Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
LA MEDIAZIONE TRA I RESPONSABILI DELLA FLOTILLA E IL CARDINAL ZUPPI FATTA FALLIRE DAL GOVERNO ITALIANO
Immagino che in questi giorni ne abbiate lette e sentite di tutti i tipi. Figuratevi io, che
sono qui su una di queste barche, che è stata ferma in rada, all’ancora, come tutte le barche della Flotilla negli ultimi due giorni e mezzo.
Venivamo dalle immagini straordinarie delle manifestazioni nelle piazze, due giorni prima. Manifestazioni nei circoli e per le strade di tutta Italia, dibattiti nei festival e nelle parrocchie, e l’affetto che ci è arrivato e continua a non mancarci. Poi le chiacchiere ci hanno sommerso, prima quelle interne alla Flotilla, poi quelle dall’esterno. Poi il dibattito ha preso il sopravvento.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha prima smentito la premier Giorgia Meloni riconoscendo il valore politico e umanitario della missione, e poi ha chiesto alle persone partecipanti di provare in tutti i modi una trattativa per gestire gli aiuti umanitari e l’apertura di un corridoio sicuro.
Infatti poco prima il governo italiano, nelle parole della stessa premier, aveva provato a mettere il cappello su un’idea – non ancora una proposta, ma un dialogo aperto – fra Yassine Lafram (presidente delle comunità islamiche in Italia, sulla mia stessa barca e vicino di letto) e il presidente della CEI Matteo Maria Zuppi (ave Zuppi, io facevo il tifo per te durante il conclave).
L’idea, nata da loro due e sostenuta anche dai due parlamentari del PD Annalisa Corrado e Arturo Scotto, anche loro su questa barca, era quella di riuscire a fare arrivare gli aiuti che trasportiamo in Palestina, senza passare per il controllo israeliano, non necessariamente però approdando con le barche nella Striscia di Gaza.
E il governo, con il suo cappello maldestrissimo, ha raggiunto quello che probabilmente era il suo scopo sino dall’inizio: far fallire ogni possibilità di accordo, almeno fino a questo momento, perché sappiamo tutti che in politica il “mai” difficilmente è garantito per sempre.
A questo punto, ieri sera siamo ripartiti. La barca Zefiro non ce l’ha fatta, impossibile dopo i danni causati dai droni alla sua vela, e così l’abbiamo lasciata in Grecia. La nave Familia, nave madre partita con Greta Thumberg dalla Spagna, ha fuso il motore e il
suo equipaggio è stato redistribuito sulle altre imbarcazioni. Alcune persone, e anche alcuni capitani, sono effettivamente sbarcati anche da altre barche, interrompendo la loro partecipazione alla missione quando già ci trovavamo in acque greche.
Sia chiaro a tutti: è stato assolutamente legittimo e umano, perché i colpi ricevuti dai droni qualche giorno fa – quelle che abbiamo chiamato “bombe sonore” – non erano solo colpi audio, ma sono state capaci di tranciare anche alcuni cavi d’acciaio che tenevano le vele; perciò potete immaginare cosa sarebbe accaduto se quelle “bombe sonore” fossero esplose vicino alla testa di una persona invece che all’albero maestro.
No, mamma, non preoccuparti. So che stai leggendo questo pezzo, però la situazione davvero tragica, l’unica in questo momento veramente tragica, riguarda quello che sta accadendo a Gaza: un genocidio. E tra l’altro senza corridoi umanitari aperti e sicuri.
Per questo ieri sera la Global Sumud Flotilla ha infine deciso di ripartire. E per questo io sono ancora qui, come inviato di Fanpage.it, per continuare a raccontarvi quello che sta accadendo.
E allora ricomincio da qui: la notte è trascorsa bene, anche se l’avverbio è un po’ esagerato considerando le onde alte due metri. E soprattutto non dovrebbe essere normale abituarsi alla presenza di droni militari sopra la testa ed essere sollevati perché dai, ieri notte – almeno – non hanno sparato.
In questo momento la Flotilla ha rimesso le vele al vento, e io vi scrivo su un letto che balla, con lo schermo del computer mezzo
rotto.
Ogni partenza porta con sé rischi, ma rimanere fermi avrebbe comportato il rischio più alto: diventare ininfluenti, smettere anche solo di provare a fare qualcosa di efficace per fermare un genocidio. Noi, qui, ci portiamo anche la responsabilità di chi, a terra, guarda a quello che facciamo con speranza.
Il nostro è un atto politico, perché dare da mangiare agli affamati è sempre una questione politica. E solo la politica, la buona politica, può risolvere i problemi a lungo termine. Per questo la missione umanitaria della Global Sumud Flotilla è per forza di cose anche una missione politica. Per questo ora stiamo continuando a viaggiare a cinque nodi e mezzo, direzione Gaza.
Fanpage.it è a bordo per dare parola e visione. Crediamo che raccontare da dentro sia un atto di liberazione, e che le parole abbiano senso solo quando vengono restituite. Per questo sono qui. Esserci non è un atto romantico, né un’avventura. E sicuramente non è un atto dannunziano, o futurista.
La Flotilla non naviga per sé stessa: naviga per ricordarci che ogni frontiera può e deve essere messa in discussione.
Personalmente, non posso guardare a questa ripartenza senza un moto di gratitudine. In un tempo in cui prevalgono la paura e il calcolo, qualcuno ha ancora il coraggio di provare a gettare il cuore oltre gli ostacoli. All’opposto del “me ne frego” c’è sempre stato don Lorenzo Milano con il suo “I care”, cioè “mi appartiene”, “mi riguarda”.
Il mare non tollera immobilismi, e la scelta di tornare a salpare non è solo logistica: è un gesto umano. L’ultimo possibile di fronte al genocidio del popolo palestinese.
Il mare, unione e divisione, è tornato a essere il luogo di un gesto collettivo di resistenza e di obbedienza alle leggi internazionali.
Ripartire vuol dire credere che, nonostante le difficoltà, esista ancora spazio per un’azione concreta e coraggiosa. La Flotilla non riparte per sé stessa: riparte per testimoniare, per denunciare, perché al mondo non ci siamo soltanto noi.
La Flotilla è ripartita perché l’indifferenza non può essere la nostra normalità.
In alto le penne!
(da Fanpage)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
LA REPLICA: “LA MISSIONE VA AVANTI E CONTINUA VERSO GAZA. NAVIGHIAMO IN ACQUE INTERNAZIONALI NELLA PIENA LEGALITÀ”… CROSETTO, LA SOLUZIONE E’ SEMPLICE: DIFFIDARE ISRAELE DA COMPIERE AZIONI ILLEGALI E SCORTARE LA FLOTILLA FINO A GAZA PERCHE’ IL BLOCCO NAVALE E’ ILLEGALE, LE ACQUE TERRITORIALI NON SONO ISRAELIANE E I CONVOGLI UMANITARI NON POSSONO ESSERE ATTACCATI IN QUALSIASI PAESE CIVILE AL MONDO… NON DECIDONO DUE CRIMINALI DOVE SI PUO’ ANDARE E DOVE NO…, SE POI NON AVETE LE PALLE DI FAR RISPETTARE IL DIRITTO INTERNAZIONALE DIMETTETEVI
“L’obiettivo dichiarato della Flotilla è quello di aiutare il popolo di Gaza, ma è fondamentale che questo impegno non si traduca in atti che non porterebbero ad alcun risultato concreto, ma che, al contrario, rischierebbero di avere effetti drammatici con rischi elevati ed irrazionali”.
Così il Ministro della Difesa, Guido Crosetto, che oggi pomeriggio ha incontrato una delegazione del movimento. Per Crosetto “qualora la Sumud Flotilla decidesse di intraprendere azioni per forzare un blocco navale si esporrebbe a pericoli elevatissimi e non gestibili, visto che parliamo di barche civili che si pongono l’obiettivo di ‘forzare’ un dispositivo militare”.
La replica della Flotilla
“La missione va avanti e continua verso Gaza. Noi navighiamo in acque internazionali nella piena legalità. Questa è la nostra responsabilità”. Così Maria Elena Delia, portavoce italiana della Global Sumud Flotilla, all’ingresso della sede del Partito democratico al Nazareno per un incontro con la segretaria Elly Schlein. “Oggi siamo solo in ascolto”, dice Delia.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
SE ENTRO FINE ANNO NON AVREMO SPESO I 52,9 MILIONI STANZIATI DA BRUXELLES PER FAR FRONTE ALLE CALAMITA’ NATURALI, DOVREMO RESTITUIRLI… CON UN TRIPLO DANNO: AI BILANCI DELLE IMPRESE, ALLE CASSE DELLO STATO E ALLA CREDIBILITA’ DEL NOSTRO PAESE
Entro il 31 dicembre 2025 l’Italia rischia di fare un regalo indesiderato a Bruxelles: 52,9
milioni di euro destinati alla gestione del rischio agricolo potrebbero dover tornare indietro perché mai spesi. Sono le risorse del Programma di sviluppo rurale nazionale 2014-2022 (PSRN) dedicate ai fondi mutualistici e allo strumento di stabilizzazione del reddito (IST), due misure pensate dal 2019 per indennizzare gli agricoltori colpiti da calamità. Un meccanismo innovativo, tra i pochi della Politica agricola comune (PAC), capace di offrire una rete contro la crescente incertezza climatica, che rischia però di evaporare tra ritardi amministrativi e inerzia politica
.Gli impegni non bastano: senza bonifici certificati la partita è chiusa
La Commissione europea è chiara: i fondi valgono solo se pagati effettivamente dagli organismi pagatori, cioè dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) o dagli organismi pagatori regionali (OPR), entro il 31 dicembre 2025. Non bastano gli impegni, non bastano le pratiche avviate. Se non ci sono bonifici certificati, la partita è chiusa e i soldi rientrano a Bruxelles. Un
rischio già segnalato da Fedagripesca Confcooperative, che denuncia come i fondi mutualistici abbiano anticipato rimborsi negli anni scorsi senza che la quota pubblica (il 70 per cento del totale, a fronte di un 30 per cento messo dagli agricoltori stessi) sia mai stata erogata per intero. Una falla che potrebbe trasformarsi in un disimpegno automatico da decine di milioni. Il problema si complica per ragioni di calendario: dal 31 luglio 2025 non è più possibile presentare domande intermedie di pagamento. Restano soltanto i mesi finali per istruire e certificare le pratiche già presentate, sperando che la macchina amministrativa riesca a correre più veloce di quanto abbia fatto negli ultimi anni.
Tutto questo avviene mentre l’agricoltura italiana paga caro la vulnerabilità climatica. Le compagnie assicurative hanno progressivamente ridotto le coperture, lasciando scoperte intere tipologie di rischi. Il Fondo AgriCat – creato dalla legge di bilancio 2022 e operativo dal 2023 – garantisce una copertura di base solo per tre eventi catastrofali: alluvioni, gelo e siccità. Lo fa però con tetti e franchigie che riducono sensibilmente gli indennizzi. Il risultato è che, secondo l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) e vari studi europei, gli agricoltori finiscono per sostenere direttamente tra il 70 e l’80 per cento delle perdite causate dagli eventi estremi. In questo scenario, i fondi mutualistici finanziati dal PSRN non sono un dettaglio, ma uno strumento indispensabile. Soprattutto per i comparti più esposti – dall’ortofrutta al riso, dalla viticoltura alla zootecnia – che negli ultimi anni hanno visto crescere danni e sinistrosità a fronte di rimborsi sempre più parziali
Consapevole del rischio, il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (MASAF) ha provato a muoversi in extremis. Ad agosto e settembre sono comparsi in Gazzetta ufficiale una serie di decreti per semplificare le procedure: modifiche agli avvisi 2019-2023, integrazioni delle quote di adesione, aggiornamento dei valori-indice per il calcolo delle perdite. Interventi che hanno il sapore della corsa dell’ultimo minuto. La sostanza però non cambia: i fondi devono arrivare sui conti correnti degli agricoltori, e devono arrivarci entro fine anno. Non servono promesse, né bandi “a futura memoria”. Servono pagamenti reali. E qui si misura la capacità (o incapacità) del sistema italiano di utilizzare le risorse europee. Se i 52,9 milioni torneranno a Bruxelles, il danno sarà doppio. Per gli agricoltori significherà minori indennizzi, in un momento in cui la crisi climatica rende sempre più incerti i raccolti e sempre più costoso il credito. Per il Paese sarà una figuraccia politica: perdere fondi comunitari proprio sulla voce che dovrebbe rafforzare la resilienza del settore.
Secondo l’ultimo rapporto Ismea, il valore assicurato delle polizze agevolate ha raggiunto nel 2024 circa 10,3 miliardi di euro, ma restano forti squilibri territoriali e settoriali. I fondi mutualistici dovevano servire a colmare questo divario. Se non si riuscirà a spenderli, si dimostrerà che l’Italia non solo non riesce a proteggere i suoi agricoltori, ma neppure a utilizzare gli strumenti messi a disposizione dall’Unione europea. A tre mesi dalla scadenza, il quadro è chiaro: o la burocrazia italiana riesce a completare le liquidazioni e a certificare la spesa, oppure Bruxelles si riprenderà i 52,9 milioni. Non sarà un dettaglio
contabile, ma un messaggio politico: l’Italia perde una delle poche leve innovative della PAC in materia di gestione del rischio, proprio mentre gli agricoltori pagano di tasca propria fino all’80 per cento delle perdite da eventi estremi. La protezione che manca non è più un concetto astratto: è fatta di vigneti distrutti dalla grandine, frutteti bruciati dalla siccità, stalle allagate. Dietro ogni pratica ancora ferma sui tavoli di AGEA c’è un’azienda che attende ristoro. Se i soldi non arriveranno, i danni non saranno solo dei bilanci agricoli. Saranno anche i conti pubblici italiani e la credibilità delle istituzioni a portare la cicatrice. E Bruxelles, a quel punto, non avrà colpe: avrà soltanto incassato l’ennesima prova dell’incapacità italiana di trasformare i fondi in strumenti reali.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
LE ELEZIONI POLITICHE A OTTOBRE, LE STRADE DI BUENOS AIRES PIENE DI MENDICANTI… INTERVISTA ALL’ECONOMISTA LEANDRO BONA
Leandro Bona è un economista argentino, ricercatore presso il Conicet (Consiglio nazionale per la ricerca scientifica e tecnica) e il Flacso (la Facoltà di Scienze Sociali dell’America Latina) e docente nella Universidad Nacional de La Plata. Parliamo con lui dell’annunciato riscatto dell’economia argentina da parte degli Stati Uniti, delle ragioni della sconfitta di Milei nelle scorse elezioni di Buenos Aires e delle elezioni politiche che si terranno in Agentina il prossimo 26 ottobre.
A latere dell’Assemblea Generale dell’Onu, Trump ha confermato a Milei il sostegno economico per frenare il peronismo nelle prossime elezioni di ottobre. Cosa è successo?
Ciò che si veniva osservando è che l’economia aveva perso l’equilibrio raggiunto nei mesi precedenti. La quantità di dollari risultava insufficiente a sostenere la stabilità del cambio e perciò la sconfitta nelle elezioni di Buenos Aires, di dimensioni inaspettate per il governo, aveva finito con l’accelerare un processo di protezione della riserva di dollari da parte di chi poteva comprarne, portando a una rivalutazione nei fatti della
valuta e a una svalutazione del peso argentino con possibili conseguenze sull’inflazione, la cui riduzione era stato il migliore risultato del governo.
Di fronte a questo quadro, il governo ha adottato una strategia d’ultima istanza: da un lato ha chiesto al governo degli Stati Uniti di sostenerlo nuovamente dandogli dollari per arrivare alle elezioni in condizioni migliori senza una svalutazione ulteriore del peso e allo stesso tempo ha applicato una misura di brevissimo periodo consistente nell’eliminare fino al 31 ottobre, le trattenute d’imposta sulle esportazioni del settore agricolo, per accelerarne la vendita e fare entrare più dollari nel paese.
Questo processo non è stabile, è probabile che in questo momento aumentino le esportazioni ed entrino più dollari, ma poi tornerà a generarsi un processo inverso, con un acquisto massiccio di dollari e di nuovo un problema sul cambio che può generare una svalutazione. Ossia, quello che questa strategia fa è prendere tempo per arrivare alle elezioni, ma rende incerto che cosa succederà il giorno dopo l’appuntamento elettorale.
Gli Stati Uniti vanno al riscatto economico dell’Argentina, la ricetta economica di Milei si è rivelata un fallimento. Il miracolo argentino sta diventando un incubo?
Si potrebbe dire così, infatti. In realtà, però, non è mai stato un miracolo. L’unica cosa che il governo poteva rivendicare come successo è che l’inflazione, dopo essere stata a oltre il 200% nell’anno in cui Milei vinse, era scesa al 100% lo scorso anno e quest’anno si colloca attorno al 30% e questo spiega l’appoggio che ha avuto e ancora ha il governo. Ma il costo di questa discesa dell’inflazione è stato la caduta dell’attività economica,
un processo di deindustrializzazione e la perdita di competitività che hanno peggiorato le condizioni di vita di buona parte della società. Si dice che il governo abbia ridotto la povertà, ma non è proprio così, in realtà al principio l’aumentò moltissimo per farla poi tornare al livello precedente.
Può spiegarci meglio questo passaggio, perché si sostiene spesso che Milei abbia ridotto la povertà.
Fino al dicembre 2023 c’era un livello di povertà attorno al 35-40% e quando Milei arriva al governo fa un’imponente svalutazione che genera molta inflazione inizialmente, fino al 25% in un mese, senza un aumento minimo dei salari.
La prima cosa che succede allora è l’enorme crescita della povertà che supera il 50%: questo è quanto accade con la svalutazione effettuata dal governo Milei, anche se lui l’attribuisce al governo precedente. Quando l’inflazione comincia a scendere, quel livello così elevato di povertà ovviamente inizia a ridursi e torna ai livelli precedenti, anzi forse anche peggiori, se solo si guarda alla quantità di persone che chiedono l’elemosina per le strade di Buenos Aires. O se ci si riferisce al livello del consumo di alimenti nei supermercati, scesi anche del 20%, il livello di alimentazione della popolazione si è perciò ridotto di un quinto: questo è intensificazione della povertà.
Inoltre, c’è anche una ragione tecnica: il paniere di beni con cui si misura la povertà ha venti anni e non è stato mai cambiato. Questo paniere oggi sottovaluta l’aumento dei servizi e sopravvaluta l’aumento dei beni. Prima, i servizi, che erano sovvenzionati dallo Stato, pesavano molto poco; ora i servizi
sono molto aumentati, specie quelli dell’energia. Questo paniere, perciò, sottovaluta la povertà, perché non tiene conto del peso dei servizi che non sono più sostenuti dallo Stato.
La sconfitta elettorale a Buenos Aires ha accelerato un processo che si veniva manifestando da alcuni mesi: forte instabilità del dollaro, fuga di capitali, scarsità di investimenti stranieri, rischio paese elevato. Ci spiega questo modello?
La disponibilità di dollari in Argentina spiega quasi tutto quello che succede. Spiega se si svaluta o meno la moneta argentina e perciò se questo altera il livello di inflazione. Il governo Milei non ha apportato alcuna novità, ha fatto come altri governi, come quello di Menem o Macri, ripetendo lo stesso schema. Ha apprezzato il tasso di cambio, così che mentre c’è inflazione la moneta non si svaluti, il peso sia più forte e possa comprare più dollari di prima. Questo permette che una parte della popolazione vada in vacanza negli Stati Uniti o in Brasile, ma questi dollari poi finiscono.
Il governo Milei al principio ha goduto di un raccolto record, facendo entrare molti dollari per la vendita dei beni del settore agricolo, poi ha favorito fiscalmente l’uscita di dollari dal paese e quindi ha fatto ricorso al Fondo Monetario per un prestito di 20 miliardi di dollari, anche se l’Argentina non aveva rimborsato ancora il debito precedente e ora chiede aiuto in modo inedito anche al Tesoro degli Stati Uniti. Ciò gli permette di finanziare per un altro periodo questo schema senza svalutare il peso, ma tornerà a scoppiare in una crisi. Molti pensavano che Milei fosse una novità, lo è in un senso politico ma non in quello economico
L’inflazione sta crescendo?
Non ancora, sta a poco meno del 2% mensile, per chiunque altro nel mondo sarebbe molto, ma non così nel quadro argentino. Finora non c’è stato un aumento dei prezzi così importante, anche se è possibile che il ritmo di crescita acceleri questo mese e il prossimo.
A quanto ammonterebbe il riscatto dell’Argentina da parte degli Stati Uniti? E in cambio Milei cederebbe lo sfruttamento delle terre rare del Nord di Argentina?
Non si conosce la cifra, si dice che possa essere da dieci a trenta miliardi di dollari. Il governo Trump ha questo carattere di transazione: offre aiuto in cambio di qualcosa. In Argentina si parla di due fattori: dello sfruttamento del litio e di installare una nuova base militare, sarebbe la prima volta che l’Argentina permette agli Stati uniti di fare operazioni militari sul proprio territorio. Gli Stati Uniti hanno basi militari in tutta la regione, mai ne aveva avute in Argentina e sarebbe un cambio inedito nella politica estera del paese.
Perché c’è tanta attenzione da parte di Trump nei confronti di Milei?
Penso che conti la situazione in cui si trova l’America Latina. Da una parte è evidente la disputa tra Stati Uniti e Cina per il controllo delle risorse e il controllo politico della regione e dall’altra conta come si stanno muovendo i diversi paesi sudamericani per il futuro. Il principale alleato degli Stati Uniti nell’area è l’Argentina, dal punto di vista del peso politico e del messaggio agli altri paesi. In Messico e Brasile ci sono coalizioni di governo progressiste e sono i due paesi più importanti, che non necessariamente sono ostili agli Stati Uniti ma hanno una
concezione molto più sovrana: non scambieranno terre rare per un accordo con gli Stati Uniti, non permetteranno nuove basi militari sul loro territorio, né smetteranno di avere relazioni con la Cina. All’Onu l’Argentina vota con gli Stati Uniti e Israele e contro la Cina. Quindi, se in Argentina si stabilizza un governo affine agli interessi degli Stati Uniti e per questo viene ricompensata, ciò rappresenta anche un messaggio agli altri paesi, come Cile, Perù, Colombia e Bolivia, che andranno prossimamente al voto.
Il prezzo dell’aggiustamento è ricaduto sulla classe media, i salari dei dipendenti pubblici sono molto al di sotto dell’inflazione, si è avuta una perdita di circa 100.000 posti di lavoro nel settore privato. Quanto ha pesato tutto questo sul voto di Buenos Aires?
La perdita di posti di lavoro nel settore privato ricade sull’industria e sul settore delle costruzioni e questi sono importanti particolarmente nella provincia di Buenos Aires dove Milei ha perso le elezioni. Quindi la spiegazione di quei risultati ha molto a che vedere con la perdita di occupazione, perché Buenos Aires è quella che più ha sofferto queste politiche. La manovra correttiva ha avuto le sue conseguenze negative anche sui pensionati, che hanno perso più reddito assieme ai lavoratori del settore pubblico, la gran parte dei quali sta nella provincia di Buenos Aires. Perciò si pensa che il risultato delle politiche di ottobre prossimo potrebbe essere un po’ più favorevole al governo nelle zone interne del settore agricolo o delle esportazioni di petrolio.
Milei ha presentato la legge finanziaria per l’anno prossimo, promettendo risorse per salute, scuola e attenzione alle persone disabili: è un annuncio che arriva a tempo?
In primo luogo non è vero che aumentano le spese in queste politiche, in alcuni casi c’è un recupero rispetto alla caduta dello scorso anno, quindi che ci sia un piccolo aumento non significa che ci sia una ripresa. In secondo luogo, la legge finanziaria fa riferimento a un tasso di cambio che è già vecchio. Dipende da cosa succederà con le prossime elezioni, che diranno sulla stabilità del governo da qui alle presidenziali del 2027. Penso che ci siano due scenari possibili: che il governo perda per molto poco e che con l’aiuto degli Stati Uniti abbia un periodo di stabilità fino al prossimo anno, o che perda con molta più decisione e che questo acceleri la crisi per la fine di quest’anno nonostante il riscatto.
Si ha la sensazione che gli alleati della prima ora di Milei lo stiano abbandonando: è così?
Da una parte i governatori che erano stati determinanti nel votare quello che il governo voleva, da qualche tempo, con i tagli alle risorse, hanno cominciato ad assumere un comportamento di maggiore opposizione, facendo perdere al governo alcune votazioni in parlamento. Dopo le elezioni di settembre, c’è una parte del partito di Macri che comincia a prendere le distanze da Milei e gli vota contro in aula. In definitiva, dipende da come andranno le prossime elezioni di ottobre.
(da Fanpage)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
“I FRATELLI E SORELLE DELLA FLOTILLA DEVONO SAPERE CHE LA CHIESA VI VUOLE BENE, VI STIMA E VI APPREZZA”
“I fratelli e le sorelle della Flotilla sono operatori di pace e devono sentirsi sorretti non soli
o abbandonati, come se stessero combattendo una battaglia persa. Devono sapere, invece, che la
Chiesa e’ vicina: vi vuole bene, vi stima, vi apprezza”. Cosi’ in una intervista a La Repubblica, l’arcivescovo di Genova, monsignor Marco Tasca, che il 30 agosto aveva fatto benedire le prime barche partite dal porto.
“Io mi sento diviso – ha sottolineato -, e’ faticoso decidere cosa fare. E mi chiedo: qual e’ la cosa piu’ utile per la gente a Gaza? Ma nel mio cuore io direi: andiamo avanti. Perche’ e’ importante dare un segno. In un momento cosi’ grave, in cui vediamo che stanno compiendo il male del mondo su gente inerme, su donne e bambini, la simbologia e’ importante. E noi dobbiamo dare dei segnali. La missione della Flotilla ha proprio il merito di aver reso evidente la follia di quello che sta accadendo a Gaza”.
Cosa puo’ fare la Chiesa? “Ha il dovere di esserci, di fermarsi a pregare”, ha precisato monsignor Tasca che ha ricordato le parole di San Massimiliano Kolbe, martire cristiano morto ad Auschwitz: “Il male distrugge, solo l’amore crea”.
E sulla denuncia dell’organizzazione umanitaria Music for Peace nei confronti di Israele che avrebbe richiesto di togliere dagli aiuti, biscotti e miele perche’ troppo energetici per donne e bambini, l’arcivescovo ha risposto: “Disgustoso. Disumano. L’invito e’ a essere piu’ umani: sentire ancora la vita degli altri, averla a cuore. L’opinione pubblica, dal basso, ha iniziato a esprimere sempre di piu’ la propria indignazione”.
Perche’ c’e’ voluto tanto? “Siamo assuefatti alla guerra, credo. E piano piano si parla anche con nonchalance di armi atomiche, di droni che sorvolano. Ci siamo assuefatti a un certo linguaggio, ai numeri dei morti. Ed e’ terribile. Si sta poi esasperando l’individualismo, che e’ una caratteristica del nostro tempo. Ma
questa esasperazione porta a estreme conseguenze”, ha concluso.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI DUE ANNI. IL TEMA DEL COSTO DELLA VITA È STABILMENTE IN CIMA ALLE PRIORITÀ, SEGUITO DA QUELLO DELLA SALUTE (37,8%). MOLTI SEGNALANO LA CRESCENTE DIFFICOLTÀ NEL FAR FRONTE AGLI OBBLIGHI FISCALI (28,1%). L’INFLAZIONE MORDE, I SALARI NON CRESCONO, LE BOLLETTE AUMENTANO, LE FAMIGLIE ARRANCANO”. ECCOLO QUI IL PAESE DELLE MERAVIGLIE RACCONTATO DALLA DUCETTA
In un clima internazionale carico di tensioni – con la guerra in Medio Oriente che continua ad allargare i propri confini e la Global Sumud Flotilla che sfida il blocco su Gaza – l’Europa si ritrova a fare i conti con droni e Mig russi che sorvolano aeroporti e infrastrutture strategiche, alimentando un crescente senso di insicurezza tra i cittadini.
Non è solo il timore per ciò che accade oltre i confini nazionali: è la sensazione che anche dentro “casa nostra” le cose stiano sfuggendo di mano.
Da una parte le guerre, le minacce, il linguaggio intriso di odio e paura, dall’altra, una quotidianità sempre più difficile da sostenere, stretta tra rincari, precarietà e promesse mancate. Il carovita resta la principale preoccupazione degli italiani (39,6%). Lo conferma l’ultimo rilevamento di Only Numbers, secondo cui il 53,6% degli intervistati dichiara che la propria condizione economica è rimasta invariata – se non peggiorata (37,4%) – negli ultimi due anni.
Non è solo una percezione, ma un dato costante rilevato dai monitoraggi bisettimanali sulle priorità degli italiani: da anni, ormai, il tema del costo della vita resta stabilmente in cima alla lista, seguito da quello della salute (37,8%). L’inflazione morde, i salari non crescono, le bollette aumentano e le famiglie arrancano.
A preoccupare gli italiani è anche l’accesso ai servizi sanitari. Un tema particolarmente sentito tra gli over 50, ma che coinvolge trasversalmente l’intera popolazione. Un cittadino su tre (30%) indica proprio la salute tra le principali spese straordinarie dell’anno. Subito dopo, vengono indicate la casa (23,8%) e l’auto (23%): costi fissi sempre più difficili da sostenere.
E, mentre le vacanze estive si allontanano lasciando dietro di sé molti conti in rosso, anche il rientro a scuola è vissuto con inquietudine: il 10,3% degli intervistati evidenzia come le spese scolastiche siano diventate insostenibili. Tra i giovani, addirittura uno su tre segnala questo problema (31,2%).
Non sorprende, allora, che persino la nascita di un figlio venga indicata da molti come un peso economico più che una gioia (2,2%).
E in un Paese che fatica a invertire il declino demografico, questo è un campanello d’allarme che dovrebbe risuonare forte insieme al tema delle pensioni giudicate troppo spesso insufficienti. Migliaia di cittadini, dopo una vita di lavoro e contributi versati, si trovano oggi con assegni che non
permettono loro una vita dignitosa.
Una generazione intera che ha retto l’Italia negli anni difficili oggi vive con il minimo, facendo i conti ogni mese con la scelta tra spesa, bollette o farmaci. È un paradosso crudele: si è lavorato una vita per contribuire al sistema, e oggi quel sistema non restituisce ciò che dovrebbe.
Secondo l’Inps, entro il 2040 ci saranno cinque milioni di lavoratori in meno: una voragine che metterà a dura prova l’intero sistema previdenziale.
È un’emergenza che non riguarda solo il futuro, ma che sta già mostrando le sue conseguenze oggi, tra scuole che chiudono, paesi che si spopolano e un sistema sociale che rischia di diventare insostenibile.
Se il tessuto demografico si lacera, può essere ricucito non con slogan, ma con scelte concrete, investimenti mirati, visione generazionale.
Questa situazione non solo alimenta rabbia e frustrazione, ma mina alla base il patto sociale su cui si fonda il nostro Stato. anche le tasse diventano un tema caldo: molti italiani segnalano la crescente difficoltà nel far fronte agli obblighi fiscali (28,1%).
Le spese aumentano, i redditi restano fermi, e la sensazione generale è quella di non riuscire più a pianificare un futuro.
Nella percezione degli italiani tutto sembra diventato instabile, precario, fuori controllo. Quando anche i progetti di vita più semplici – come mettere su famiglia, cambiare casa, fare un figlio… – diventano economicamente proibitivi, allora non si tratta più solo di economia, ma di democrazia, di diritti, di equità.
Perché se ogni giorno si ha l’impressione di resistere più che di vivere, allora è chiaro che qualcosa, nel patto tra cittadini e istituzioni, si è incrinato.
Alessandra Ghisleri
per “La Stampa”
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
UNA CITTA’ AVANGUARDIA DI CIVILTA’ DOVE DECINE DI MIGLIAIA DI CITTADINI, CON SINDACO E ARCIVESCOVO IN TESTA, MARCIANO PER IL RISPETTO DELLA DIGNITA’ UMANA
Avevano promesso che non sarebbe passato “neanche un chiodo”. E così è stato. Nella
serata di sabato 27 settembre, i portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp), insieme all’Unione Sindacale di Base (USB), hanno bloccato le operazioni di carico della nave Zim New Zealand, attraccata al Terminal Spinelli. La nave, appartenente alla compagnia israeliana Zim, era pronta a imbarcare dieci container contenenti materiale esplosivo destinato a Israele. La reazione dei lavoratori è stata immediata: dopo aver ricevuto la notizia durante la fiaccolata per Gaza in corso in città, i portuali si sono mossi in corteo verso il terminal e hanno proclamato lo sciopero immediato, occupando il varco portuale di ponte Etiopia. Conloro, una prima delegazione di manifestanti, composta da studenti e studentesse, attivisti e attiviste, cittadini e cittadine, che nel giro di poco tempo è cresciuta fino a diventare un presidio di circa duemila persone davanti all’ingresso del porto.
Le immagini arrivano intorno alle 22. Le conferme poco dopo. La Zim New Zealand lascia il porto di Genova senza aver caricato nulla. Il blocco è riuscito, la pressione dei lavoratori ha avuto effetto. Dai varchi del terminal si alza un applauso spontaneo. È una nuova vittoria, concreta e simbolica, di chi da anni si batte perché il porto di Genova non sia complice di guerre lontane, ma presidio attivo di pace. “A Genova non c’è spazio per i traffici di morte”, commentano dal Calp. “Non siamo disposti a caricare armi che alimentano massacri e genocidi. Con la Palestina nel cuore, continueremo a bloccare ogni nave della compagnia Zim che attraccherà in porto”.
Dalla fiaccolata al porto: Genova in piazza per Gaza
L’azione dei portuali ha fatto da cerniera a una giornata di mobilitazione intensa e partecipatissima: oltre 25mila persone hanno attraversato la città con una fiaccolata promossa da Music for Peace, per sostenere la Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria e politica diretta a Gaza con aiuti essenziali per la popolazione civile. Il corteo si è snodato dalla sede dell’organizzazione in via Balleydier fino al centro storico, facendo tappa sotto l’Università di Genova in via Balbi, dove da quattro giorni è in corso un’occupazione studentesca che chiede la rottura di ogni legame tra l’ateneo e istituzioni accademiche israeliane, in segno di protesta contro il genocidio a Gaza.
Sindaca Salis: “Genova sempre dalla parte di chi resiste”
Ad accogliere i manifestanti in piazza Matteotti, la sindaca di Genova Silvia Salis, che aveva partecipato anche al corteo insieme a migliaia di cittadini e cittadine: “Questa città – ha dichiarato dal palco – ha nel proprio DNA la solidarietà e il coraggio. Non possiamo restare in silenzio davanti a quello che accade a Gaza. Sono orgogliosa di essere sindaca di una Genova che torna a farsi sentire. Sempre Palestina libera”.
Al suo fianco anche il presidente di Music for Peace, Stefano Rebora, che ha raccontato l’urgenza degli aiuti: “A Gaza si mangia la sabbia, per sopravvivere. Un chilo di farina costa 40 dollari. Chi può ancora parlare, ha il dovere di farlo”.
In contemporanea, nella cattedrale di San Lorenzo, si è tenuta anche una veglia di preghiera promossa dalla Comunità di Sant’Egidio e dall’arcivescovo Marco Tasca: “La pace è un bene che non possiamo più dare per scontato”, ha detto l’arcivescovo. “In Palestina e in troppe parti del mondo le armi parlano ogni giorno, e troppi popoli hanno dimenticato il silenzio”.
Portuali di tutta Europa riuniti a Genova per fermare le navi che portano armi in Israele
Ma sabato 27 settembre, a Genova, non è stata bloccata soltanto una nave. Nello stesso giorno, mentre migliaia di persone attraversavano la città in fiaccolata per Gaza e i portuali bloccavano il carico di armi, si è svolta infatti anche un’assemblea che potrebbe segnare un punto di svolta nel fronte internazionale della solidarietà attiva: al Cap, il centro sociale nei pressi della Stazione Marittima, si sono riuniti delegati e lavoratori portuali provenienti da diversi Paesi europei: Spagna, Francia, Grecia, Belgio, Germania. Tutti uniti da un obiettivo
comune: costruire una rete dei “porti di pace”, capace di opporsi concretamente al transito di armamenti verso i teatri di guerra, e in particolare verso Israele. Durante l’incontro è stata rilanciata con forza la proposta di uno sciopero internazionale coordinato nei porti europei contro i traffici di armi, un’idea nata nei mesi scorsi e che, proprio da Genova, sta prendendo forma e forza, grazie all’azione determinata dei portuali del Calp e dell’Usb. L’assemblea ha assunto un significato che va insomma oltre il dato sindacale: un gesto politico, collettivo e transnazionale. I lavoratori hanno dichiarato con chiarezza che non saranno complici del genocidio in corso a Gaza e che nei porti del Mediterraneo non deve più passare nessuna nave che trasporta morte: “Non possiamo restare a guardare mentre si massacra una popolazione civile. Se i governi tacciono, se le istituzioni sono complici, tocca a noi fermare le armi con le nostre mani”, ha dichiarato uno dei delegati presenti all’assemblea.
Genova si conferma così non solo simbolo, ma punto di riferimento pratico per una nuova forma di solidarietà internazionale dal basso, capace di unire l’azione sindacale, la mobilitazione civile e la responsabilità politica.
(da Fanpage)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
I TRECENTO LAVORATORI DELLA FENICE CHIEDONO LA REVOCA DELLA NOMINA, POI C’È STATA LA PIOGGIA DI VOLANTINI LANCIATI DAI PALCHI: “LA MUSICA È ARTE, NON INTRATTENIMENTO”… A SOSTENERE LA MOBILITAZIONE CI SONO ANCHE ORCHESTRALI I DELLA SCALA, DEL REGIO DI TORINO, DEL PETRUZZELLI DI BARI, DELL’ARENA DI VERONA… UN PO’ DI DIGNITÀ PERSONALE, SUGGERIREBBE A VENEZI DI RINUNCIARE ALLA NOMINA E A COLABIANCHI DI DARE LE DIMISSIONI
L’affaire di Venezi a Venezia appare al momento senza uscita. Trecento lavoratori della Fenice su trecento, un caso di unanimità più unico che raro per teatri dove di solito tre persone hanno quattro opinioni diverse, non la vogliono, offesi sia dal merito che dal metodo di una scelta insensata.
Ultima protesta, in ordine di tempo, ieri sera. Prima un messaggio letto dai lavoratori del teatro La Fenice per chiedere la revoca immediata della nomina, poi, alla fine della sinfonia di Gustav Mahler, la pioggia di volantini lanciati dal pubblico dei palchi: “La musica è arte, non intrattenimento”.
Lei tace; il sovrintendente Nicola Colabianchi, autore del pasticcio, continua a ripetere che Venezi gli piace e quindi deve diventare direttrice di un’orchestra che non vuole farsi dirigere da lei.
Silenzio anche dagli ambienti governativi, cioè i veri mandanti di un’operazione mal congegnata e malissimo attuata (o magari davvero Colabianchi l’ha concepita da solo, e allora è davvero un kamikaze).
Parla solo il noto critico musicale Giovanni Donzelli, che però curiosamente nella vita non recensisce concerti ma fa il deputato di FdI, il quale spiega categorico che «Venezi è bra-vis-si-ma», non si capisce dal basso di quali competenze o conoscenze (a parte portare il cognome di uno dei maggiori tenori dell’Ottocento, Domenico Donzelli, ma scommetterei che non lo sa).
Il vero aspetto interessante di una vicenda così mediocre è la mobilitazione che sta provocando. Nei lanci d’agenzia si accumulano le prese di posizione di orchestrali e in generale lavoratori delle quattordici fondazioni lirico-sinfoniche nazionali, stufi di essere trattati come da definizione di Voltaire degli italiani: «il premio del vincitore» (in questo caso, delle elezioni).
A difesa di un minimo di decoro nelle nomine, e del principio
che devono essere condivise con chi ci lavora, e di solito dopo aver vinto un concorso, sono scesi in campo i rappresentanti sindacali della Scala, del Regio di Torino, del Petruzzelli di Bari, dell’Arena di Verona, del Maggio musicale fiorentino, ai quali si unirà anche l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e così via.
I lavoratori della Scala spiegano l’ovvio, quello che curiosamente Donzelli, Colabianchi & co. ignorano: «I teatri d’opera sono beni comuni, patrimonio della collettività, costruiti nel tempo grazie al lavoro di artisti, tecnici e maestranze.
Le scelte che ne determinano il futuro devono nascere dal dialogo e dal rispetto delle professionalità interne, non da decisioni imposte per logiche estranee all’arte. In queste condizioni diventa estremamente difficile, se non impossibile, costruire quel rapporto di fiducia e di sintonia artistica che rappresenta il presupposto essenziale per ogni autentico progetto culturale».
E qui sta il punto. Comunque vada a finire questa vicenda sconcertante, speriamo al più presto, la Fenice sarà di fatto ingestibile, e non solo per i sit-in e le proteste e le mobilitazioni già annunciati. Venezi sempre più appare una vittima della rozzezza altrui, di chi cioè l’ha voluta imporre ex abrupto invece di costruire con pazienza e gradualità un percorso che la portasse a essere accettata.
Potrà anche diventare direttrice musicale, ma sarà veramente improbabile che possa stabilire con la sua (forse) orchestra quel rapporto di fiducia e collaborazione che è indispensabile. Peggio ancora Colabianchi, che si trova a gestire un teatro che lo considera all’unanimità inadatto a farlo
Saggezza, e anche un po’ di dignità personale, suggerirebbe a lei di rinunciare alla nomina e a lui di dare le dimissioni. Ma in tutto questo pasticcio, francamente, la saggezza e la dignità sono già affondate in laguna.
(da La Stampa)
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Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile
TAJANI: SCONSIGLIO DI FORZARE IL BLOCCO NAVALE”… L’ALLARME DEI SERVIZI SEGRETI ITALIANI: SONO POSSIBILI NUOVI ATTACCHI DI DRONI ISRAELIANI, BEN PRIMA CHE LE NAVI RAGGIUNGANO LE ACQUE DELLO STATO EBRAICO. E STAVOLTA POTREBBERO NON ESSERE SEMPLICI FLASH BANG, ORDIGNI ASSORDANTI
Sole pronto a tramontare, vento che molla la presa, quarantasei barche che una dopo
l’altra mettono la prua a Sud. Dopo due giorni di sosta obbligata a Creta per riparare barche e animi dopo gli attacchi subiti, riparte la Global Sumud Flotilla, mentre da Otranto e Catania altre tredici barche si muovono verso la Striscia
Fedele a quanto annunciato, la flotta umanitaria non modifica la rotta, anche se a Roma la trattativa, quanto meno con la delegazione italiana, va avanti.
Nella serata di ieri c’è stata una prima telefonata di mezz’ora tra la portavoce Maria Elena Delia e il ministro Antonio Tajani, che subito dopo si è confrontato con la premier Giorgia Meloni.
Il vicepremier sostiene di aver parlato «da padre», raccomandando «prudenza e un atteggiamento non violento» e soprattutto«sconsigliando di forzare il blocco». Gli israeliani, rivela, gli avrebbero garantito che non useranno la violenza, tuttavia, ammette, «la situazione è preoccupante», anche perché gli italiani sono sparpagliati su barche con bandiere diverse e la fregata Alpino non potrà «in nessun caso» essere impegnata «in operazioni militari»
Agli atti resta la proposta, ribadita dal presidente Cei Matteo Zuppi, di consegnare gli aiuti al Patriarcato latino a Cipro: «C’è speranza». Per gli attivisti però una soluzione di compromesso passa solo dall’apertura di un canale umanitario permanente.
Già oggi o domani Delia potrebbe vedere Tajani. Contatti ci sarebbero anche con il ministro Crosetto, ma nessun appuntamento è ancora fissato. In agenda per oggi sono invece gli incontri con Elly Schlein, segretaria Pd, e Giuseppe Conte, leader M5s.
Nel frattempo la Flotilla continua il suo viaggio. «Direzione Gaza, senza ulteriori soste», assicurano dal comitato direttivo della Sumud, quando l’isola di Koufonisi è già alle spalle. È un rischio partire di notte: le acque territoriali sono solo sei miglia e fuori dall’ombrello garantito dalla Grecia, tutti sanno che potrebbe esserci un altro attacco. Fonti dei servizi nei giorn
iscorsi lo hanno fatto sapere agli equipaggi, sottolineando che potrebbe essere anche più duro dei precedenti, mentre Israele non ha certo lesinato minacce a quella che definisce la “Flotilla di Hamas”.
Un po’ per paura, un po’ per stanchezza, alcuni, fra cui dieci italiani, hanno preferito sbarcare. «Ma andiamo avanti, siamo 40», fa sapere la delegazione del nostro Paese.
Anche Arci, che sulla sua Karma ospita i parlamentari Annalisa Corrado e Arturo Scotto e il consigliere regionale Paolo Romano, tutti del Pd, continua la missione «per rompere l’assedio e fermare il genocidio» e al goveno chiede di proteggere barche e equipaggi «da atti di pirateria e azioni violente dell’esercito israeliano».
Sui social FdI li prende di mira e chiede ai leader del centrosinistra di «fermare l’assurda e inutile provocazione». Ma il Pd conferma il supporto ai «”senza potere” che – dice Francesco Boccia – fanno quello che i governi non hanno il coraggio di fare». «Qualsiasi decisione prendano, li sosterremo», afferma il leader 5S Giuseppe Conte.
Con la Flotilla di nuovo in mare alla volta di Gaza, sul tavolo del governo – ma l’informazione è stata recapitata anche ad alcuni esponenti di opposizione – sono arrivati i report dei nostri servizi segreti. Il senso è chiaro: l’intelligence prospetta possibili, nuovi attacchi di droni israeliani contro le imbarcazioni della missione umanitaria. Ben prima che le navi raggiungano il limite delle acque israeliane.
L’offensiva potrebbe avvenire nelle prossime ore, in acque internazionali, è il senso dell’alert. E stavolta potrebbero non essere semplici flash bang, ordigni assordanti, come cinque notti fa.
Il ministro degli Esteri in questi giorni ha sentito più volte l’omologo israeliano, Gideon Sa’ar. Chiedendo sostanzialmente «di non usare violenza». Cautela. Anche perché c’è un dialogo aperto con gli attivisti per valutare altri scenari, alternativi alla forzatura del blocco. Da Israele però, secondo canali diplomatici, è arrivata questa risposta: se la flottiglia avanza, la reazione di Israele ci sarà, a tutela dell’operazione in corso nella Striscia.
Ecco perché la nostra Marina militare, che con la fregata Alpino ha il compito di soccorrere le barche, è già stata incaricata di diramare avvertimenti via radio alla flottiglia. Con la richiesta di «fermarsi», perché andare oltre, anche in acque internazionali, espone a rischi seri
Sia la fregata italiana che quella spagnola si terranno a diverse miglia di distanza. E hanno già chiarito che non risponderanno ai droni, in caso di attacchi. Interverranno solo dopo, per fornire assistenza umanitaria. E a proposito di assistenza umanitaria: la Farnesina sta lavorando a una nuova evacuazione sanitaria da Gaza, la 15esima. Fra i bambini la piccola Tuleen, una neonata affetta da una grave malformazione congenita.
L’urgenza però è trovare uno sbocco alla Flotilla, che preveda un cambio di rotta. Al governo non credono nell’opzione Egitto, cioè Rafah, valico chiuso da mesi. Ieri Israele ha proposto all’Italia di far approdare le navi in uno dei suoi porti, quello di Ashdod, il più vicino a Gaza, trenta minuti di auto dai valichi Nord.
Da qui gli aiuti verrebbero fatti sbarcare e raggiungerebbero poi la Striscia con la mediazione del Patriarcato latino di Gerusalemme. Difficile pensare che la proposta possa essere accettata: arrivare lì significherebbe per la Flotilla interfacciarsi con le autorità israeliane.
(da agenzie)
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