Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA PAROLA “TUTTO” NEGLI SLOGAN POLITICI NON PORTA BUONO
“Blocchiamo tutto”, che è il nome un po’ troppo ambizioso del nuovo movimento di
protesta francese, nei fatti bloccherà solo un po’ di strade e di quartieri, come sempre accade con questi moti virulenti e di corto respiro. Poi qualcuno raccoglierà i cocci e tutto tornerà come prima.
La parola “tutto”, negli slogan politici, non porta buono, a partire da quel “vogliamo tutto” che nei dintorni del Sessantotto emozionava assai come azzardo esistenziale, ma conteneva già il germe della sconfitta. Perché “tutto”, in politica come altrove, non esiste, è una illusione, un inganno, una fake, un tradimento della realtà delle cose.
E da un certo punto di vista mettere come posta in palio “tutto” è una furbata, anche quando sia inconscia: perché la smisuratezza dell’obiettivo giustifica già in partenza l’impossibilità di centrarlo. Eh, cosa vuoi, per forza che abbiamo perso: volevamo tutto, e figurati se il potere era disposto a concedercelo. È per quella via che fior di rivoluzionari poi diventano cinici e non credono più in niente.
Peccato, perché dell’impopolarità del turbo-capitalismo, dei suoi misfatti ai danni della salute pubblica, della consunzione del Welfare, si dovrebbe parlare non ogni tre o quattro anni con un urlaccio, ma quotidianamente. E se il movimento, invece che Blocchiamo Tutto, si chiamasse Blocchiamo Qualcosa, il
ministero degli Interni sarebbe molto più preoccupato.
(da repubblica.it)
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Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
DA SACE A CINECITTÀ, DAI PARCHI AGLI STAFF DEI MINISTRI, TUTTE LE NOMINE DEL CARROCCIO PER “NON LASCIARE INDIETRO NESSUNO”. ECCOLO QUI IL “GOVERNO DEL MERITO”
Con il via libera alla nomina dell’ex eurodeputata, non rieletta, Annalisa Tardino alla guida dell’Autorità portuale della Sicilia Occidentale la Lega arriva a quota 60. Che non è l’asticella per un prepensionamento promesso, bensì il numero di ex deputati, senatori, eurodeputati non rieletti e dirigenti leghisti piazzati nel vastissimo sottobosco del governo del merito.
In via Bellerio non si lascia indietro nessuno e come dice un sottosegretario che nel suo staff ha messo solo iscritti alla Lega rimasti senza poltrona, “questo è un merito, perché chi sta con noi non resta per strada”.
Dall’insediamento del governo che ha messo in piedi anche un ministero “del merito”, per dire che adesso con la destra al governo andranno nei posti che contano solo quelli che sono bravi senza guardare in faccia nessuno, la Lega ha piazzato il più alto numero di trombati alle elezioni e non ricandidati, o comunque dirigenti del partito. Dove? In cda di aziende controllate o negli uffici di gabinetto di ministri e sottosegretari della Lega.
Ultimo il caso della ex eurodeputata Tardino: il governatore siciliano Renato Schifani che ha presentato un ricorso al Tar contro questa scelta sostenendo che l’esponente della Lega non ha un curriculum adatto, ha rinunciato comunque a chiedere la sospensiva e quindi la Tardino adesso è del tutto operativa.
Ma la sua è solo l’ultimo nome di un lungo elenco di leghisti nel sottogoverno. Qualche giorno fa Guglielmo Picchi, ex deputato prima di Forza Italia poi della Lega, è stato indicato come presidente di Sace, la controllata del ministero dell’Economia che gestisce miliardi di euro di fondi per il sostegno alle imprese. E poco prima Michele Ennas, segretario regionale della Lega in Sardegna, è stato indicato nel cda Enea.
Solo per citarne alcuni, Paolo Arrigoni, ex senatore, è stato nominato al Gestore dei servizi energetici; Francesca Ceruti, ex consigliera regionale, nel cda Consap insieme all’ex deputato Antonio Gennaro.
Francesca Attilia Brianza, ex consigliera regionale lombarda, è andata alla presidenza di Equitalia giustizia, Jacopo Vignati, ex segretario del partito di Matteo Salvini a Pavia, nel cda della Sogin.
Poi ci sono Giovanni Battista Tombolato, ex deputato,
nell’assemblea Aci; Giacomo Francesco Saccomanno, commissario Lega Calabria, nel cda della Stretto di Messina che deve realizzare il ponte sullo Stretto caro al ministro Salvini.
O Lorenzo Viviani, ex deputato, indicato come presidente del Parco nazionale delle Cinque Terre. Mentre Antonio Maria Rinaldi, ex europarlamentare, è stato scelto per la presidenza di una società di costruzioni della Cassa depositi e prestiti, la Trevi.
Molti poi dal 2023 a oggi hanno ricevuto incarichi di consulenza, retribuita, negli staff ministeriali. Anche qui, solo per citarne alcuni: Pasquale Pepe, candidato alla Camera nel 2022, è consiglieri per il Sud per il vicepremier Salvini, come Armando Siri, anche lui non eletto alla Camera, che è invece consigliere per le politiche economiche, del credito e dello sviluppo sostenibile.
L’ex ministro leghista Marco Bussetti è invece consulente del ministro dello Sport Abodi. La Lega poi si è concentrata molto sul cinema: nel cda di Cinecittà in quota Lega sono andati l’ex senatore, non rieletto, Antonio Saccone, e Isabella Ciolfi, già responsabile Lega Lazio e segretaria del sottosegretario Durigon. La Lega non lascia indietro nessuno, basta che sia della Lega però.
(da Repubblica)
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Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
GIORGIA MELONI VUOLE ASPETTARE L’ESITO DELLE ELEZIONI NELLE MARCHE (DOVE CORRE IL SUO ACQUAROLI) PRIMA DI DECIDERE I FRONTRUNNER … SALVINI, PRIMA DI ENTRARE A PALAZZO CHIGI, AVEVA DETTO: “ SPERO CHE OGGI SI DECIDANO TUTTI CANDIDATI”. ASPETTA E SPERA…
Qualche ora prima del vertice di maggioranza, Matteo Salvini si era mostrato positivo:
“Spero che oggi si decidano tutti candidati”, referendosi ai nomi su cui punta il centrodestra alle regionali in Campania, Puglia e Veneto e che ancora non ci sono. Neanche dopo la riunione a palazzo Chigi con i leader della sua coalizione, Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi. Che si è conclusa dopo circa un’ora con un’altra fumata nera.
Sulla scelta di profili politici o tecnici il vicepremier leghista non si era pronunciato, ma aveva fatto notare che “è il 10 settembre”, quindi “l’importante è scegliere in fretta”. Ma la scelta dei candidati per il momento resta in stand-by e i tempi iniziano a stringere.
A riferire l’esito del vertice, a cui ha partecipato anche il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, è stato il leader di Noi Moderati, Lupi. Sostiene che le regionali non sono state al centro del dibattito con la premier spostando l’attenzione sulla riforma dell’autonomia. “Si va avanti nel percorso con i
passaggi formali che si dovranno fare. Non abbiamo parlato di regionali”
(da agenzie)
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Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA MOGLIE DELL’ORMAI EX PREMIER È IN FIN DI VITA DOPO CHE I MANIFESTANTI HANNO INCENDIATO LA SUA ABITAZIONE, ANCHE LA CASA DEL PRESIDENTE (CHE SI È DIMESSO ED È FUGGITO IN ELICOTTERO) E IL PALAZZO DEL PARLAMENTO SONO STATI DATI ALLE FIAMME
In fiamme il Parlamento, dai muri strinati di nero, in fiamme il palazzo del governo, in fiamme le case del ministro degli Interni, dell’ex premier — la moglie era dentro casa, è in fin di vita per le ustioni — del presidente Ram Chandra Poudel che si è prima dimesso e poi è scappato dal Paese in elicottero, del premier in carica e ieri, poi, dimissionario. A Kathmandu, capitale del Nepal, è il caos da 48 ore: migliaia di giovani protestano in strada e hanno rovesciato il governo.
Almeno 22 i morti, tra i manifestanti, per la repressione della polizia. Più di quattrocento i feriti. I manifestanti si definiscono «la voce della Gen Z nepalese», sono cioè i ventenni del Paese incastonato tra la Cina e l’India da 30 milioni di abitanti, da lunedì paralizzato dalla rivolta.
La rabbia popolare ha due cause: la corruzione del governo guidato dal marxista-leninista Khadga Prasad Sharma Oli, detto KP, leader del partito comunista nepalese, e una misura che ha ingiunto a quasi tutte le piattaforme social attive nel Paese di «registrarsi» presso il ministero delle Telecomunicazioni, pena il blocco.
Varata a fine agosto, la legge imponeva la «registrazione» entro il 3 di settembre: cioè la comunicazione al ministero dei nomi di referenti locali, di un ufficio legale in Nepal, di una persona responsabile per i contenuti. Insomma, copione solito: una stretta formale per controllare i social, su cui proprio le accuse di corruzione nei confronti del governo stesso circolano a briglia sciolta da mesi
E giovedì 4 il blocco è scattato: 26 social, tra cui WhatsApp, YouTube, Facebook, Viber, hanno smesso di funzionare. Tagliando fuori dalle vite dei famigliari rimasti in patria i tanti nepalesi che lavorano all’estero, circa il 7,5% della popolazione. Di attivo è rimasto solo TikTok, app cinese: il governo l’ha lasciata «accesa» in nome dei buoni rapporti con Pechino.
E così lunedì mattina migliaia di giovani sono scesi in strada, molti indossando l’uniforme scolastica, per una protesta pacifica, poi diventata violenta — così una studente ad Al Jazeera ieri — con l’arrivo di «motociclisti palestrati che hanno infiltrato il corteo». Violenta è stata anche la repressione: la polizia ha sparato sulla folla con idranti e proiettili di gomma, poi, secondo alcune ricostruzioni, con proiettili veri.
Sono seguiti gli incendi ai palazzi e alle residenze di premier, presidente, ministri: istituzioni verso le quali l’odio cova da mesi, anni, per la discrepanza tra il salario medio dei nepalesi, 1.100 euro l’anno, e i miliardi sprecati in corruzione in casi come l’acquisto di due jet Airbus da parte della compagnia di bandiera, una vera «mangiatoia» per funzionari e politici. O le immagini TikTok dei figli dei ministri nepalesi, che vivono nel lusso.
Ieri mattina il premier Oli ha riaperto l’accesso ai social e convocato una riunione con tutti i partiti, da cui è uscito dimissionario. Per ragioni simili, del resto, sono scoppiate le proteste dell’estate scorsa in Bangladesh, e prima in Sri Lanka. [
In Nepal l’esercito ha annunciato ieri che avrebbe preso, dalle 22 locali, il controllo delle strade. Gli osservatori internazionali, come il commissario Onu per i diritti umani Volker Türk, hanno ammonito a rispettare «gli standard internazionali in termini di diritti umani, e garantire la pacifica libertà di manifestazione».
(da agenzie)
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Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
“L’ESPRESSO”: “A SPINGERE MELONI ALL’ALLARME ROSSO NON SONO SOLO I SONDAGGI MA ANCHE IL RISCHIO CHE UNA SCONFITTA SUL REFERENDUM VENGA LETTA COME UNA BOCCIATURA POLITICA COMPLESSIVA”
L’impressione, ormai, è che si stia preparando uno scontro frontale, non solo tra politica
e magistratura, ma dentro la politica stessa. Il referendum sulla giustizia – in particolare sulle carriere separate tra giudici e pm – è diventato un campo minato. E non solo per la complessità tecnica del quesito, ma per le sue implicazioni politiche. Perché una cosa, a Palazzo Chigi, l’hanno capita bene: se Giorgia Meloni perde su questo terreno, rischia di perdere molto di più.
A dispetto delle dichiarazioni pubbliche, in ambienti di governo l’ansia è palpabile. E tra i fedelissimi della premier comincia a circolare una formula che dice tutto: «Sulla giustizia ci giochiamo la tenuta del governo».
I ministri Musumeci e Zangrillo, che pure in queste ore stanno rilasciando dichiarazioni di sostegno al Sì, a dimostrazione che la linea è una sola: militarizzazione del fronte pro-referendum.
A spingere la premier all’allarme rosso non sono solo i sondaggi ma anche il rischio che una sconfitta sulla giustizia venga letta come una bocciatura politica complessiva. E non è un caso che Meloni, in riunioni riservate, abbia lasciato intendere che una sconfitta netta potrebbe spingerla a rimettere il mandato, smentendo così pubblicamente la linea dell’“andiamo avanti comunque” finora ripetuta. «Se perdiamo sulla giustizia – avrebbe confidato a un ministro di peso – allora non ha senso
restare a metà del guado».
Il tema è strategico: la riforma della giustizia è da sempre un cavallo di battaglia del centrodestra, e la separazione delle carriere è un simbolo ideologico ancora prima che tecnico. Perdere su questo equivarrebbe, per Fratelli d’Italia, a un segnale di debolezza verso l’elettorato più identitario. Ma il rischio, ora, è di trovarsi fuoco incrociato anche da dentro.
Perché anche l’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha deciso di giocare la partita, e lo sta facendo con la stessa determinazione dell’esecutivo. Una mossa che ha spiazzato i partiti, e che apre uno scenario inedito: un referendum in cui le toghe si espongono per evitare che sia solo la politica a dettare la narrazione.
La sensazione, insomma, è che nessuno possa più tirarsi indietro, anche tra chi sperava di poter osservare da bordo campo. I centristi della maggioranza sono inquieti: Maurizio Lupi e Renato Schifani, ad esempio, si sono detti preoccupati per “un uso strumentale del referendum”. Ma per Meloni, ora, è troppo tardi per distinguo.
Il pressing sul voto è già iniziato, e i ministri ricevono indicazioni chiare: parlare, mobilitare, convincere.
E se davvero l’affluenza fosse bassa (anche se, trattandosi di referendum confermativo, non è previsto quorum) o se il Sì uscisse sconfitto, allora l’onda d’urto potrebbe arrivare fino a Palazzo Chigi. E a quel punto, gli equilibri dentro la maggioranza, già precari, si farebbero incerti. Perché in politica – lo sanno anche alla Garbatella – le sconfitte referendarie lasciano il segno. A volte, anche più di una sconfitta elettorale.
(da espresso.it)
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Settembre 11th, 2025 Riccardo Fucile
DIETRO LA SCELTA DEL CONSIGLIO FEDERALE SVIZZERO C’E’ LA CONSAPEVOLEZZA CHE L’ESCLUSIONE DAI PROGETTI EUROPEI DI DIFESA SIGNIFICHEREBBE CONDANNARE LA PROPRIA INDUSTRIA MILITARE E TECNOLOGICA ALL’IRRILEVANZA
La Svizzera ha intavolato colloqui con l’Unione Europea per valutare la possibilità di aderire ad una partnership nel settore della difesa. Una decisione che segna una svolta significativa per un paese sempre tenutosi distante dalle grandi alleanze militari del continente. Dietro la scelta del Consiglio federale svizzero si intravedono due direttrici fondamentali: la tensione geopolitica esercitata dal conflitto in Ucraina e la consapevolezza che l’esclusione dai progetti europei di difesa significherebbe condannare la propria industria militare e tecnologica all’irrilevanza.
Berna ha scelto di accedere al fondo da 150 miliardi di euro noto come Safe (Security Action for Europe), garantendosi un posto nel quadro decisionale dell’architettura di sicurezza continentale. Secondo le istituzioni locali, la decisione non infrangerebbe la storica politica di neutralità del paese.
Tuttavia, l’integrazione nei meccanismi di difesa dell’Ue rappresenta quantomeno una ridefinizione del concetto stesso di neutralità. Berna si prepara a superare la dottrina di cosiddetta terzietà assoluta, in un continente composto da Stati impegnati in una politica di riarmo imponente. Il loro obiettivo è rafforzare istituzioni comunitarie ed industria di difesa europea, aumentare la sinergia con il comparto militare statunitense e rilanciare il ruolo strategico della Nato […] La Svizzera, con la sua avanzata industria aerospaziale e la storica precisione meccanica, vuole sfruttare l’opportunità.
Inoltre, mira a ritagliarsi un ruolo nella ricostruzione dell’Ucraina: il Consiglio federale ha approvato una bozza di accordo di cooperazione bilaterale con Kyiv, incentrato su un pacchetto di investimenti da 1,5 miliardi di euro, con 500 milioni riservati al coinvolgimento del settore privato svizzero nei progetti di ricostruzione dell’Ucraina. Berna ha pure assunto una posizione diplomatica sorprendentemente netta in sede internazionale, denunciando, insieme ad altri 29 Stati europei, le interferenze deliberate della Russia sulle comunicazioni satellitari civili. Ovvero, penetrazioni sistematiche e mirate, effettuate su ordine di comandi militari speciali dislocati in territorio russo e nella penisola ucraina occupata della Crimea
Il suo approccio comunicativo testimonia la volontà di allinearsi al fronte euro-atlantico nel contrasto alla guerra dell’informazione ed all’invasione dello spazio digitale da parte delle autocrazie. La Svizzera sta riformulando, senza proclami ma con grande decisione, l’essenza del proprio paradigma di sicurezza.
(da Italia Oggi)
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