Destra di Popolo.net

A DECIDERE IL VOTO NELLE MARCHE SARÀ L’AFFLUENZA: URNE APERTE OGGI E DOMANI NELLA REGIONE CHE IL CANDIDATO DEL CAMPO LARGO, MATTEO RICCI, PROVA A STRAPPARE AL GOVERNATORE MELONIANO, FRANCESCO ACQUAROLI

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

LA VARIABILE, OLTRE ALL’ASTENSIONISMO, È IL TEMA DI GAZA, ENTRATO DI PREPOTENZA NELLA CAMPAGNA ELETTORALE – È IL PRIMO TEST DELLE REGIONALI D’AUTUNNO E DARÀ UNA RISPOSTA ANCHE SULLA TENUTA DEL CONSENSO REALE DELLA DUCETTA, CHE SI È SPESA PER IL SUO ACQUAROLI, CON RICCHE “MANCE” ELETTORALI

In piazza Roma, nel cuore della città, durante il passeggio del sabato pomeriggio, i centri sociali delle Marche hanno radunato un centinaio di persone per Gaza e in tanti si fermano ad ascoltare. Una mobilitazione permanente che non viene fermata dalla pioggia.
Dal palco una carrellata di interventi e anche se nessun accenno diretto viene fatto al voto regionale di oggi e domani, d’altronde
è giorno di silenzio elettorale, le urne non possono che aleggiare da queste parti. «La mobilitazione per la Palestina sta spingendo il voto», ne sono convinti Enrico e Martina, due studenti universitari.
E se è vero che le Marche appaiono tra le sei regioni al voto questo autunno – più la Valle d’Aosta che va alle urne oggi – la più contendibile tra centrodestra e centrosinistra, è anche vero che a fare la differenza sarà l’affluenza.
Nel 2020, quando il centrodestra con Francesco Acquaroli, meloniano di ferro ora in corsa per il secondo mandato, ha strappato la Regione al centrosinistra che la amministrava da venticinque anni, andò a votare il 59,75% degli aventi diritto, quasi il 10% in più della tornata precedente del 2015.
Adesso l’europarlamentare del Pd Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, prova a riconquistare le Marche appoggiato da una larga coalizione di centrosinistra. «La questione Gaza ha preso il sopravvento anche sulle questioni locali, per questo bisogna andare a votare», osserva Diego, un altro studente universitario arrivato in piazza con la bandiera della Palestina e un ombrello.
È anche questo l’elettorato che Ricci ha provato a convincere, nella lotta contro l’astensionismo, quando ha annunciato che è pronto a riconoscere lo Stato di Palestina nel primo consiglio regionale.
Da subito la campagna elettorale ha assunto toni nazionali. Il governatore Acquaroli, per esempio, per la sua rielezione si è affidato all’esecutivo. Nelle Marche, già ad agosto, erano sullo stesso palco tutti i leader del centrodestra, compresa la premier Giorgia Meloni per parlare di progetti del governo per le
Marche. Poi c’è stato il bis in chiusura.
Anche lo sfidante Ricci ha avuto al suo fianco, in diversi momenti della campagna, tutti i big, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, per tentare la rimonta e provare a strappare la Regione alla destra.
(da agenzie)

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SEGGI APERTI IN MOLDAVIA PER LE ELEZIONI LEGISLATIVE, CHE SARANNO UNO SPARTIACQUE PER IL PAESE IN DIREZIONE DELL’EUROPA O DELLA RUSSIA. I SONDAGGI PARLANO DI UN TESTA A TESTA

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

IL PARTITO D’AZIONE E SOLIDARIETÀ EUROPEISTA DELLA PRESIDENTE MAIA SANDU È DATO AL 24,9%, APPENA UNA MANCIATA DI VOTI SOPRA AL BLOCCO PATRIOTTICO FILORUSSO DELL’EX PRESIDENTE IGOR DODO, AL 24,7% …IERI LA PRESIDENTE SANDU HA DENUNCIATO: “STIAMO ASSISTENDO A UNA PRESSIONE ENORME DA PARTE DI MOSCA PER INTERFERIRE NELLE ELEZIONI”

Seggi aperti in Moldavia per le elezioni legislative che si annunciano come uno spartiacque per il Paese in direzione dell’Europa o della Russia.
I cittadini potranno recarsi alle urne dalle 6 alle 20. Attesa per gli scrutini nell’ex repubblica sovietica che oscilla tra l’integrazione occidentale e il ritorno nell’orbita russa.
I sondaggi raccontano un testa a testa sul filo: il Partito d’azione e solidarietà (Pas) europeista della presidente Maia Sandu e del premier Dorin Recean, guidato da Igor Grosu, guida al 24,9%, appena una manciata di voti sopra al blocco patriottico filorusso dell’ex presidente Igor Dodo, al 24,7%.
Oggi si vota per il rinnovo del Parlamento, saranno eletti 101 deputati in un Paese di 2,4 milioni di abitanti. Il risultato di questo appuntamento elettorale è davvero difficile da pronosticare: i filoeuropei e i filorussi si contendono il voto in un Paese-cerniera, avamposto dell’Unione europea o della Russia. A seconda della posizione geografica dell’osservatore. La Moldavia gioca un ruolo strategico, stretta tra Romania e Ucraina; l’export di grano di Kiev è un tema di grande importanza nella Resistenza ucraina.
I blocchi sono due: il Pas (Partito d’azione e solidarietà), filoeuropeo; e il Bep, (Blocco elettorale patriottico), fronte pro-russo, coalizione costituita da quattro partiti, uno dei quali è stato escluso dalla Commissione elettorale.
Il Paese è spaccato anche linguisticamente, entrambi gli idiomi rumeno e russo sono ufficiali; la crisi economica di Chisinau, (con un Pil cresciuto solo dello 0,1% nel 2024), un’inflazione crescente e povertà diffusa determinano sacche di malcontento che i partiti filorussi cavalcano da tempo.
Il messaggio europeo fatica comunque a guadagnare consensi in un Paese che patisce le conseguenze della guerra in Ucraina, innanzitutto per l’approvvigionamento di gas russo.
Il Pas, pro-Ue, della presidente Maia Sandu, in alcune aree del Paese fatica molto a convincere gli elettori e la congiuntura economica sfavorevole (blackout, aumenti del prezzo del gas
imposizioni della Ue) amplifica il dissenso, strumentalizzato da Mosca.
Un tema chiave di quest’elezione sono le interferenze, con accuse reciproche tra i due blocchi. Una recente analisi di Carnegie Endowement sostiene che «l’ecosistema di interferenze rimane un passo avanti, più agile, reattivo e veloce ad adattarsi in tempo con il calendario elettorale della Moldavia. E lo scontento dell’opinione pubblica è reale».
Infatti fino a poche settimane fa il 40% degli elettori si dichiaravano indecisi. L’analisi mostra che per indebolire il percorso europeo della Moldavia sarebbe sufficiente un Parlamento frammentato e il Pas con poco margine per stringere alleanze.
È di poche ore fa l’allarme lanciato dalla presidente Sandu, in una intervista alla tv tedesca Zdf: «Quella a cui stiamo assistendo è una pressione enorme da parte di Mosca per interferire nelle elezioni».
E poi ancora: «Sono in gioco l’integrità territoriale e l’indipendenza». Il Cremlino – dice Sandu – ha speso «centinaia di milioni di euro», nel tentativo di influenzare il risultato delle consultazioni, per finanziare partiti politici, corrompere elettori e formare giovani per «attività di destabilizzazione»
(da agenzie)

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CHI HA BLOCCATO LA MESSA IN ONDA DI “NO OTHER LAND” SU RAI3? IL DOCUMENTARIO, CHE RACCONTA LE DEMOLIZIONI, LE VIOLENZE E LA RESISTENZA DEI PALESTINESI CONTRO I COLONI ISRAELIANI CHE OCCUPANO LA LORO TERRA IN CISGIORDANIA, DOVEVA ANDARE IN ONDA IL 7 OTTOBRE, MA È SPARITO DAL PALINSESTO

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

DALLA RAI TRAPELA CHE LA DECISIONE SAREBBE ARRIVATA DOPO UNA “TELEFONATA DI NATURA POLITICA” CHE AVREBBE “SUGGERITO” IL RINVIO

Secondo quanto trapela da Viale Mazzini, la decisione sarebbe arrivata dopo una telefonata di natura politica, che avrebbe “suggerito” il rinvio. Molti dipendenti parlano apertamente di censura
Doveva andare in onda il prossimo 7 ottobre, in prima serata su Rai Tre, ma la trasmissione di No Other Land è stata improvvisamente cancellata dal palinsesto. Il documentario – vincitore dell’Oscar 2025 e incentrato sulla vita dei palestinesi di Masafer Yatta, in Cisgiordania – racconta le demolizioni, le
violenze e la resistenza quotidiana sotto l’occupazione israeliana. La data fissata non era casuale: la Rai aveva scelto proprio il secondo anniversario dell’attacco di Hamas contro Israele per proporre un racconto dall’altra prospettiva, con l’obiettivo dichiarato di stimolare riflessione e confronto. Il piano editoriale era già stato approvato, presentato alla stampa e inserito nel palinsesto ufficiale.
Il dietrofront della Rai
Poi il passo indietro. Secondo quanto trapela da Viale Mazzini, la decisione sarebbe arrivata dopo una telefonata di natura politica, che avrebbe “suggerito” il rinvio. Nessuna conferma ufficiale, ma all’interno della Rai c’è malumore: molti dipendenti parlano apertamente di censura. Per ora, l’ipotesi è di recuperare la programmazione il 21 ottobre, data in cui è previsto un altro film già considerato «di minore impatto».
Il contesto in Cisgiordania
Il rinvio avviene in un contesto in cui la violenza in Cisgiordania continua a mietere vittime. Alcuni dei protagonisti e registi del documentario sono stati direttamente colpiti negli ultimi mesi: Basel Adra investito da coloni e privato della sua casa; Hamdan Ballal arrestato e picchiato dall’esercito israeliano; Odeh Hadalin, attivista, ucciso a colpi di arma da fuoco quest’estate. Il paradosso è evidente: mentre all’estero No Other Land è stato salutato come un’opera di forte valore civile e umano, capace di dare voce a chi normalmente resta invisibile, in Italia la sua messa in onda viene rinviata per motivi che poco hanno a che fare (sembra) con scelte editoriali.
(da agenzie)

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IL FINTO MITO DEL VENETO D’ORO

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

DA TERRA DI EMIGRAZIONE RECORD A UNA DELLE AREE PIU’ RICCHE DELLA NAZIONE… MA NON PER MERITO DEI VENETI E DEGLI AMMINISTRATORI

Nel dibattito politico di questo periodo preelettorale, il Veneto occupa un ruolo centrale com’è normale che sia per la regione italiana che ha conosciuto nell’ultimo cinquantennio il più impressionante balzo in avanti rispetto alla sua storia precedente.
In un sessantennio quest’area del Paese, partendo da una condizione di arretratezza economica che sembrava inarrestabile, si è trasformata in una delle più dinamiche e industrializzate della nazione.
Infatti, se l’emigrazione di massa è la spia più evidente della povertà di una popolazione, il Veneto è stata in assoluto la Regione con il più alto numero di emigrati rispetto a qualsiasi altra. In un secolo (1876/1976) sono andati via 3 milioni e 300 mila abitanti, mentre nello stesso periodo dalla Campania, ad esempio, sono partiti “solo” 2 milioni e 800 mila abitanti. Insomma, il Veneto, contrariamente a quello che si è consolidato nell’immaginario sull’emigrazione italiana, è stata la prima regione a essere interessata in Italia da un esodo di massa. Ma già prima del 1866, anno dell’annessione al nuovo Stato, da questa regione si erano mosse migliaia e migliaia di persone con destinazione i territori più vicini (Lombardia, innanzitutto) e quelli dell’impero Austro-ungarico e della Germania. In seguito, furono le Americhe la principale meta dei veneti, in particolare gli Stati del Sud. Tra il 1876 e il 1900 dal Veneto partirono ben 940.711 abitanti, cioè il 17,9% dell’intera popolazione. E altri 882 mila tra il 1901 e il 1915, mentre il grande esodo meridionale cominciò dopo l’adozione delle misure protezionistiche a fine Ottocento che tagliò fuori l’agricoltura meridionale dalle esportazioni all’estero, in particolare in Francia, costringendo alla fame braccianti e contadini che scapparono in massa all’estero.
Il record emigratorio del Veneto non è durato poco. Nel periodo 1911-1914 questa regione deteneva ancora il primato: 3.111 espatri ogni centomila abitanti, seguito dall’Abruzzo (2.857) dalla Sicilia (2.270) e dalla Campania (2.270). Nell’immediato Secondo dopoguerra da questo territorio sono emigrate quasi 250 mila persone, più di Campania e Sicilia messe insieme (236
mila).
Se, dunque, l’emigrazione ottocentesca e novecentesca è stata la spia dolorosa delle difficoltà a procurarsi da vivere nel nuovo Stato, si può dire che la regione a maggiore disagio nella storia italiana (fino al boom successivo) è stata, appunto, il Veneto. Per più di un secolo le sue terre hanno conosciuto un’arretratezza economica, un abbandono, uno spopolamento simile, se non maggiore, ad altre aree meridionali. Ancora nel 1952 il reddito per abitante era pari al 59% del Piemonte e al 55% della Lombardia. Nel decennio successivo non ci sarà più emigrazione da questa regione, che comincerà a fare dei passi avanti notevoli, mentre si continuerà ad andare via dal Sud. Nel 2022 il Pil per abitante del Veneto è stato di 37.238 euro, rispetto ai 21.653 dell’intero Mezzogiorno.
Quindi, nel giro di poco più di un secolo, una delle regioni più povere all’indomani dell’unificazione italiana è diventata una delle aree più ricche e produttive della nazione. Le vie dello sviluppo sono impervie e la storia concede nel tempo delle chance e delle opportunità ad ogni territorio al di là delle condizioni di partenza. Un caso, dunque, da studiare approfonditamente nel quadro del discorso sugli assetti istituzionali che la nuova nazione scelse all’indomani del 1861 e all’indomani del 1970 con la nascita delle regioni.
Secondo la propaganda leghista, il successo del Veneto degli ultimi decenni (come di altre regioni del Nord) sarebbe dovuto unicamente alle qualità dei suoi abitanti e dei suoi imprenditori, oltre che alla qualità delle sue istituzioni, in particolare di quella regionale. Indubbiamente le cause “soggettive” hanno la loro
parte nella storia economica, ma se lo sviluppo di un’area e l’arretratezza di un’altra sono spiegabili solo con le caratteristiche dei popoli o in base alle diverse qualità umane, civili e imprenditoriali innate o solo dal funzionamento dei poteri locali, perché mai i veneti hanno aspettato tanto tempo (più di un secolo) per compiere questo salto? Vuol dire che sono stati bravi solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento? E prima, quando per un secolo emigravano in massa, erano forse degli svogliati e nullafacenti come poi hanno cominciato ad apostrofare i meridionali quando il benessere è stato sempre maggiore dalle loro parti e meno al di sotto del Garigliano?
In conclusione, è proprio il Veneto, dunque, a mettere in discussione la teoria dello sviluppo diversificato sulla base di una specie di “meritocrazia territoriale”, o della presenza di qualità etniche e culturali diverse a seconda della popolazione o grazie all’autonomia delle regioni. Secondo i leghisti, i veneti sono artefici del loro benessere, così come lo sono tutti i “padani”, mentre i meridionali sono complici della loro arretratezza. Riguardando con serietà alla storia dell’emigrazione italiana, questa spiegazione è sostenibile? E rispetto alle qualità morali superiori dei veneti, è compatibile il fatto che il più grande episodio di corruzione che ha riguardato le Regioni nel campo dei lavori pubblici è avvenuto in Veneto con lo scandalo del M.O.S.E., la diga mobile costruita contro le inondazioni di Venezia che ha visto finire in galera l’ex presidente Giancarlo Galan?
Una seconda interpretazione, poi, attribuisce la causa del boom proprio alla nascita delle regioni nel 1970. È valida questa tesi?
Ma è noto che la crescita economica del Veneto, come di altre aree settentrionali, è precedente al pieno dispiegarsi dei poteri e delle competenze regionali. Molto di più hanno contribuito i comuni con alcune loro scelte di aree industriali messe a disposizione degli imprenditori e con una serie di servizi indispensabili per il decollo industriale, come anche il caso emiliano-romagnolo dimostra. Tutt’al più le regioni hanno accompagnato uno sviluppo che si stava producendo per altra via, ma non lo hanno determinato, anche nel caso del Veneto, dove sicuramente l’apparato amministrativo ha dato una migliore prova di sé rispetto ad altre aree settentrionali, centrali e meridionali.
Il ritardo economico non è un fatto antropologico, dato una volta e per sempre. Non appartiene alla razza, all’indole o al carattere, e non è affatto una virtù del regionalismo. Le differenze tra le due aree del Paese non sono ricollegabili né a cause remote (altrimenti che dire del Veneto fino al 1960?), né a una presunta superiorità etica (che dire di Galan?). Scrivono giustamente gli studiosi Vittorio Daniele e Carmelo Petraglia nel libro L’Italia differenziata. Autonomia regionale e divari territoriali (Rubbettino) che il nesso tra maggiori poteri regionali e il dinamismo di alcune aree è assolutamente indimostrabile. Una maggiore autonomia locale non incide di per sé sullo sviluppo economico di un’area. Il Veneto di oggi deve molto di quello che è alle opportunità derivanti dall’apertura di un grande mercato sovranazionale e sovraregionale dal quale, anche per capacità dei suoi amministratori e dei suoi imprenditori, ha saputo cogliere pienamente le opportunità. Ma quelli che un secolo prima
emigravano non erano né incapaci né meritevoli dell’arretratezza di allora. Né lo sono quelli che oggi si trovano in difficoltà.ù
(da ilfattoquotidiano.it)

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LA FLOTILLA, MATTARELLA E L’AGGRESSIVITA’ DI MELONI

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

LA CAPACITA’ DEL GOVERNO DI NON ASCOLTARE IL PAESE

Correva l’anno 1974. Con una storica sentenza (290) la Corte costituzionale sanciva la costituzionalità dello sciopero politico, cioè dello sciopero non avente finalità economiche, ma volto a incidere sull’azione dei pubblici poteri. Rimaneva penalmente punibile soltanto lo sciopero “diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale” o “diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”.
Veniamo a Giorgia Meloni. Ha lamentato – per una volta dicendo il vero – che la manifestazione di lunedì per Gaza fosse in realtà diretta contro il governo. Qui soccorre il concetto della responsabilità politica, che si distingue in istituzionale e diffusa. La prima osserva forme tipiche in sedi individuate (ad esempio un voto parlamentare sulla fiducia che può obbligare un governo alle dimissioni). La seconda è libera nella individuazione di chi
la attiva e nella forma, e si risolve in una valutazione negativa sul titolare del potere pubblico.
Lunedì è stata fatta valere dal popolo sovrano, nelle forme dello sciopero, la responsabilità politica (diffusa) del governo per l’inerzia e l’ignavia dimostrate nei confronti delle scelte genocidarie del governo di Israele. Meloni, che della responsabilità istituzionale non si cura evitando accuratamente le aule parlamentari, ha capito di non poter ignorare la spinta popolare. E ha in parte modificato la narrazione – non la sostanza – dell’indirizzo del governo.
Analogo ragionamento vale per Meloni quando definisce il viaggio della Flotilla pericoloso e irresponsabile. L’accusa è che si intende non già aiutare il popolo di Gaza, ma attaccare il governo. Certo è vero, per una parte. Ha due obiettivi. Uno è l’aiuto a Gaza. Un altro – come per la manifestazione – è far valere una responsabilità politica (diffusa) dell’esecutivo per la sua inerzia. Crosetto nell’informativa parlamentare ha definito la scelta della Flotilla pericolosa e inutile. Pericolosa per i naviganti, forse, e come tale liberamente assunta. Ma proprio per questo ancor più significativa.
Questo giornale ha dato ampio conto della trattativa imperniata su Mattarella. È stata, per un verso, una supplenza dell’esecutivo, che su un tema cruciale di politica estera avrebbe potuto e dovuto definire la sua linea – e non lo ha fatto – nella sede propria di un dibattito parlamentare, in un confronto costruttivo con le opposizioni. Il comunicato del Quirinale riconosce che il valore dell’iniziativa della Flotilla “si è espresso con ampia risonanza e significato”. Sono parole che certificano
un risultato raggiunto dalla Flotilla, e vogliono riflettere la funzione di rappresentante dell’unità nazionale (art. 87 Cost.). Si chiede disponibilità ad accettare la proposta di intermediazione della Chiesa, anche se il blocco navale si può considerare – come nota Torquato Cardilli sul Fatto – in sé illegittimo. La Flotilla respinge l’appello, ma si continua a trattare. Le menzogne di Netanyahu in un’Assemblea Onu semivuota non aiutano. Mattarella si rivolge a tutti, ma quanto pesa per i non italiani la sua esortazione?
Quel che accade è un case study sulla responsabilità politica. Una maggioranza vogliosa di autocrazia può con relativa facilità, avendone i numeri, sterilizzare la responsabilità politica istituzionale marginalizzando il parlamento e rifiutando ogni ascolto, mediazione o sintesi politica con le opposizioni. Assai più difficile è azzerare la responsabilità politica diffusa, imbavagliando un sentire collettivo forte nel Paese. Se accadesse, si scivolerebbe nell’autocrazia. E che nella maggioranza qualche pulsione ci sia ce lo dice la legge sulla sicurezza da poco approvata (80/2025), insieme ai ricorrenti attacchi alla magistratura, reiterati anche durante l’ultima votazione sulla riforma costituzionale alla Camera, sulla quale il test referendario è ormai certo.
Meloni riprende anche la lamentazione sull’odio, per l’immagine in cui viene accomunata all’influencer Maga Charlie Kirk assassinato. In Italia il rifiuto della violenza in ogni forma è generalizzato, salvo minime e isolatissime frange. Siamo lontani anni luce dagli Usa. Ma Meloni scimmiotta l’aggressività verbale contro gli avversari dell’amico Trump. È ovviamente
un’arma di distrazione di massa, con ogni probabilità a efficacia decrescente. Potremmo vederlo già nei test elettorali in arrivo.
È anche possibile che Meloni ci stia anticipando una interpretazione del premierato dei suoi sogni. Le viene rivolta la critica di non voler rappresentare tutti gli italiani come un presidente del Consiglio dovrebbe. Ma a ben vedere la censura potrebbe essere ingenerosa. Soprattutto perché non considera che molti italiani non gradiscono affatto l’idea di essere rappresentati da lei.
(da ilfattoquotidiano.it)

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L’ULTIMA DI SALVINI: 150.000 EURO PER UNA SERIE TV SUI CAMIONISTI

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

IL PROGETTO PER “VALORIZZARE E PROMUOVERE” IL SETTORE

L’ultima operazione-simpatia curata dal Mit, il ministero guidato da Matteo Salvini, sfocia nell’artistico: una serie tv per “promuovere e valorizzare” gli autotrasportatori. Costo: quasi 150 mila euro già solo per lo sviluppo del progetto, propedeutico alla eventuale realizzazione. Una imperdibile fiction sui camionisti, insomma, e sul settore del trasporto su gomma in generale, evidentemente in crisi di apprezzamenti o in cerca di un rilancio di immagine.
L’argomento non sembra molto in linea con gli algoritmi delle serie tv più amate, a meno di non omaggiare un illustre predecessore come Duel di Steven Spielberg, in cui però il tir protagonista metteva terrore. Qui però per il ministero dei Trasporti la questione è seria.
Tutto parte per iniziativa del Comitato centrale per l’albo nazionale degli autotrasportatori, un ufficio che al Mit fa parte del dipartimento per i trasporti e la navigazione. A maggio di quest’anno, il Comitato firma un protocollo di intesa con la Rai, impegnandosi a “effettuare uno studio di un progetto televisivo” riguardo ai temi del settore, con l’obiettivo di “veicolarne le azioni di promozione dei riferimenti valoriali e funzionali”, cioè “professionalità, modernità, sviluppo tecnologico, sicurezza, sostenibilità ambientale e sociale”. Senza dimenticare l’obiettivo di “invogliare i giovani a intraprendere la professione di autotrasportatore”. Sempre meglio imparare un mestiere.
Non era detto però che il protocollo fosse messo a terra attraverso il format di una serie tv. E invece a luglio il ministero, in qualità di stazione appaltante, avvia una procedura “per l’affidamento del servizio ideazione e redazione di un documento di progetto per una serie televisiva, incentrata sulla
promozione e valorizzazione della figura dell’impresa di autotrasporto”. Di lì a poco arriva l’affidamento diretto alla società One More Pictures, fondata dall’attuale n. 1 di Cinecittà Manuela Cacciamani, di cui di recente si è sentito parlare anche perché coinvolta, insieme ad altre, in un’inchiesta sul tax credit (Cacciamani, che non è indagata, ha lasciato il vertice dell’azienda).
Il ministero dei Trasporti mette a disposizione un importo massimo di 135 mila euro netti, poi ribassati di un 10 per cento in sede di trattativa. Ergo: nel decreto firmato da Enrico Finocchi, presidente del Comitato, si affida il lavoro alla One More Pictures per “il prezzo complessivo di euro 121.500,00 oltre Iva”, per un costo lordo di 148.230 euro.
Che succede adesso? In queste ore scade il termine entro cui One More Picture può presentare il proprio progetto al ministero, primo passo verso la realizzazione della serie. Si tratta di una bozza che, qualora l’iter andasse avanti, entrerebbe in fase di pre-produzione.
Quando e se sarà ultimata, la fiction sugli autotrasportatori avrà ottime possibilità di finire in Rai, non soltanto per il protocollo di intesa firmato nel maggio scorso, ma anche perché Viale Mazzini è richiamata pure nel paragrafo in cui il ministero di Salvini spiega le ragioni per cui è stata scelta One More Pictures: “La società dispone di esperienze idonee a garantire la corretta esecuzione delle obbligazioni contrattuali (…) avendo realizzato produzioni di film, documentari, cortometraggi, spot pubblicitari e promo in collaborazione con distribuzioni cinematografiche, broadcaster, brand, istituzioni e in particolare con Rai Cinema,
Rai Play, Rai Documentari, Rai Com, Rai Cinema Channel VR e Rai Trade”.
Un modo per dire che il ministero si affida ai migliori e che c’è a essere fiduciosi che la serie tv vada a meta, per la gioia degli autotrasportatori e degli spettatori. Netflix prenda appunti: a sfidare Stranger Things ci sono i camionisti italiani.
(da il Fatto Quotidiano)

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PERCHE’ MELONI NON PUO’ PERMETTERSI DI PERDERE LE MARCHE

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

LA MAGGIORANZA HA SPESO CIFRE FOLLI PER QUESTA CAMAGNA ELETTORALE E IL GOVERNO HA ELERGITO MILIONI ALLE MARCHE NELL’ULTIMO MESE

Sarà una verifica al ralenty, per tappe, lunga sei mesi. La linea di partenza sono le elezioni regionali di oggi e domani nelle Marche, il traguardo è il referendum costituzionale sulla giustizia della primavera prossima. In mezzo Calabria, Toscana, Campania, Veneto e Puglia. Dal punto di vista del centrodestra: sei mesi per capire se il campo largo è un potenziale sfidante di successo oppure il solito pastrocchio a sinistra, ma anche se la primogenitura di Fratelli d’Italia resiste inalterata a prescindere dal vannaccismo (Toscana) e dallo zaismo (Veneto).
E tuttavia, a guardar bene, l’intera maratona sarà decisa dalla prima tappa perché l’unica regione contendibile risultano le Marche ed è lì che Giorgia Meloni non può permettersi di perdere, anche per motivi interni. Francesco Acquaroli, il governatore uscente che si confronta con il progressista Matteo Ricci, è un fedelissimo della premier fin dai tempi bui della lotta per il 4 per cento. Al contrario di altri generalissimi della maggioranza che hanno costruito feudi inattaccabili – i leghisti al Nord, Forza Italia in Sicilia e Calabria – è sembrato fin dall’inizio della campagna elettorale uno che si poteva battere, e i maligni ci hanno trovato la dimostrazione della fragilità delle proposte della destra
Se altrove si favoleggiava di terzi mandati indiscutibili e si ostentavano nomi capaci di vincere a man bassa per dieci, quindici, vent’anni, nelle Marche no. E si capisce come per Fratelli d’Italia sia diventata una faccenda d’onore confermare quella posizione e smentire l’antico pregiudizio dei suoi alleati: i vostri nomi non ce la fanno.
Così la campagna è stata rafforzata non solo da un enorme investimento in propaganda, comizi, aperitivi, raduni, ma anche da ripetute dimostrazioni di affetto governativo, ingenti risorse sbloccate, inclusione della regione nella Zona economica speciale del Mezzogiorno e ieri pure 38 milioni del Mit per rifare le strade. Battere Ricci di larga misura, in una prospettiva nazionale, significherebbe minimizzare il risultato pratico del campo largo che Elly Schlein ha testardamente messo insieme.
Scenario immaginato in caso di una vittoria per 4-5 punti: solito psicodramma a sinistra, riformisti del Pd all’attacco sullo sbilanciamento della coalizione, leadership sotto processo per incompetenza. Il successo di Occhiuto in Calabria, la settimana dopo, potrebbe sugellare il caos riformista perché lì il potenziale sconfitto è Pasquale Tridico, indicato dai Cinque Stelle, e chissà i mugugni sull’alleanza che non premia nessuno…
In caso contrario, se vincesse Ricci, saranno problemoni. La maratona potrebbe cominciare male e portare a un 4 a 2 poco glorioso per il centrodestra che renderebbe ansiogena la madre di tutte le battaglie, quel referendum sulla giustizia che nel 2026 offrirà agli italiani l’occasione di un parere complessivo sull’operato del governo, senza quorum e quindi senza rete di protezione. L’immagine vincente che Giorgia Meloni ha saputo
dare per tre anni, mai una crisi nei sondaggi, mai una flessione nella popolarità, deve reggere fino a quel momento perché la vittoria referendaria è un indispensabile trampolino verso le elezioni Politiche. Senza quella, il centrodestra non avrebbe nulla in mano per dire: abbiamo avviato le riforme, dateci altri cinque anni per completarle.
Poi, certo, in questa verifica al rallenty ci sono pure i sottotemi. La Lega tendenza Vannacci al debutto in Toscana come andrà? Confermerà le sue sbandierate potenzialità o si rileverà un flop come certi raduni del Mondo al contrario? E in Veneto, il Carroccio della tradizione reggerà la sfida della successione a Luca Zaia o dovrà rassegnarsi al sorpasso di FdI già registrato alle politiche? Il disastro di Gaza avrà effetti sulle scelte elettorali come qualcuno spera e altri temono? Né si può escludere l’opzione dei minimizzatori, quelli convinti che la corvè di questa tornata elettorale sia stata caricata da troppi significati e sarebbe più sensato dire: mavalà, sono solo regionali, sono solo le Marche, che vuoi che cambi?
(da La Stampa)

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TRAVAGLIO: “INVECE DI CHIEDERE ALLA FLOTILLA DI TORNARE, MATTARELLA E MELONI DICANO A ISRAELE CHE COLPIRLA SAREBBE UN ATTO DI GUERRA”

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

“LA QUESTIONE E’ STATA COMPLETAMENTE RIBALTATA, IL GOVERNO AVVERTA ISRAELE CHE TALE SAREBBE CONSIDERATO OGNI LORO ATTO SCONSIDERATO”

Un atto gratuito, irresponsabile e pericoloso come ha detto Giorgia Meloni? No, per Marco Travaglio, ospite di Accordi&Disaccordi, il talk di approfondimento condotto da Luca Sommi con la partecipazione di Andrea Scanzi in onda il sabato su Nove, “è un atto di di disobbedienza civile che merita rispetto”.
Stiamo parlando della Global Sumud Flotilla salpata verso le acque di Gaza tra mille polemiche e appelli al rientro: 52 imbarcazioni con un equipaggio formato da 44 nazionalità diverse con due obiettivi: portare aiuti umanitari nella Striscia e rompere l’assedio che Israele impone su quella zona dal 2007. “Certamente chi porta quei viveri non pensa di sfamare oltre due milioni di palestinesi a Gaza – ha spiegato il giornalista – vuole fare un forte gesto politico che merita il massimo rispetto perché ci mettono non solo la faccia, ma si giocano la pelle perché in qualsiasi momento può succedere l’irreparabile. E io vorrei che la Meloni come anche Mattarella, invece di fare degli appelli alla flottiglia, facessero degli appelli a Israele che è nostro alleato per dirgli che nessun blocco navale, nemmeno se fosse giustificato da una guerra, potrebbe giustificare un attacco a delle barche a vela o a motore disarmate, cariche di persone disarmate e di aiuti”.
Il direttore del Fatto Quotidiano ha proseguito dicendo che “non c’è blocco navale che possa impedire loro di arrivare. Non abbiamo nessuna intenzione nemmeno di dichiararci neutrali rispetto a quelle schifezze che vediamo tutti i giorni. – ha detto ancora Travaglio – Ci appelliamo all’alleato Israele avvertendolo che le barche non sono tutte italiane. Per cui anche il fatto che i nostri governanti, il nostro Presidente, pretenda di dare dei suggerimenti a 500 attivisti di 44 paesi diversi è abbastanza velleitario, perché non credo che in Nuova Zelanda gliene possa fregare di meno di quello che dice la Meloni o di quello che dice Mattarella”. e ancora: “In ogni caso dicano a Israele che le barche che battono bandiera italiana sono territorio italiano e che chiunque toccasse quelle barche dichiarerebbe guerra all’Italia. Quindi non siamo noi che dichiariamo guerra a Israele, è Israele che dichiara guerra a noi e a tutti i paesi delle bandiere di quelle barche se osa fare anche soltanto un forellino nello scafo. Qui – ha concluso il giornalista – abbiamo ribaltato completamente la questione. Noi dobbiamo avere paura che vadano là perché se Israele li attacca noi dobbiamo dichiarare guerra a Israele. Ma dico ma siamo fuori di testa? E’ esattamente il contrario“.
(da agenzie)

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BEATRICE VENEZI CONTESTATA A LA FENICE: VOLANTINI IN PLATEA CONTRO LA SUA NOMINA

Settembre 28th, 2025 Riccardo Fucile

IL PUBBLICO DEL TEATRO VENEZIANO SOLIDALE CON GLI ORCHESTRALI FA VOLARE VOLANTINI DURANTE GLI APPLAUSI FINALI DELLA TRAGICA DI MAHLER

Una pioggia di volantini ha invaso questa sera la platea del Teatro La Fenice di Venezia, lanciati dai palchi come gesto di protesta contro la nomina di Beatrice Venezi a futura direttrice musicale stabile, incarico previsto dall’ottobre 2026. Il gesto è
avvenuto al termine della Sinfonia n. 6 “Tragica” di Gustav Mahler, diretta dal maestro Giuseppe Mengoli. Con lo slogan “La musica è arte, non intrattenimento”, il pubblico aveva ricevuto dagli orchestrali prima del concerto i volantini con un invito esplicito: farli ‘volare’ durante gli applausi finali.
La risposta è stata immediata al termine dell’impeccabile esecuzione dell’Orchestra La Fenica salutata da un lungo applauso: fogli lanciati dai palchi, sollevati dalla platea, accolti da numerosi spettatori come un gesto di solidarietà nei confronti delle maestranze del Teatro che hanno proclamato lo stato di agitazione permanente fino a quando non sarà revocato l’incarico a Venezi.
Prima del concerto è stato anche letto in sala un comunicato ufficiale dell’assemblea generale dei 300 lavoratori del Teatro. Il documento esprime “unanime solidarietà” ai professori d’orchestra che hanno manifestato pubblicamente la loro contrarietà alla nomina di Venezi.
La critica non si limita alla figura della direttrice, ma investe le modalità con cui la nomina è stata decisa: secondo i lavoratori, si è trattato di un processo privo di confronto e trasparenza. Il messaggio finale al pubblico è stato diretto: “A tutto il gentile pubblico presente, chiediamo la solidarietà e l’appoggio che solo chi ama il nostro teatro può darci”. E così è stato, con gli applausi ricevuti dalle maestranze.
(da agenzie)

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