I PERICOLI DEL DECISIONISMO
IL COSTITUZIONALISTA AINIS: “L’ITALIA E’ A UN BIVIO: DEMOCRAZIA LIBERALE O AUTORITARIA”
Una sirena sta stregando l’universo mondo: il decisionismo. L’autorità sovrana di un uomo, d’una donna, o al limite un marziano che decida per tutti, togliendoci il fastidio di pensare, scrollandoci di dosso i dubbi, placando le paure. E liberandoci dalle lungaggini, dai riti democratici, che paralizzano qualsiasi scelta di governo, oppure la revocano un momento dopo averla assunta. In questi giorni ne è prova la Francia, dov’è andato in crisi il quarto esecutivo nel giro di un paio d’anni. Un gioco a eliminazione, di cui è rimasta vittima Élisabeth Borne, e dopo di lei Attal, Barnier, adesso Bayrou. Mentre in Giappone, sempre in questa settimana, è caduto il Premier Ishiba, dopo nemmeno un
anno di governo. Forse domani succederà anche in Spagna, dove Sánchez governa con un solo voto di scarto sulle opposizioni, e con il fiato sul collo della magistratura (altro fastidio delle democrazie) per un’inchiesta sulla corruzione. Ma certamente non può accadere in Russia, in Cina, o nella Turchia e nell’India ormai postdemocratiche, i cui leader sono in sella da un decennio e passa.
Alle nostre latitudini, quella sirena canta da gran tempo. Per primo fu Bettino Craxi, durante i remoti anni Ottanta, a fare del decisionismo uno stile di governo — maniere spicce, niente mediazioni, e il sogno d’una «grande riforma» per stabilizzare finalmente l’altalena degli esecutivi. Dopo d’allora quintali di libri e di convegni, think tank come italiadecide di Luciano Violante, e soprattutto due progetti di riforma costituzionale (timbrati da Berlusconi e poi da Renzi) all’insegna del decisionismo. Respinti ambedue dagli elettori, ma non c’è due senza tre. Giacché quella sirena ci irretisce, promette di semplificarci l’esistenza, se non di rivoltarla come un guanto, secondo lo slogan coniato dal People’s party — antesignano di tutti i movimenti populisti — nel 1894: «una vita più ricca, più felice, più piacevole e sicura per ogni cittadino».
Sicché adesso ci risiamo. Anche se il decisionismo all’italiana per il momento procede a fari spenti, e senza far rumore. Però procede, la linea è già tracciata. E sarà bene farsi trovare svegli quando suoneranno le campane. Perché in quel momento, come ha osservato Enzo Cheli di recente (Corriere della sera, 6 settembre), l’Italia starà davanti a un bivio: democrazia liberale o
autoritaria. Il primo modello è quello disegnato a suo tempo dai costituenti, con un sistema di governo armato di pesi e contrappesi e con una garanzia giuridica per le libertà dei singoli e dei gruppi. Dicono che questo modello abbia reso troppo precari i nostri esecutivi, e almeno in parte sarà pure vero; tuttavia è curioso che la critica provenga dal governo più stabile degli ultimi decenni. Il secondo modello concentra viceversa ogni potere nelle mani solitarie del premier, prosciugando il ruolo del capo dello Stato e sequestrando il Parlamento, cacciato via con nuove elezioni se si mette di traverso, se non è obbediente.
Premierato, è questo il suo nome di battesimo. Benché abbia assai poco a che fare con il premierato di stampo anglosassone, dove l’esecutivo dipende dalle Camere, anziché l’opposto. Negli ultimi tempi i nostri governanti hanno smesso di parlarne, ma intanto la riforma è già stata votata dal Senato. Così come nessuno apre bocca in pubblico sull’altra riforma decisionista che finirà per caderci sul groppone: una nuova legge elettorale. Però s’intessono conciliaboli, filtrano indiscrezioni. E a quanto pare circola l’idea d’introdurre l’indicazione del premier sulla scheda elettorale, blindandola con un bel premio di maggioranza. Un subpremierato, chiamiamolo così. Una riforma costituzionale varata con legge ordinaria. D’altronde la prima — il premierato — contiene già al suo interno la seconda, come noce nel mallo. Se verrà approvata, il nuovo articolo 92 della Costituzione renderà obbligatoria una legge elettorale con «un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza» al premier. Il premio
del premier, parrebbe un gioco di parole. Ma non è un gioco, è una sfida.
(da repubblica.it)
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