“HO SBAGLIATO A FIDARMI DI SALVINI”. L’IMPRENDITORE ANTI-CAMORRA CILIBERTO A CUI E’ STATA TOLTA LA SCORTA : “SALVINI RINUNCI ALLA SUA, COSI’ CAPIRA’ COSA VUOL DIRE VIVERE NEL TERRORE”
IL DRAMMA DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA IN ITALIA, 78 ESILIATI DI STATO… PIERA AIELLO: “PRONTA A LASCIARE IL M5S SE BLOCCANO LE MIE PROPOSTE”
Bersagli viventi, morti che camminano, vite ridotte a matricole, esiliati di Stato.
Si definiscono così e non ce n’è uno che non ti spieghi, mettendo in fila fatti e circostanze, quanto la decisione di denunciare la criminalità gli abbia stravolto l’esistenza.
Sono i testimoni di giustizia, coloro che hanno segnalato le infiltrazioni mafiose, camorristiche, ‘ndranghetiste, nelle proprie aziende, o cittadini che hanno deciso di accusare pubblicamente i clan, puntando l’indice contro boss e affiliati nelle aule di tribunale.
Settantotto nel nostro Paese, secondo i dati forniti ad Huffpost dal Ministero dell’Interno, protetti insieme a 255 familiari.
Con i parenti stretti e i conviventi dividono una vita che, dai racconti che ne fanno, per molti di loro è ormai ridotta a una fila di giorni da scontare come una pena, segnati da paura, rinunce, disguidi quotidiani.
E la rabbia, che sale ogni volta che vengono accostati ai collaboratori di giustizia, – in Italia protetti in 1277 con 4915 familiari – “che hanno denunciato la criminalità , ma dopo averne fatto parte, averla pagata o averci fatto affari. Noi siamo testimoni, non pentiti. Due figure ben diverse, eppure ancora confuse”, è la premessa da cui partono tutti.
L’ultima legge, in vigore dal 21 febbraio scorso, distingue nettamente i collaboratori dai testimoni e assicura tutela, sostegno economico, reinserimento sociale e lavorativo, procedure adeguate alla situazione di ciascun testimone.
Garanzie che, a ripercorrere le storie di molti, per ora sembrano rimaste sulla carta.
La quotidianità è costellata di intoppi e ostacoli: assistere al fallimento delle proprie aziende, essere lasciati da partner che non ce la fanno a sopportare le conseguenze della denuncia, ottenere contributi irrisori e aspettare rimborsi sanitari per anni, vedere i propri beni ipotecati, non poter salutare per l’ultima volta un parente morto o far visita a un figlio in ospedale.
Mentre l’attualità racconta dell’uccisione a Pesaro del fratello di un pentito di ‘ndrangheta, che viveva sotto protezione e in un domicilio segreto, del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che preconizza la sconfitta delle mafie di qui a qualche anno, della revoca “per cessato pericolo” e attraverso comunicazione solo verbale, della scorta all’imprenditore siciliano e testimone di giustizia, Vincenzo Conticello, che continua a chiedere un documento scritto.
Subito dopo aver saputo che di lì a poco sarebbe rimasto privo di protezione, Conticello, che denunciò i suoi estorsori e riconobbe alla sbarra i mafiosi che lo avevano minacciato di morte – arrestati nel 2006 – , aveva dato appuntamento per il 27 dicembre in piazza a Palermo, davanti all’antica focacceria “San Francesco” che un tempo era la sua attività , con l’invito, provocatorio, “a festeggiare la sconfitta della mafia”.
Poi ci ha ripensato, ha lasciato la città . “Non ci sarà nessuna festa, ho paura – spiega ad HuffPost – non vorrei che qualcuno approfittasse della confusione per farmi qualcosa e non vorrei offrire palcoscenici per passerelle ad autorità o politici. Mi hanno detto che il pericolo è cessato, per me e i miei familiari, ma il contesto non è cambiato rispetto a quando ho denunciato, anzi. Ho pensato di ricorrere al Tar come ha fatto Ultimo”.
Di recente, proprio il Tar ha restituito la scorta al colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, “ma senza un documento è impossibile avviare l’iter”, sospira Conticello, l’indice puntato contro “il sistema dei comitati di sicurezza. I testimoni non ricevono informazioni aggiornate, io ho saputo da miei ex dipendenti che persone arrestate grazie alla mia testimonianza erano a piede libero. Devono mettermi per iscritto il motivo per cui mi hanno revocato la scorta”.
Un concetto sul quale, parlando con HuffPost, hanno insistito anche altri testimoni di giustizia storici.
Come Pino Masciari, Piera Aiello. Il primo, ex imprenditore calabrese – “Dopo aver denunciato le pressioni ‘ndranghetiste, ho perso la mia azienda e la mia libertà “, spiega – sottolinea come “gli imprenditori che denunciano non possono essere visti come un costo, vanno tutelati e sostenuti in vita, non solo ricordati dopo morti”.
Piera Aiello, cognata di Rita Atria, la testimone di giustizia che si uccise a 17 anni poco dopo la morte del giudice Paolo Borsellino, ha denunciato gli assassini del marito, figlio del mafioso Vito Atria.
Oggi è deputata del Movimento Cinque Stelle, prima parlamentare con lo status di testimone di giustizia. “È necessario che qualunque cosa debbano dirci sia scritta – spiega – Purtroppo al novanta per cento le comunicazioni avvengono solo verbalmente, io chiedo che tutto ciò che riguarda me venga sempre messo nero su bianco. Ho l’impressione – scandisce – che vogliano murarci, come se volessero farci scomparire”.
Ha annunciato che presenterà la proposta per una nuova legge, “che tuteli i testimoni di giustizia, i loro diritti violati e i loro familiari, spesso dimenticati e non sia, come accade a quella attuale, interpretata troppo spesso a favore dello Stato – puntualizza – Si sono accorti che mia figlia doveva essere iscritta alle elementari quando frequentava la terza. Se non ci avessi pensato io a suo tempo, sarebbe rimasta fuori”. La deputata grillina che ha fatto della difesa “dei compagni di viaggio” – li definisce così – il senso del suo mandato, ha dichiarato di “non essere ancora riuscita a fare nulla, ho trovato un muro di gomma”, ad HuffPost dice di essere “pronta a lasciare il Movimento Cinque Stelle, che non mi ha mai ostacolato, qualora dovesse arrivare un veto”.
Che vuol dire “muro di gomma”?
“Gli uffici del Servizio centrale di protezione sono blindati – risponde la deputata – diversi testimoni mi hanno raccontato di aver chiesto, invano, di parlare con i responsabili. Ho incontrato il sottosegretario Luigi Gaetti (presidente della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle misure di protezione, ndr), mi è parso motivato e disponibile, ma è circondato da una Commissione vecchia, che non mi sembra voglia affrontare davvero la questione, direttamente collegata alla lotta alle mafie”.
Ma in un Paese in cui il ministro dell’Interno dichiara che la criminalità organizzata sarà cancellata, ha ancora senso il testimone di giustizia?
“Mi auguro che quanto previsto da Salvini accada, ma è pura fantasia – sbuffa Piera Aiello – contro mafia, camorra e ‘ndrangheta servono strumenti precisi. Come si fa a vincere se si scoraggia la testimonianza, se i testimoni di giustizia e i loro parenti non vengono tutelati?”.
Per Nadia Furnari, cofondatrice dell’Associazione antimafie “Rita Atria”, una nuova legge per i testimoni di giustizia non serve, “basterebbe applicare quelle che già esistono”.
Quanto a Salvini, “a mio avviso non sa di cosa parla. Di mafia si discute seriamente troppo poco e ancora meno si analizza il fenomeno. Penso che bisogna chiedersi, e cercare le risposte che i cittadini hanno diritto ad avere: dove si lavano i soldi, come si assegnano gli appalti? La figura del testimone di giustizia è fondamentale per combattere la criminalità , ma purtroppo lo Stato tratta la questione con grande sciatteria. Abbiamo chiesto al Campidoglio la cittadinanza onoraria per Rita Atria, morta a Roma sola come un cane, ci hanno ignorato”.
A Ignazio Cutrò i fatti di Pesaro hanno riportato subito in mente quel che potrebbe succedere alla sua famiglia.
In un post su Facebook, l’ex imprenditore siciliano, testimone di giustizia dal 2006 dopo aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori e presidente dell’Associazione nazionale Testimoni di giustizia, ha scritto: “Sui familiari, lo denunciamo da anni, le mafie vogliono abbattere la loro violenza per vendicarsi dell’affronto subito dopo che li abbiamo fatti condannare. Come non pensare alla mia famiglia lasciata priva di qualsiasi protezione?”.
Anche lui da aprile è senza scorta. “Quando l’hanno tolta a mia moglie, ai miei figli, non l’ho voluta più neanche io – dice ad HuffPost – e ora vivo con addosso la paura che accada qualcosa, soprattutto a loro. In un’intercettazione emersa durante un’operazione che ha portato all’arresto di diversi mafiosi agrigentini, si sente distintamente uno di loro che dice: “Appena lo Stato si stanca che gli toglie la scorta poi vedi che poi…. È o non è una minaccia?”.
Ogni mattina, racconta, teme che allo scatto del cancello che si richiude alle loro spalle si accompagni una raffica di colpi di arma da fuoco, ogni sera che qualcuno gli si introduca in casa “perchè le mafie non dimenticano coloro che denunciano”.
Cutrò non ha mai voluto lasciare la sua terra, Bivona, provincia di Agrigento, ma ha dovuto rinunciare alla sua azienda. Dall’ottobre 2015, usufruendo di un decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione, è dipendente della Regione Sicilia e lavora nel Centro per l’impiego del paese.
Da presidente dell’associazione nazionale, negli anni ha assistito a quella che definisce “una rivalutazione” delle scorte assegnate.
Molte sono state tolte, altre potrebbero essere revocate: HuffPost ha chiesto anche questi dati, il Ministero dell’interno si è riservato di comunicarli.
Nel frattempo, dal Viminale è arrivato l’ottimismo di Salvini. “Si dirà che quella del ministro è una dichiarazione “di troppo” – ha scritto Cutrò – Penso, invece, che siamo di fronte a un percorso, sul piano politico e culturale, che le mafie potrebbero leggere come una resa dello Stato. Di mafia si muore, io rifarei quello che ho fatto perchè lo Stato siamo noi non le mafie, ma le istituzioni non riescono o non vogliono giungere alla verità , lasciando soli uomini che hanno avuto il coraggio civile di testimoniare nei processi”.
Anche Gennaro Ciliberto, napoletano, ha affidato a Facebook le sue considerazioni sull’assassinio di Pesaro rivolgendosi direttamente a Salvini per invitarlo a informarsi “su come vivono i testimoni di giustizia, i loro familiari e tutti quelli che hanno denunciato le mafie. Rinunci alla scorta e vedrà cosa significa vivere con il terrore”. Dal 2010 quando, da responsabile della sicurezza nei cantieri di una ditta che lavorava in subappalto per Autostrade per l’Italia spa, denunciò infiltrazioni camorristiche e corruzione negli appalti e anomalie nella costruzione di varie opere autostradali, vive in una località segreta, sotto il controllo del Servizio centrale di protezione del ministero dell’Interno.
Ciliberto sperava che con il governo giallo-verde le cose per i testimoni di giustizia volgessero al meglio. Ricorda “quando i Cinquestelle Di Maio, Fico, Sarti, non ancora al potere, protestavano contro le mafie, ora dei testimoni non si ricordano più”, ma credeva soprattutto in Salvini. “Ho sbagliato a fidarmi delle sue idee, mi ha deluso”, dice ad HuffPost
Sulla base della sua esperienza – “otto anni che nessuno mi ridarà indietro vissuti come un uomo invisibile, con un altro nome, attento a non creare legami stretti, a non lasciare tracce, anche se questo ha significato andare a comprare un medicinale in un’altra regione, iscrivere i figli a mie spese in una scuola privata sganciata dall’anagrafe scolastica nazionale – aggiunge in un fiato – chi vuole denunciare deve sapere bene a cosa va incontro, io col senno di poi ci penserei cento volte”.
Due anni fa ha fatto ricorso al Tar per il cambio totale di nominativo, lo status economico e il livello di scorta. L’udienza è fissata il 19 novembre 2019.
Un altro anno, Ciliberto è sfiduciato. “Chissà che per me o per qualche altro testimone non arrivi prima la vendetta della criminalità – considera – Tanto per lo Stato siamo solo matricole, ci hanno abbandonato rendendoci bersagli a vita”.
(da “Huffingtonpost”)
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