IL MINISTERO DELLA VERGOGNA
LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA IN MANO A TRE INDAGATI
Il primo è stato condannato perché spifferava segreti all’amichetto di stanza e, in passato, aveva avuto un problema con una guida in stato d’ebbrezza. Il secondo brigava con protocolli e documenti per liberare un torturatore e riportarlo in patria. La terza è andata dai magistrati a raccontare quello che sapeva omettendo e mischiando il falso con il vero. Quello descritto non è un terzetto qualunque, ma il vertice del ministero della Giustizia, dove un tempo lavorava Giovanni Falcone, giudice ucciso da Cosa Nostra il 23 maggio 1992, quando a via Arenula occupava la direzione degli affari penali. Si tratta nell’ordine del sottosegretario, Andrea Delmastro Delle Vedove, del ministro, Carlo Nordio e della capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi.
Il governo delle destre ha ridotto così quel dicastero mentre si prepara ad affrontare la riforma delle riforme, quella per la separazione delle carriere, vecchio pallino di Silvio Berlusconi e prima ancora di Licio Gelli, capo della loggia segreta P2. L’ultimo guaio giudiziario, un atto dovuto e inevitabile da parte della procura di Roma, è l’iscrizione nel registro degli indagati di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto e zarina del ministero.
I guai della zarina
Il tribunale dei ministri l’ha ascoltata nell’ambito dell’indagine sulla gestione del caso di Osama Almasri, il criminale libico rispedito in Libia con volo di stato nonostante la richiesta di arresto della corte penale internazionale. Nell’atto di accusa delle giudici del tribunale ‘speciale’ si legge: «La versione fornita dalla dottoressa Bartolozzi è da ritenere sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace». I profili individuati sono tre e ruotano attorno alla mancata condivisione con il ministro della bozza predisposta dall’ufficio. Una tesi in contrasto con le stesse affermazioni di Bartolozzi quando ha dichiarato che lo sentiva «quaranta volte al giorno (…) noi ci sentiamo immediatamente; io quando ricevo gli atti glie li mandavo… ogni volta che c’era lui, c’ero anch’io».
Una tesi ritenuta logicamente insostenibile e in contrasto con gli obblighi inerenti il suo incarico, e smentita dalle dichiarazioni di Mariaemanuela Guerra, direttore generale della direzione generale degli Affari Internazionali. La posizione di Bartolozzi, ora indagata dalla procura per aver mentito ai pm, è stata affrontata ieri dalla giunta per le autorizzazioni della camera dei Deputati. Il centrodestra ha provato la strada del conflitto di attribuzione, ma appare un tentativo vano.
La posizione giudiziaria di Bartolozzi non può essere assimilata a quella di Nordio, del sottosegretario, Alfredo Mantovano, e del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Semplicemente perché non è indagata in concorso di reato e quindi non può ‘godere’ del beneficio dell’autorizzazione a procedere, l’ombrello che mette al riparo dal processo i componenti del governo. Dalle parti del ministero corre una battuta di bocca in bocca: «Ne resterà una
sola. Lei».
Negli ultimi mesi sono andati via funzionari e dirigenti storici, chi ha raccontato la sua versione e contribuito alla ricostruzione del caso Almasri paga il prezzo dell’isolamento e un’estate sotto pressione, neanche i rapporti con l’area comunicazione sono idilliaci. Nei posti chiave ci vanno fedelissimi o imputati, come è successo alla direzione generale della formazione del Dap. Nonostante tutto Nordio ha dato ordine di salvare la zarina ribadendo la sua posizione anche in un incontro a palazzo Chigi con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
La proposta di Bartolozzi
Giusi Bartolozzi da Gela è il prototipo del magistrato che piace tanto alla destra. Nella sua carriera giudiziaria nessuna pagina da segnalare tranne quando ha deciso di scendere in politica. Candidata ed eletta con Forza Italia, il suo pensiero sul rapporto politica-magistratura lo aveva sintetizzato in una singolare proposta di legge, presentata nell’aprile 2021, dal titolo «Istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della giustizia».
L’obiettivo era quello di approfondire i rapporti tra le forze politiche e la magistratura. In questo caso avrebbero potuto iniziare ascoltando lei. Ma la commissione Bartolozzi doveva anche indagare i rapporti tra la magistratura inquirente e i mezzi di informazione. Per motivare l’esigenza di istituire quel pool parlamentare d’indagine, Bartolozzi ha vergato una relazione parlando tra gli altri dei pm come coloro che rubano la scena mediatica «avvalendosi della “favola” dell’obbligatorietà dell’azione penale» prima di dissertare sulla separazione dei poteri.
Prima del caso Almasri, Bartolozzi aveva avuto un ruolo anche nella vicenda giudiziaria che aveva portato alla condanna, in primo grado e ora si apre l’appello, di Delmastro Delle Vedove per rivelazione di segreto d’ufficio. La storia è nota, le informazioni riservate passate dal sottosegretario all’amico di stanza, Giovanni Donzelli, il deputato di Fdi che poi le aveva usate come clava politica contro le opposizioni. Anche in quel caso Bartolozzi ha firmato un altro disastro dal quale è stata prontamente salvata.
Nella sentenza di primo grado si legge in merito alle sue dichiarazioni: «È stato chiesto alla teste Bartolozzi quale fosse il senso della citazione di norme che contemplavano gli atti per i quali è escluso il diritto di accesso, ma la teste non è stata in grado, per quanto firmataria dell’atto, di dare una spiegazione convincente (dove all’incalzare delle domande del P.M. che chiede contro di una incongruenza, la teste infine si rifugia in un non ricordo)». Un guaio dietro l’altro, ma la zarina Bartolozzi resta intoccabile.
(da editorialedomani.it)
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