“GLI ISRAELIANI DETESTANO CHE LA VERITÀ VENGA VISTA”: IL DRAMMATICO RACCONTO DI JAMAL BADAH, FOTOGRAFO DI “PALESTINE TODAY,” SOPRAVVISSUTO ALL’ATTACCO ALL’OSPEDALE NASSER DI KHAN YOUNIS, CHE HA UCCISO CINQUE GIORNALISTI
“QUANDO HO RIAPERTO GLI OCCHI, HO VISTO CHE TUTTI INTORNO A ME ERANO MORTI, PEZZI DEI LORO CORPI ERANO SUL MIO. SIAMO SOLO CRONISTI”
In un primo momento, il suo nome era comparso nella lista dei morti. Ma Jamal Badah, fotografo che lavora per Palestine Today, è uno dei tre reporter sopravvissuti all’attacco dell’esercito israeliano al Nasser Hospital di Khan Younis, che lunedì ha ucciso venti persone, compresi cinque giornalisti. Tra i superstiti ci sono anche il collega Hatem Omar e Mohammed Fayeq. Ci risponde in video, da una barella sgangherata dell’ospedale bombardato.
Che cosa è successo?
«Erano circa le dieci e un quarto di mattina quando siamo stati colpiti. Eravamo già al Nasser, che è una delle nostre basi dove dormiamo e ricarichiamo l’attrezzatura. Dopo il primo bombardamento siamo corsi sulle scale per trasmettere tutto quello che stava accadendo, anche se a morire questa volta c’era un nostro collega che lavorava per Reuters, l’amico Hossam Al-Masri. Come sempre, volevamo essere i primi a raccontare la verità. Quando hanno messo Al-Masri nel sacco nero per portarlo ai piani più bassi, abbiamo acceso i nostri cellulari e continuato a filmare, nonostante la tristezza. In quel momento è arrivato il secondo attacco, questa volta diretto contro di noi».
Che cosa ricorda?
«È stato come se il mondo si fosse oscurato. Quando mi sono ripreso ho riaperto gli occhi e ho visto che tutti intorno a me erano morti, pezzi dei loro corpi erano sul mio.
Sono rimasto bloccato per una decina di minuti, finché sono riusciti a estrarmi dalle macerie. Ho gridato chiedendo aiuto, volevo uscire, ma tutti avevano paura. La situazione era confusa. I soccorritori mi hanno visto, e, grazie a Dio, mi hanno tirato fuori e mi hanno salvato».
Cosa stavate facendo prima dell’attacco?
«Stavamo lavorando. Tra i nostri compiti quotidiani c’è quello di andare nelle zone colpite, scattare e filmare. Quel giorno è stato difficile. Eravamo scioccati dalla morte di Hossam Al-Masri. Era un collega più grande che ci voleva bene, ci teneva a noi più giovani. Ogni mattina passavamo del tempo insieme, scherzava, veniva a farci compagnia. Oggi non posso chiudere gli occhi».
Perché?
«Rivedo Muaz Abu Taha senza testa. O Mohammed Salama tranciato a metà. Non ho idea di dove sia finita Mariam Abu Dagga. In quei minuti lunghissimi temevo arrivasse il terzo attacco perché già il secondo era stato anomalo».
Nessuno se lo aspettava.
«No, lavoriamo sempre subito dopo un bombardamento, è chiaro che se colpisci due volte uccidi noi, gli uomini delle ambulanze, i soccorritori, i medici. Nessuno pensava di essere in pericolo: il raid sembrava finito. Anche se c’erano droni che volavano sopra l’ospedale».
Come sta ora?
«Fa male sia il corpo che l’anima. È difficile, ma grazie a Dio siamo forti e resistenti. Speriamo che la giustizia arrivi».
L’esercito israeliano ha fatto sapere che i civili non sono target.
«Noi giornalisti siamo civili. I miei colleghi che sono morti erano civili. Non abbiamo fucili, né apparteniamo a nessun gruppo armato. Non siamo di Hamas né della Jihad islamica. Siamo solo cronisti. Questo è il nostro lavoro. Non combattiamo contro lo Stato sionista. Le immagini sono tutto quello che ci è rimasto, le immagini che mostrano i bambini e le donne uccise. Gli israeliani vogliono coprire i nostri obiettivi, detestano che la verità venga vista. Per questo sono morti Hossam Al-Masri e tutti gli altri».
Tornerà a lavorare sul campo?
«Sì, Inshallah. Non lasciateci soli in questa ingiustizia, abbiamo solo i nostri cellulari e le nostre macchine fotografiche. Anche se vogliono impedirci di mostrare il male che sta accadendo a Gaza e silenziare la nostra voce, non ci fermeremo».
(da agenzie)
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