CENTO SOLDATI ISRAELIANI OSPITI DI UN RESORT IN SARDEGNA E PROTETTI
IN UN HOTEL DEL GRUPPO HILTON A SANTA REPARATA SGUARDI DIFFIDENTI, IN PUBBLICO PARLANO TRA LORO IN INGLESE
Immaginate un lounge bar al tramonto con un dj e musica chill out. Il sole che si tuffa fra il mare e una delle coste più suggestive della Sardegna. Ragazzi e ragazze, tutti israeliani, che ballano con cocktail mano. Connazionali più maturi in drappelli, tatuati e ben piazzati, che si scambiano pacche fraterne e selfie. Il contesto è un resort 5 stelle con spiaggia privata, tre ristoranti, piscina a sfioro e Spa. E poi massaggi, pilates, hata yoga. Ecco, da questa distanza, Gaza vi sembrerà lontanissima
Siamo al Mangia’s resort Curio Collections di Santa Teresa di Gallura, hotel del gruppo Hilton. Costo medio 4-500 euro a notte, 200 posti, la metà occupati da un unico gruppo di israeliani. La metà sono single fra i venti e i trent’anni, si conoscono tutti. La località si chiama Santa Reparata, nome perfetto per chi è in cerca di anonimato e cerca un rifugio per rimarginare le ferite di guerra. Chi sono ce lo svela una fonte che lavora nella struttura: “Sono soldati israeliani, purtroppo”. Lo sottolinea due volte: purtroppo. “Sono quelli di cui parlano i giornali. Abbiamo la polizia che sorveglia costantemente l’ingresso. Proteggono loro, ma proteggono anche noi. Alcuni si comportano bene, altri dopo che bevono diventano molesti. Urlano, e insultano, sono arroganti e con segni evidenti di stress. Non sono turisti come tanti. Vanno in gruppo come se fossero in squadra, si guardano le spalle. Ogni sera si vanno a prendere bottiglie da bere a bar chiuso. Un po’ li lasciamo fare, cerchiamo di evitare che la situazione degeneri”.
Accade sotto i nostri occhi. A mezzanotte e mezza, dopo che il pullman che li aveva portati tutti a Santa Teresa li riscarica in albergo, la lobby è piena di vita. Chi scrive è l’unico non israeliano fra israeliani che gozzovigliano. I gruppetti sono diventati un unico gruppone. Si ride, si scherza, si beve. Il bar è chiuso, ma sotto gli occhi vigili e quasi paterni di un uomo più anziano, verrebbe da pensare un ufficiale, le comitive si servono liberamente dal bancone. Sulle prime sono gentili, mi offrono da bere, sebbene a pagare sia l’Hilton: “Come my friend, drink something”.
Si chiama Eron, ci siamo conosciuti per caso a Santa Teresa,
dopo che ci ha chiesto da accendere: “Vengo da Israele, questo posto è bellissimo, sai perché? Perché ci si sente davvero liberi. Qui non ti senti giudicato”. Ha il fisico asciutto e le movenze di un militare, ma come altri, diventa sfuggente quando ci si avvicina all’argomento: “Hard times”. È un po’ stupito di ritrovarci proprio in quell’albergo. Gli facciamo notare l’anomalia della sproporzione tra israeliani e autoctoni, lui ridacchia e se ne va. Nel frattempo il clima si è fatto ostile. L’unico fra tutti ad ammettere di far parte dell’esercito è un ragazzo più giovane con cui scambiamo due parole al bancone di un bar. Dice di chiamarsi Reuven e di essere lì solo con un amico: “Voi in Europa parlate di genocidio ma non capite cosa è stato per noi il 7 ottobre”. Non c’è il tempo per un’altra domanda, si offende e se ne va. Lo ritroviamo all’after party con il gruppone, con i commilitoni che lo chiamano con un altro nome. Proviamo a fare un cenno ma il saluto non è ricambiato.
Non indossano kippah o segni religiosi. Quando scendono in paese, le stesse persone che prima si parlavano in ebraico adesso le sentiamo parlare fra loro in inglese. Accade con due donne nella boutique Amare mio, intente a provare vestiti nel camerino. “Non disponiamo di documenti sull’appartenenza di queste persone all’esercito israeliano, – spiega Ismail Fawzi, medico e presidente dell’associazione Amicizia Sardegna Palestina – ma abbiamo elementi significativi: età, corporatura, atteggiamenti, comportamenti, del tutto anomali per turisti ordinari. Sono scortati dalla polizia. Nella nostra esperienza gli israeliani non si muovono così in massa senza basi logistiche, dunque è probabile
che esista un qualche accordo con le autorità italiane”.
I negozianti di Santa Teresa sembrano non farci troppo caso. L’emergenza dell’estate gallurese è l’invasione dei cinghiali. C’è da dire che, anche confusi nella folla, non passano proprio inosservati. Un gruppo di ragazze ieri avrebbe preso a male parole una bancarella che esponeva iniziative palestinesi. Incrociamo tre uomini al nostro arrivo in paese. Sulla quarantina, palestrati, accento israeliano, uno di loro porta uno zaino dell’esercito israeliano. Osservano le vetrine di un negozio di corallo in via Maria Teresa, ma si guardano intorno in modo nervoso come se stessero in pattuglia. Quando si abbandonano i convenevoli hanno fretta di andare via.
Nei giorni scorsi la notizia è rimbalzata fra le chat di attivisti Pro Pal ed è stata rilanciata da un quotidiano locale online, Sardegna 24: ci sono comitive di soldati dell’Idf mandati in Gallura a “decomprimere”, cioè a curare lo stress postraumatico della guerra, sindrome di cui soffrono 3770 soldati sui 130 mila impiegati, con 16 suicidi nel solo 2025. “Faccio parte del Pd e ho ricevuto l’invito alla mobilitazione – racconta Anselmo Soro, titolare del bar – a dir la verità mi sembra che ci sia il rischio di fare generalizzazioni”. I manifestanti fino ad ora hanno organizzato alcuni sit-in all’aeroporto di Olbia, dove hanno contestato comitive di turisti israeliani in arrivo da Tel Aviv: “Non ci sta bene che chi commette crimini di guerra venga qui in viaggio premio”, spiega Vittoria Nicoli, portavoce di Lungoni per la Palestina. Tre consiglieri regionali della lista Uniti per Todde – Sebastian Cocco, Valdo Di Nolfo e Giuseppe Frau –hanno chiesto alla Geasar, società che gestisce l’aeroporto di Olbia, di interrompere il collegamento con Tel Aviv, per “questioni di sicurezza” ma anche per non accogliere “attività economiche e turistiche con un governo che sta violando il diritto internazionale e compiendo azioni riconosciute come crimini di guerra”.
Ieri un corteo di protesta si è affacciato davanti al Mangia’s. Gli attivisti hanno raccolto screenshot di chat interne tra dipendenti della struttura e i loro superiori, in cui si invita a negare ai giornalisti che gli ospiti siano militari. Un copione che si verifica puntualmente quando proviamo a fare qualche domanda: “Sono solo turisti e sono un po’ ovunque”, dice un receptionist senza troppa convinzione. Ma la gazzella dei carabinieri davanti all’ingresso? E la vigilanza disposta dal questore di Sassari? La Digos sostiene non si tratti di militari, ma dei dipendenti di una compagnia di telecomunicazioni. La Cellcom, azienda che lavora per l’Idf e delle colonie dei territori occupati, che ha postato le tappe del tour sardo di un viaggio aziendale: cantine Surrau, isole della Maddalena, Phi Beach Club. Ci sono stati anche loro, ma non sono gli stessi che abbiamo incontrato. Ieri, dopo l’articolo pubblicato dal Fatto sul caso Marche, altra meta scelta per viaggi organizzati dell’Idf, la parziale ammissione riportata dall’Ansa, che cita “fonti informate”: “I soldati dell’Idf in Italia sono tutelati perché considerati obiettivi sensibili”. La vera paura, all’Hilton, è che le sparute manifestazioni si trasformino in qualcosa di più serio. Ce lo conferma la nostra fonte: “Speriamo tutti che non succeda”. Il gruppo americano è già
finito al centro delle proteste dei movimenti Pro Pal. Ieri il Fatto ha provato a chiedere una risposta ufficiale, senza ottenerla.
(da ilfattoquotidiano.it)
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