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INTERVISTA A MENTANA: “RENZI CE L’HA CON LA7 E UN PO’ HA RAGIONE: TROPPI FAN DEL NO”

Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile

“SI SENTE PENALIZZATO DA POLITICI E GIORNALISTI”

Ordine ai ministri e ai politici renziani di boicottare i programmi di La7. Per l’esattezza gli studi di Lilli Gruber, Corrado Formigli e Giovanni Floris.
Ospiti che rifiutano l’invito o che prima annullano e poi confermano la partecipazione.
Enrico Mentana, direttore del TgLa7, cosa succede fra Matteo Renzi e la vostra televisione?
Non saprei definire il rapporto, se rovinato o compromesso, di sicuro il presidente del Consiglio, martedì scorso, ha visto la trasmissione di Floris e non c’è stata una corrispondenza di amorosi sensi.
Come ha reagito il fiorentino?
Tuoni molto forti e fulmini vistosi contro La7, perchè, forse, considera il pensiero renziano penalizzato, compresso fra voci politiche e giornalistiche avverse.
Una lamentela che riporta agli anni di Silvio Berlusconi.
Lo scenario è mutato e Renzi sconta in maniera oggettiva una carenza di organico per la televisione e un modello che spesso non gli è amico. Premessa: nessun politico in campagna elettorale può concedersi di non mandare i suoi in una rete televisiva, soprattutto se è quella più vocata al confronto politico. Ma specularmente, nessuna rete televisiva, e soprattutto quella più vocata al confronto politico, può fare a meno di una parte dello schieramento. Insomma, il vino bianco non può fare a meno della bottiglia e del bicchiere. Ma anche loro non possono permettersi di riempirsi solo di vino rosso.
Qui la critica è doppia: include le ossessioni di Renzi, non esclude le responsabilità  di La7.
Mi spiego meglio, tento di illustrare le ragioni del premier. Perchè siamo arrivati sull’orlo dell’incidente di frontiera? Per la vera asimmetria di questa battaglia, che non sta tanto nell’eterogeneo fronte del No, che vede affiancati D’Alema e Brunetta, Zagrebelsky e Salvini, Di Battista e Fini, contrapposto al Pd renziano con ben pochi compagnons de route. Ma nel ruolo attivo di molti nostri colleghi: pienamente legittimo, e però ingombrante.
Renzi si sente in minoranza in tv, e dunque in minoranza da Floris e colleghi?
I giornalisti-opinionisti non sono certo una novità  nel panorama politico italiano. Con piena legittimità  sono stati parte importante dello scontro in tv negli anni del berlusconismo. Si può dire anzi che — tanto per fare l’unico esempio di un discorso che non è giusto personalizzare — il confronto Belpietro-Travaglio sia stato il match rituale emblematico di quel lungo periodo. Ma come sappiamo i giornalisti in campo erano tanti, fieramente contrapposti. Oggi però quei due benemeriti insiemi si trovano a combattere la stessa battaglia contro un nemico comune. E Renzi da parte sua non ha saputo o potuto coinvolgere a sua volta nella battaglia per il Sì nessun opinionista già  rodato da quelle battaglie epocali e rinoscibile dal cittadino-teleutente.
Quanto può durare il divieto renziano?
Lontani due mesi dalla data del referendum potevamo non dare rilievo agli effetti di questa asimmetria, ovvero al ruolo non neutro degli influencer invitati nelle nostre trasmissioni. Diciamo che l’arrabbiatura di Renzi è prematura, se non proprio preconcetta. D’ora in poi il problema però si pone, nel nostro interesse in rapporto ai telespettatori, non per mero rispetto della par condicio o per compiacere lo schieramento che ne ha meno. E questo si può ottenere — beninteso — senza censurare o lasciare a casa nessuno: basta tenere sul piede di parità  gli argomenti del Sì e quelli del No. In sostanza: se parlano di referendum — come direbbe Grillo — uno vale uno, Benigni e Di Maio, la Boschi e Giordano. La par condicio ufficiale è al solito un’apoteosi di lacci e lacciuoli: la nostra, sostanziale, dovrebbe avere una sola regola, “alla fine del programma le tesi del Sì e quelle del No hanno avuto lo stesso rilievo e lo stesso tempo”.

Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano”)

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ASCOLTI TV, “POLITICS” SCENDE ANCORA, SOLO IL 2,5% DI SHARE

Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile

“DI MARTEDI” GUADAGNA E ARRIVA AL 7%… LA7 QUARTA RETE NAZIONALE

Nella tradizionale giornata dello scontro tra talk politici, prosegue la corsa di Giovanni Floris che con il suo diMartedì ha ottenuto 1 milione 297 mila spettatori con il 7.02% di share su La7, lasciando ancora una volta al tappeto il rivale Semprini alla guida di Politics — Tutto è politica su Rai3, che si è fermato a 627 mila spettatori con il 2.52%
E’ la quarta settimana di fila di ascolti in calo sia in spettatori che in share per il programma voluto da Daria Bignardi al posto di Ballarò e con un conduttore nuovo arrivato da Sky Tg24 al posto di Massimo Giannini.
Per contro, ascolti sempre in crescita per Floris, in numeri assoluti nei quattro confronti a distanza, mentre in share c’è stata una leggera flessione nella seconda puntata sulla prima (5,93 rispetto a 6,05) ma risultando comunque ampiamente sopra il programma di Semprini.
Che è partito dal 5,48% dell’esordio ed è via via scivolato fino a dimezzare e oltre quel risultato iniziale.
La pessima prestazione del talk di Raitre aveva causato, la scorsa settimana anche la reazione del deputato del Partito democratico e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, che aveva chiesto conto del danno al servizio pubblico causato dalla scelta compiuta dalla dirigenza di Rai3.
Prime time.
L’informazione.
Nella sfida tra i tg prevale il Tg1 con 5 milioni 420 mila spettatori pari al 24.29% di share; segue il Tg5 con 3 milioni 779 mila (16.75%) e quindi il TgLa7 con 1 milione 370 mila (6.11%).

(da agenzie)

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DIMMI QUANTO TEMPO OTTIENI IN TV E TI DIRO’ CHE POLITICO SEI

Luglio 4th, 2016 Riccardo Fucile

ALLE EMITTENTI ITALIANE PIACE PALAZZO CHIGI, MENO L’EUROPA

«Una violazione intollerabile alla par condicio e al pluralismo televisivo”. Le prime scintille arrivano già  a ridosso delle elezioni comunali.
Dopo la mancata partecipazione di esponenti del Pd a una puntata pre-elettorale di Ballarò, Barbara Serracchiani e Lorenzo Guerini del PD hanno annunciato un esposto all’Agcom, l’agenzia garante delle comunicazioni. Denunciano una «esclusione intollerabile».
A distanza di sue settimane, a giochi ampiamente conclusi, c’è sempre chi rilancia e incolpa i media per i risultati ottenuti.
Ma come stanno le cose? Chi è più presente e chi meno in tv?
Per capirlo — almeno per quanto riguarda i telegiornali — possiamo ricorrere ai dati dell’Agcom stessa, che misura quanto spazio i tg lasciano ai politici per parlare direttamente in video: il cosiddetto “tempo di parola”.
Quanta esposizione ha dedicato il servizio pubblico a Renzi, rispetto ai presidenti del consiglio che l’hanno preceduto?
Il record del Professore  
Nei primi otto mesi di governo Matteo Renzi ha ottenuto un tempo di parola medio del 18%. Enrico Letta, che l’aveva preceduto a Palazzo Chigi nel 2013, in un periodo di tempo equivalente è arrivato al 15,3%.
I valori più elevati da qualche anno a questa parte spettano però a Monti, cui è stato dedicato il 20% del tempo di parola, mentre nei primi mesi del governo Berlusconi del 2008 il leader azzurro risultava all’11,8%.
Questo significa che per ogni ora riservata a soggetti politici o istituzionali che parlano in video nei tg Rai, Monti è comparso per dodici minuti, Renzi poco meno di undici, Letta appena più di nove, Berlusconi per sette minuti.
Le rilevazioni fanno riferimento a periodi diversi.
Monti è stato nominato premier in un periodo particolarmente turbolento per il paese, all’apice della crisi dello spread del 2011, e questo può averne spinto il profilo verso l’alto.
Viceversa, parte dei primi otto mesi del governo Renzi è stata influenzata — da un punto di vista mediatico — dalla campagna elettorale per le elezioni europee di primavera 2015, periodo in cui per legge è necessario osservare la par condicio.
In rispetto delle leggi vigenti, radio e tv devono concedere spazio a tutte le forze politiche in competizione, il che appiattisce un po’ il risultato dei grandi partiti — e con essi delle forze di governo.
Il servizio pubblico  
L’approccio dei Tg Rai emerge ancora più chiaramente se prendiamo in considerazione soltanto i primi due anni del governo Renzi, da marzo 2014 a marzo 2016.
In periodi non elettorali, lo spazio dedicato a governo (e suoi esponenti), presidente del consiglio e PD supera spesso il 50% del totale, con picchi anche intorno al 65-70%.
Fanno eccezione, appunto, le settimane vicine al voto: così che a maggio 2014 e maggio 2015, in vista rispettivamente delle elezioni europee e delle regionali, il tempo di parola concesso alle forze di maggioranza cala intorno al 35%.
Il resto dello spazio viene poi suddiviso fra gli altri partiti, opposizione inclusa, nonchè con altri soggetti istituzionali come il presidente della Repubblica, della Camera e così via.
Le altre emittenti  
D’altra parte nel panorama televisivo italiano non esiste neppure soltanto la Rai. I dati raccolti da Agcom consentono di capire quanto è ampio lo spazio concesso a partiti e figure istituzionali anche dai tg Mediaset e La7.
Nel periodo che va da giugno 2015 a marzo 2016, ultimo per il quale sono disponibili dati quando è stata condotta l’analisi, il Pd ottiene ampi spazi in entrambi — soprattutto nel secondo, in cui da solo occupa un quarto del tempo di parola totale. Pdl-Forza Italia ottiene invece nel complesso un’esposizione assai più modesta tranne che su Mediaset, mentre il tg che offre più spazio al Movimento 5 Stelle è di nuovo quello de La7 diretto da Enrico Mentana.
Discorso simile per la Lega, che proprio su quest’ultimo notiziario trova coperture relativamente ampie.
Allo stesso tempo, i tg Rai appaiono come i più governativi e istituzionali, lasciando ampio spazio di parola a ministri e sotto-segretari, insieme a figure come il presidente della Repubblica.
Diverso il caso di Matteo Renzi, cui viene concesso di parlare in video per minor tempo sul tg de La7, ha una larga esposizione in Rai ma — curiosamente — in questo periodo di tempo risulta ai massimi proprio su Mediaset.
L’Europa non c’è  
A guardare gli ultimi due anni delle principali reti televisive italiane — Rai e Mediaset — la differenza principale è innanzi tutto nel modo in cui i tg lasciano spazio al governo e ai suoi esponenti.
Nella prima, eccezion fatta per i periodi di par condicio, Palazzo Chigi raramente scende sotto il 20% del tempo di parola. Il Movimento 5 Stelle, pur con un po’ di variabilità , ha ottenuto in entrambi circa lo stesso spazio per esprimere le proprie posizioni politiche, mentre grande differenza fra Rai e Mediaset emerge rispetto al Pdl-Forza Italia e alla figura del presidente del consiglio.
I membri del partito di centro-destra, dall’avvio di questo governo, hanno sempre ottenuto ampio spazio nelle reti del biscione, quando invece in Rai lo spazio dedicato loro è stato spesso simile a quello del Movimento 5 Stelle — dunque non particolarmente elevato.
E se già  nel servizio pubblico Renzi ha ottenuto ampio spazio di parola, su Mediaset i valori crescono ancora.
Altro elemento è l’attenzione riservata all’Unione Europea, praticamente inesistente su entrambi i network, e spesso minore persino dello spazio dedicato ai partiti più piccoli: segnale piccolo ma evidente che da tempo l’attenzione mediatica italiana appare assai più concentrata sui problemi interni che sulle evoluzioni della costruzione europea.

Davide Mancino
(da “La Stampa“)

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INTERVISTA A ZORO: “NON INVENTO NULLA, E’ LA POLITICA A FAR RIDERE”

Giugno 4th, 2016 Riccardo Fucile

“L’IRONIA E’ GIA’ NEI FATTI, IO NON FACCIO CHE REGISTRARLI”

Diego Bianchi è alla scrivania. Felpa nera, t-shirt con un Beethoven pop stampato, jeans. Se ne sta seduto davanti al computer a preparare i reportage che andranno in onda nello speciale “Gazebo” post elettorale lunedì su Rai Tre in prima serata, ospite d’eccezione Roberto Saviano.
Quasi quattro ore di riprese solo a Napoli. «Ne ricaverò sette minuti», dice.
È indaffarato, perchè è lui che taglia, monta, sceglie le musiche. Giovedì porterà  “Zoro Live” all’Auditorium Parco della Musica per la Repubblica delle Idee (Cavea, ore 22).
Gli studi romani di Gazebo, hanno l’atmosfera del posto di frontiera, anche se sono a Prati, quartiere di avvocati.
Quattro stanze spoglie, tavoli da lavoro, porte che sbattono, gente che va e viene: sembra una casa di universitari, solo che alle pareti al posto dei poster ci sono i murales di Makkox.
Zoro — ma lui, a 47 anni, preferisce essere chiamato Diego, che poi è il nome vero nascosto dietro la maschera — è disegnato su una parete: guarda il Colosseo. L’intervista inizia fissando il computer dove scorrono comizi e gente per strada.
Si può raccontare la politica con umorismo?
«Mi limito ad osservare. L’ironia è nei fatti, da parte mia non faccio che registrarli. Il pericolo è che i politici davanti alla telecamera assumano un atteggiamento performativo, cerco di evitarlo».
Quanto conta il montaggio per ottenere l’effetto satirico?
«Taglio molto ma non abuso del montaggio. Una volta ho mostrato Bertolaso durante un comizio. Era solo sul palco che fissava il nulla. Ho lasciato che l’immagine parlasse da sè, aggiungendo come colonna sonora Segnali di vita di Battiato (la canticchia: Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire…, ndr)»
In realtà  basta la faccia di Zoro sparata nella telecamera a creare uno straniamento comico
«La verità  è che ho un occhio da Prima Repubblica, classico. Mi sono formato in altri anni, quando la politica non era questa. È il corto circuito tra il mio sguardo e il linguaggio politico di adesso che fa ridere. La mia formazione è stata in famiglia, nel quartiere. Alle elementari frequentavo la sezione del Pci di San Giovanni a Porta Metronia, dove erano iscritti i miei genitori. Lì ho poi ambientato il film “Arance e martello ».
Liceo classico, una laurea in scienze politiche. Come è nato Zoro?
«Sono figlio unico, da piccolo a casa giocavo a subbuteo da solo. Mi sdoppiavo, mi triplicavo… Zoro, il mio alter ego, ha origine lì, in quei giochi infantili. Ma non ero triste( ride, ndr). Poi un giorno ho acceso la telecamera e ho iniziato a parlare del mio essere di sinistra, di questa cosa chiamata Pci, poi Pds, infine Pd. Così ho messo in scena il racconto della mia militanza nel primo video su YouTube di Tolleranza Zoro. Prima curavo i contenuti del portale Excite».
Con chi si è laureato?
«Alla Sapienza con Domenico Fisichella, diventato poi ministro dei Beni culturali del governo Berlusconi. Con una tesi sulla Rete di Orlando e la Lega».
Il pensiero critico è un modo per fare politica?
«Mia nonna diceva che la politica si fa pure al bagno. Per quanto mi riguarda sono stato un militante. Certo però non credo nella causa di un partito quanto nella causa del racconto della realtà ».
Un racconto che ha tanti registri. I reportage dai campi profughi di Idomeni, Lesbo, Calais sono tutt’altro che ironici.
«Cerco di trattare con leggerezza una materia pesantissima. Ho sempre avuto interesse per il sociale. Ora il grande tema è l’immigrazione, in studio lunedì ci sarà  Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa. Siamo entrati nella jungle di Calais, comprato le calosce, camminato nel fango, ci siamo ritrovati nel mezzo di una guerriglia tra poliziotti e comunità  curda, dormito in una tenda. Lavoriamo così, al pubblico mostriamo tutto ciò che ci capita».
Non è che si era stancato delle storie del Palazzo?
«Un po’, ero stanco delle beghe dei partiti, sentivo il bisogno di andare in giro per il mondo».
Un ricordo incancellabile.
«Al confine serbo-ungherese, dove arrivavano pullman pieni di serbi. Non riesco a dimenticare una madre strappata alla figlia. A che serve aggiungere commenti? Fare politica è anche questo: far vedere che cosa accade davvero ».

Raffaella De Santis
(da “La Repubblica”)

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LA RIFORMA DEL SENATO NON FA AUDIENCE: CALANO GLI ASCOLTI DEI TALK IN TV

Ottobre 10th, 2015 Riccardo Fucile

BALLARO’ E DI MARTEDI INSIEME ARRIVANO SOLO ALL’8,6% DI SHARE, IL CALO E’ DI OLTRE UN TERZO DI TELESPETTATORI

Che sia calata l’attenzione per i talk show politici è ormai noto e delle ragioni si discute variamente: la politica che fa riforme, piacciano o non piacciano, non è riducibile a barzelletta o a scandalo e meno si presta allo “spettacolo”; i redattori cresciuti in quella fase mal si ritrovano in questa successiva della quale sembrano capire meno degli spettatori; i talk sono diventati troppi e spesso sovrapposti, dividendosi e rendendo sparuto l’ascolto che in precedenza i marchi più celebri (Ballarò, Servizio Pubblico) accaparravano in solitaria; e infine, proprio perchè l’aria dello studio non è più quella frizzante di una volta, nei talk ora ci vanno i politici di seconda schiera, con ciò contribuendo a rendere meno seduttivo il tutto.
Pur sapendo ed essendoci ridetti mille volte queste ed altre diagnosi della crisi, ci ha sorpreso accorgerci che nella settimana scorsa, se si guarda al cuore della serata, e cioè dalle 21.30 alle 23, Ballarò e Dimartedì sommati insieme si fermano all’8,6% mentre la coppia del giovedì, Virus e Piazza Pulita, resta addirittura sotto l’8%.
Insomma, la “crisi” è arrivata al punto che a seguire i talk show si dedica un pubblico che non arriva ai due terzi di quello di un tempo.
Sono rimasti evidentemente solo i più appassionati del genere, quelli che Rai Uno può inventarsi qualsiasi fiction e Canale 5 ri-inalberare ogni Grande Fratello e loro non li prendono in considerazione perchè amano innanzitutto lo spettacolo degli umani che parlano.
Questi appassionati della parola purchessia formano un popolo, prevalentemente nordico, di meno di 2,5 milioni di persone, distribuito in ogni classe di età , sociale e ad ogni livello di istruzione. Ma che ha tuttavia le sue preferenze.
Quali conduttori, ad esempio, sono maggiormente seguiti dagli spettatori che possiedono il titolo di studio più basso?
La risposta è, in ordine decrescente, Del Debbio (sì, proprio il filosofo che ha smesso di interpretare la realtà  ed ora vuole raccontarla), Giannini, Porro.
E chi il più disdegnato dai laureati? Sempre Del Debbio, mentre in quell’ambiente chi svetta è di gran lunga Floris.
Chi è il più rifuggito dalle donne, specie se giovani? Gianluigi Paragone.
E sì che per anni ci hanno fatto credere che a essere rockettari e magari anche motociclisti si sarebbe rimorchiato un sacco.
Mentre Formigli è il generalista della situazione, abbastanza seguito, rispetto a tutti gli altri, in ogni target, con un solo exploit tutto suo fra i maschi dagli 8 ai 14 anni.
E nessuno, neppure Formigli, sarà  mai in grado di capire il perchè.

Stefano Balassone
(da “il Fatto Quotidiano“)

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A LUGLIO I TG PERDONO UN MILIONE DI SPETTATORI, RESISTE IL TG1, MALE TG5

Agosto 1st, 2015 Riccardo Fucile

CROLLANO ANCHE I NUMERI DELL’INFORMAZIONE REGIONALE DEL TG3

Tra le 20 e le 20.30, il pubblico del luglio in corso è decisamente diminuito rispetto a quello dell’anno precedente: 16 milioni contro i 17,7 milioni del 2014, con una flessione del 10%.
Ma mentre per i programmi di intrattenimento sui vari Rai2, Rai3, Italia1 e Rete4, se n’è andato uno spettatore ogni dodici, i Tg di quell’ora scendono nel loro complesso da 8,5 a 7,5 milioni, perdendo dunque uno spettatore ogni nove.
E quindi c’è un problema proprio per il pilastro, il telegiornale, del sistema televisivo italiano (sottolineiamo: italiano).
L’unico che non deve asciugare troppe lacrime è il Tg1 che, pur cedendo 200mila spettatori, arretra meno degli altri e addirittura migliora la “quota di mercato” passando dal 23,2% al 25%.
Mentre il Tg5 lascia sul campo due punti secchi e finisce sotto il 17%, più o meno quello che capita, in proporzione, al Tg La7 che scende dal 5,8% al 5,3%.
Pare quasi che, nell’ambito di una generale disaffezione per i tg dei broadcaster, quello più tradizionale regga meglio, quasi a dirci che per capire quel che sta avvenendo conviene guardare non ai prodotti, ma agli spettatori.
Quelli del Tg1, in genere più anziani e popolari, probabilmente le notizie continuano ad aspettarle dal telegiornale; mentre gli spettatori, in genere più giovani e con titoli di studio più elevati, che un tempo vedevano Tg5 e Tg La7, forse sempre più trovano nei loro smartphone, lungo tutta la giornata e senza aspettare il rintocco del notiziario serale, tanto le notizie quanto i commenti immediati, e quindi tutta la polpa dei Tg. Restando comunque la risorsa dei talk ai bulimici della chiacchiera, della indignazione e della sit com guidata da un conduttore.
Una potente lente di ingrandimento andrebbe poi posta sopra i Tg regionali, quelli che trasmettono tra le 19.30 e le 20.
Perdono più meno quanto i Tg nazionali, e cioè l’11,5%.
Ma sotto il dato medio traspare il cedimento strutturale in alcune regioni, Valle d’Aosta, Liguria, Veneto, Abruzzo, Molise, Calabria e Sicilia, dove gli spettatori calano da un quinto a un terzo rispetto a quelli di un anno fa.
Un recente tracollo che accentua la già  nota marginalità  nel Sud, dove, proprio nelle regioni più popolose (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) i Tgr, galleggiano, si fa per dire, fra il 5 e il 7%.
Sembra evidente che la impostazione editoriale, strutturale e organizzativa della informazione della azienda pubblica si stia confrontando con due crisi: una, condivisa con tutti i broadcaster, derivante dal dilagare di internet; l’altra, specifica della Rai, per la consunzione (costosissima consunzione, visto che coinvolge, a occhio, un decimo del totale delle risorse aziendali) della informazione locale per come è concepita, fatta e trasmessa (anche qui, forse, è il caso di cominciare a guardare alla Bbc, che di edizioni delimitate territorialmente ne fa di meno, ma sull’ammiraglia, mentre il flusso delle notizie e approfondimenti locali li ha potentemente avviati al web).
Tanto per afferrare il futuro anzichè farsene minacciare.

Stefano Balassone
(da “il Fatto Quotidiano”)

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TG LA7, MENTANA: “SE NON VA IN ONDA LA DIRETTA MI DIMETTO”

Maggio 31st, 2015 Riccardo Fucile

UNO SCIOPERO DEI TECNICI METTEVA A RISCHIO LO SPECIALE ELETTORALE, IL DIRETTORE SCRIVE E LA PROTESTA VIENE RINVIATA

Se lo speciale elettorale sulle Elezioni regionali non andrà  in onda, mi dimetterò da direttore del Tg di La7.
Questo il succo di una lettera mandata da Enrico Mentana ai suoi colleghi del telegiornale della tv di Urbano Cairo.
La lettera
«Un’agitazione dei tecnici de La7 -scrive Mentana nella lettera – minaccia lo svolgimento della tradizionale diretta elettorale che dovrebbe andare in onda dalle 22 fino alle 8 del mattino. Da settimane scandiamo il conto alla rovescia per queste elezioni regionali (trasmissioni come Coffee Break lo hanno fatto anche in senso stretto), tutti i leader hanno affollato le nostre trasmissioni per la campagna elettorale, e oggi che infine si arriva al traguardo, uno sciopero rischia di cancellare l’intero lavoro, l’intero appuntamento, l’intera reputazione di una rete votata all’attualità , all’informazione, al resoconto puntuale dei passaggi politici fondamentali. Non è questa la sede per discutere le motivazioni dell’agitazione, nè i motivi che hanno impedito all’azienda di ottenere una sospensione dello sciopero: ho certo delle idee in merito, e se ci sarà  interesse e occasioni sono pronto a esporle (vivo anch’io tutti i giorni le difficoltà  di una situazione obiettivamente critica). Ma ora, a dieci ore dalla partenza della maratona elettorale, voglio solo dire una cosa molto semplice: se non andrà  in onda da domani non sarò più il direttore del tg de La7. Non per capriccio o per minaccia, ma per la mera constatazione che con l’assenza dalla scena in queste 48 ore noi abdicheremmo platealmente e inescusabilmente al nostro ruolo, perdendo in un sol colpo tutta la reputazione conquistata in cinque anni di lavoro durissimo in cui ci siamo imposti come la tv della realtà , della diretta, dell’informazione pulita».
Poche parole, ma chiare.
Protesta sospesa
Ma lo stesso Mentana, nel primo pomeriggio di domenica, annuncia che è tutto rientrato.
«La protesta è stata sospesa e la maratona elettorale di La7 andrà  regolarmente in onda».
Dalle 23 ci saranno gli exit poll dell’Istituto Emg: «Saremo gli unici a farli, a metterci la faccia», spiega Fabrizio Masia, direttore generale della Emg.

(da “il Corriere della Sera”)

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NON PODEMOS: IN ITALIA VALE IL FATTORE TV

Maggio 26th, 2015 Riccardo Fucile

IL VIDEO LOGORA CHI NON CE L’HA E CHI NON LA FA

In Spagna vince Podemos, una sinistra giovane che fa la sinistra e con un leader serio che alimenta speranze, che vedremo se saprà  soddisfare, ma intanto segnala la vitalità  di una democrazia giovane e in buona salute.
Nella cattolicissima Irlanda vincono addirittura i matrimoni gay, mentre noi siamo ancora qui a domandarci se sia il caso di riconoscere le unioni civili, patrimonio comune della destra e della sinistra in tutto il resto d’Europa.
E l’Italia? L’altra sera, come ogni tanto gli accade quando è sovrappensiero, Berlusconi ha detto almeno una cosa vera a Che tempo che fa.
Vera e al contempo agghiacciante: i due Matteo, nel senso di Renzi e Salvini, sono i beniamini dei sondaggi e degli elettorati di centrosinistra e di destra perchè sono sempre in televisione.
Il fatto che abbiano poco di nuovo da dire, e che quel poco sia perlopiù falso, non conta: lo dicono benissimo, e tanto basta in tv, dunque nella testa degli italiani.
La differenza con B. è che lui, di nuovo, non ha proprio nulla da dire e per di più lo dice malissimo: dunque anche se occupasse da mane a sera i teleschermi come ai (suoi) bei tempi, non sposterebbe voti.
E lo sa bene, infatti promette nuovi (o nuove) leader che non ha.
Ancora una volta, con buona pace di chi l’ha sempre negato per giustificare il conflitto d’interessi, il Fattore Tv si dimostra, come a ogni elezione dal ’94 a oggi, fondamentale per conquistare o conservare i consensi: il video logora chi non ce l’ha e chi non la fa.
Prendete anche i 5Stelle: l’anno scorso si illusero che bastassero le piazze, mentre Renzi girava i talk show a televendere i suoi 80 euro, e alle elezioni europee li doppiò: 40,8 a 21.
Poi Grillo e Casaleggio scoprirono che la tv non è il demonio, basta saperla usare con un pizzico di sale in zucca e saperci mandare chi “buca” e “funziona”, tipo i cinque del Direttorio più alcuni altri.
E subito un movimento che pareva destinato al viale del tramonto è tornato a salire nei sondaggi.
Intendiamoci. Non c’è nulla di incoraggiante nel constatare che siamo ancora il paese più teledipendente d’Europa, dopo tutte le teorie sulla morte della tv generalista, sulle magnifiche sorti e progressive della Rete e sull’inutilità  di darci una legge antitrust e sul conflitto d’interessi.
Ma le cose stanno così: anche questa campagna elettorale che dovrebbe essere più vicina e attenta ai problemi locali si fa negli studi televisivi: le regioni sono le istituzioni più sputtanate che abbiamo (fra le tante), e dei loro problemi sembra fregare poco o nulla.
Tant’è che in video i candidati si vedono pochissimo, oscurati dai soliti Renzi & Salvini, con l’aggiunta (tardiva in tutti i sensi) di     B.
Tutti e tre accomunati da un sovrano disprezzo per i cittadini, trattati come carne da cannone, o di porco.
Anni fa, in un altro raro lampo di sincerità , B. paragonò l’elettore medio a “un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco”.
Tutti, ma proprio tutti i leader di partito ci considerano un ammasso di creduloni che si bevono tutto e a cui si può raccontare di tutto.
Renzi, il più grande riciclatore di vecchie muffe della storia repubblicana, continua a raccontarci che sta “cambiando l’Italia”.
Salvini, che non ha mai lavorato in vita sua e vive di politica da 20 anni, cioè da quando ne aveva 20, si spaccia per il nuovo che avanza e gabella per ricette nuove ed efficaci contro l’immigrazione le vecchie e ammuffite patacche usate per vent’anni da Bossi e Maroni e regolarmente fallite a livello nazionale, regionale, provinciale, comunale e rionale.
B. continua a menarla con la “svolta autoritaria” di Renzi, a cui ha collaborato fino all’altroieri.
Mai, nella pur ragguardevole tradizione italiota, s’era visto un così alto, trasversale e totalitario concentrato di balle. In un paese maturo, la rivolta degli elettori umiliati porterebbe a uno sciopero plenario del voto.
Qui è tutto più lento, anche se i sondaggi registrano da qualche mese le prime fughe di massa dal nuovo pifferaio, che è riuscito a farsi sgamare molto più in fretta di quell’altro.
Fughe che però si indirizzano prevalentemente verso l’astensione, che l’anno scorso con l’aggiunta delle bianche e delle nulle toccò il 45% degli aventi diritto, e che ora sfiorerà  il 50.
Cioè toglierà  all’insieme delle forze politiche l’ultimo scampolo di legittimità : quel quorum al di sotto del quale i referendum non valgono.
Se poi la forza antisistema dei 5Stelle confermasse i sondaggi sopra il 20% (pari al 10 degli aventi diritto), avremmo i due terzi degli elettori che contestano in blocco tutti i partiti. Ma servirà  a poco.
Per un paio di giorni si aprirà  il solito dibattito-farsa sul “divario fra paese reale e paese legale” (si fa per dire) e su come “riavvicinare i cittadini alla politica”.
Seguirà  la consueta spartizione delle poltrone fra partiti la cui voracità  è inversamente proporzionale alla rappresentatività .
Il manuale Cencelli calcola le percentuali di cadreghe in base ai voti validi, fossero anche 2 o 3.
Si spera che stavolta chi vuole protestare davvero lo faccia attivamente, votando contro gli impresentabili di ogni risma e a favore dei presentabili.
Chi non vota ha quasi sempre ragione, ma lascia tutta la torta a chi ha torto.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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TALK SHOW: DONNE OVER 65 E MENO COLTI PER GIANNINI, UNDER 65 E PIU’ ISTRUITI PER FLORIS

Febbraio 5th, 2015 Riccardo Fucile

INSIEME RAGGIUNGONO IL 12% DI SHARE, CON UNA LEGGERA PREVALENZA DI BALLARO’

I talk show politici, tranne Paragone tutto solo ne’ “La Gabbia” della domenica, vanno in onda a coppia e, nei limiti del possibile, fanno di tutto per non assomigliare al compagno di serata.
Del Debbio si rivolge alla politica guardandola dalla famosa “parte della gente comune”, Formigli invece la politica la scava dal di dentro.
Il passo teatrale di Santoro nessuno lo confonderebbe con quello salottiero di Porro.
Le distinzioni non sono invece così evidenti fra Giannini e Floris, la coppia del martedì che si spartisce l’eredità  del primo Ballaro (a proposito, martedì scorso messi insieme hanno superato il 12%. Un sussulto o una inversione di tendenza nei comportamenti del pubblico?).
I due programmi, se non si va troppo a sottilizzare, sono simili per struttura, aspetto e contenuti, oltre che, per gli ospiti che saltabeccano dall’uno all’altro, come il poligamo fra le stanze nuziali.
E dunque, per prodotti così simili ti aspetteresti platee somiglianti.
Ma questo è vero solo per la quantità .
Giannini staziona sul 6/7 per cento di share mentre Floris lo segue attorno al 4/5 per cento.
Differenza contenuta, che non denota una prevalenza di Giannini, ma si spiega per una banale e materialissima circostanza: Floris subisce molte più interruzioni pubblicitarie di Giannini (non è Cairo che è cattivo; sono le regole del mercato che lo disegnano così).
E si sa che ogni intervallo pubblicitario, specie quando si avanza verso le ore più tarde (e non a caso la distanza di audience fra i due programmi si allarga con l’avanzare della notte) è un’occasione che molti spettatori colgono per affacciarsi su altri programmi, che magari li catturano, o magari solo per farla finita con la tv e andarsene a dormire.
Se andiamo a guardare non “quanti”, ma “quali” scelgono Giannini e Floris, le differenze saltano invece agli occhi: il pubblico di Floris e composto in maggioranza, non schiacciante ma sensibile, da maschi e nella platea di Giannini accade invece il contrario. Ma quel che più fa la differenza è che le donne che seguono Floris sono concentrate nell’età  da 45 a 64 anni, mentre quelle che si appassionano (più o meno) per Giannini sono le over 65.
E lo stesso spartiacque vige tra i maschi: i più anziani con Giannini, i “quasi anziani” con Floris.
Il riscontro di questa suddivisione lo troviamo nei titoli di studio: gli spettatori fermi alla licenza elementare o alla scuola media (e cioè quelli delle classi di età  più avanzate, che hanno vissuto nell’Italia in cui l’obbligo scolastico era meno esteso) scelgono in gran prevalenza Giannini.
Mentre i figli dell’Italia post boom, quelli che hanno studiato fino al diploma e alla laurea, preferiscono di gran lunga Floris.
E non fa meraviglia, per chi ha appena qualche idea della questione meridionale, che Floris prevalga, e non di poco al Nord, mentre Giannini lo sovrasta al Sud.
Cosa dedurne? Forse, ma fate voi, che le ragioni di divisione del Paese sono talmente forti che riescono a manifestarsi perfino scegliendo fra due cose apparentemente identiche.
Sicchè, ora che il partito-nazione è cosa fatta, ci ritroviamo ancora e come sempre a dover fare gli Italiani.

Stefano Balassone
(da “il Fatto Quotidiano”)

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