.
E di questo progetti potrebbe far parte anche una missione di soldati schierati sul terreno per difendere la tregua. Un progetto nato su impulso di Macron, ma su cui Meloni – pur preferendo la soluzione di un articolo 5 sul modello di quello della Nato – ha comunque promesso sostegno, nel caso in cui l’idea venisse accettata da Mosca.
Il problema si sposta adesso sul piano diplomatico. E mette la premier di fronte a un bivio: prendere posizione, stigmatizzando Salvini, oppure restare silente, complicando ulteriormente le relazioni già complesse con il presidente francese? Finora Meloni ha scelto di non esporsi.
In queste ore, infine, si fa spazio un timore nella diplomazia italiana: quello che Parigi possa in qualche modo portare avanti una ritorsione politica nei confronti di Roma
I precedenti
Lo scontro non nasce certo oggi. Le cronache riportano agli inizi dello scorso marzo: si registra un altro attacco di Salvini nei confronti dell’Eliseo: non ci sarà mai, disse allora il leader leghista, “un esercito europeo comandato da quel matto di Macron che parla di guerra nucleare”. E ancora: lui, Macron, “ha una disperata esigenza di dare un senso alla sua ancor breve permanenza alla guida della Francia. Però non lo faccia a nostre spese”, disse per contestare l’offerta dell’ombrello nucleare a Kiev.
La cronologia non si ferma qui. E in altre occasioni tanti sono stati i modi con cui Salvini si è rivolto al presidente francese: “ipocrita”, “chiacchierone”, “signorino educato che eccede in champagne”, “criminale”. In un’escalation partita a giugno scorso quando l’invito fu: “Mettiti l’elmetto, vai a combattere e non rompere le palle”.
(da Repubblica)
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Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile
LA LUNGA LISTA DI INSULTI DI SALVINI A MACRON SULLA EVENTUALE PRESENZA DI MILITARI EUROPEI A GARANZIA DELLA PACE IN UCRAINA… C’E’ CHI RAPPRESENTA L’EUROPA E CHI I VIGLIACCHI
La Francia ha convocato l’ambasciatrice italiana a Parigi, Emanuela D’Alessandro, «a
seguito dei commenti inaccettabili» di Matteo Salvini contro il presidente francese Emmanuel
Macron. A far scoppiare il caso sono state le parole del vicepremier italiano che ha commentato il sostegno del presidente francese all’invio di truppe in Ucraina. Salvini aveva precisato che la sua posizione contraria all’invio di truppe in Ucraina era stata fatta «da vicepresidente del Consiglio, da ministro, da segretario della Lega».
Il «taches al tram» che ha fatto scoppiare il caso
La convocazione dell’ambasciatrice è avvenuta lo scorso giovedì, quando Salvini aveva invitato Macron in dialetto milanese a «taches al tram», cioè ad andare personalmente al fronte: «Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina». A margine di un sopralluogo in via Bolla a Milano, Salvini aveva esaltato invece la politica di Donald Trump: «Con i suoi modi che a volte possono sembrare bruschi o irrituali, sta riuscendo laddove hanno fallito tutti». Nel mirino erano finite le «macronate» che prevedono, secondo l’accusa leghista, «eserciti europei, riarmi europei, debiti comuni europei per comprare missili».
I precedenti tra Macron e Salvini
Da Parigi hanno ricordato, attraverso dichiarazioni rilasciate da «fonti diplomatiche» attraverso France Press, «che questi commenti sono contrari al clima di fiducia e alle relazioni storiche tra i due Paesi, nonché ai recenti sviluppi bilaterali che hanno evidenziato forti convergenze, in particolare per quanto riguarda il loro incrollabile sostegno all’Ucraina».
La decisione e l’urgenza della convocazione dell’ambasciatrice sarebbero state accelerate dal fatto che già in passato Salvini aveva commentato con toni simili le dichiarazioni di Macron,
spesso chiamato pubblicamente «guerrafondaio» e «bombarolo». Agli inizi di marzo scorso, sempre per contestare l’idea di un esercito europeo, Salvini aveva dichiarato che non ci sarebbe mai stato «un esercito europeo comandato da quel matto di Macron che parla di guerra nucleare».
In un’altra occasione, riferendosi all’offerta dell’ombrello nucleare a Kiev, il leader leghista aveva accusato Macron di avere «una disperata esigenza di dare un senso alla sua ancor breve permanenza alla guida della Francia. Però non lo faccia a nostre spese». Il repertorio di appellativi utilizzate da Salvini nei confronti di Macron è stato finora variegato: «ipocrita», «chiacchierone», «signorino educato che eccede in champagne», fino ad arrivare a «criminale». L’escalation era partita a giugno scorso con un invito ancora più diretto: «Mettiti l’elmetto, vai a combattere e non rompere le palle».
(da agenzie)
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