LA SAR LIBICA E’ UNA FARSA; UNA FINZIONE BUROCRATICA VOLUTA DA ITALIA ED EUROPA PER GIUSTIFICARE LA LORO DISERZIONE
COMPIONO SOLO OPERAZIONI DI POLIZIA CON METODI BRUTALI MA NON RISPONDONO MAI ALLE RICHIESTE DI SOCCORSO … UNA GIGANTESCA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE PER FAR AFFOGARE I PROFUGHI
Era il giugno scorso quando Tripoli annunciò, con enfasi trionfale, l’iscrizione nel registro dell’Organizzazione marittima internazionale di una propria zona di Search and rescue (Sar). Larga quanto la costa libica, dalle spiagge di Zuara fino a quelle della periferia di Tobruch, profonda un centinaio di miglia.
L’Europa potè tirare un corale e liberatorio sospiro di sollievo: non era più responsabile per quello che capitava in quelle acque.
A quasi cinque mesi di distanza da quel giorno, dopo aver navigato per settimane nella Sar libica, interpellato fonti ufficiali, parlato con attivisti e visionato documenti giudiziari inediti, Repubblica è in grado di affermare che la cosiddetta “zona Sar libica” è in realtà un quadrante dove si susseguono mere operazioni di polizia, spesso condotte con metodi brutali.
Il teatro di una finzione burocratica e militare costruita dal governo libico, con il contributo fattivo dell’Italia e della Commissione europea.
Quella nuova Sar, del resto, faceva comodo a tutti.
Era un alibi per rasserenare certe coscienze politiche. In Italia e a Malta soprattutto, i Paesi più direttamente esposti all’emorragia di migranti provenienti dal Nord Africa. Certificava infatti che il recupero e il salvataggio di quanti tentavano la traversata era per lo più “faccenda” dei libici. E solo loro. Almeno fino a quando i profughi si trovavano nella Sar.
Da allora i Maritime rescue coordination center (Mrcc) di Roma e della Valletta hanno preso a deviare gli avvisi di distress (segnalazione di imbarcazione in difficoltà ) su Tripoli. Per la gioia dei rispettivi governi, che nulla sanno nè possono sapere di quanto accade davvero da quelle parti: “Duecentottanta migranti salvati e recuperati dalla guardia costiera libica – scriveva su Facebook il ministro dell’Interno Matteo Salvini la settimana scorsa – bene, avanti così, stop al traffico di esseri umani”.
L’Europa, oggi, può dare la cosa per assodata. E può riunirsi a Palermo con le controparti africane e arabe per discutere di come portare il Paese ad elezioni democratiche entro l’anno, dimenticandosi di quanto accade in quel pezzo di Mediterraneo.
La vera storia del naufragio di Josefa
Per comprendere le dimensioni della messa in scena internazionale che si nasconde dietro la storia della Sar libica, un buon punto di partenza è la lettura documenti ufficiali consegnati dall’ong Open Arms alla magistratura spagnola dopo il naufragio del 16 luglio scorso.
Uno dei più oscuri e il cui bilancio, in termini di vite umane, è ancora un mistero.
Da quelle carte si capisce infatti benissimo come funzionino le cose là dentro. Vi sono riportate tutte le registrazioni delle comunicazioni radio e satellitari avvenute tra il 16 e il 17 luglio, compresi i vani tentativi delle navi di Open Arms di contattare Tripoli.
Il 16 luglio è un lunedì. Intorno alle 12.42 la guardia costiera libica avverte la petroliera Triades che c’è un gommone zeppo di migranti in difficoltà molto vicino a loro e ordina di rimanere in stand-by per monitorare. Sul canale 16 della radio, quello delle emergenze, passano almeno 15 conversazioni tra la Triades e i libici durante l’arco della giornata.
Per una petroliera, ogni ora di navigazione persa sono migliaia di dollari bruciati, perciò il comandante spinge per proseguire il viaggio verso il porto di Misurata. Tra le 20.39 e le 20.55, prima ancora che le motovedette libiche abbiano raggiunto il gommone, che si trova a 85 miglia dalle coste di Ohms, da Tripoli arriva l’autorizzazione ad allontanarsi. La Triades esegue e abbandona i naufraghi alle onde. Dopo quest’ultimo scambio, il silenzio.
A bordo delle due navi della ong spagnola, la Open Arms e l’Astral, gli equipaggi hanno ascoltato tutto e fanno rotta verso le ultime coordinate comunicate alla radio. Alle 7.58 della mattina del 17 luglio, scoprono i resti del gommone. La prima cosa che vedono i soccorritori è che i tubolari sono stati tagliati – come si usa fare al termine degli interventi di rescue – e l’asse centrale della chiglia troncato.
La seconda sono due cadaveri galleggianti, e una donna, Josefa, stremata e terrorizzata, aggrappata a una tavola di legno. I libici, intervenuti chissà quando e chissà come se l’erano dimenticata. “No Libia, no Libia”, riesce a dire Josefa, quando i volontari spagnoli la issano a bordo.
Quel che segue è la parte sinora rimasta “coperta” del naufragio, riferita dalla ong agli investigatori.
Inizialmente l’equipaggio della Open Arms, nave battente bandiera spagnola, decide di rivolgersi all’Mrcc di Madrid per organizzare il trasferimento dei due cadaveri (una donna e un bambino) e di Josefa, che necessita di cure mediche. Per tutta la mattinata da Madrid li invitano a rivolgersi al Centro coordinamento soccorsi di Tripoli. “Esiste la Sar libica, è competenza loro”. Stessa risposta quando contattano Roma. “Chiamate i libici”.
Privi di scelta, alle 12.36, dal ponte di comando della Open Arms compongono i tre numeri di telefono libici che gli hanno fornito gli ufficiali di Roma. Nessuno dei tre è attivo. Ne provano allora altri due: squillano a vuoto e nessuno risponde (Repubblica ha provato gli stessi numeri: solo uno ha risposto, ma l’interlocutore parlava arabo e a stento qualche parola di inglese).
Alle 12.50 Open Arms invia alcune mail agli indirizzi indicati della Sar, ma i messaggi ritornano immediatamente indietro. Inesistenti.
Solo alle 15.51 l’Mrcc italiano, sollecitato più volte, e ormai troppo esposto, decide di assumere il coordinamento dell’intervento: i libici – ammettono gli ufficiali di Roma – non hanno risposto neanche a loro. Nè hanno dato mai una spiegazione plausibile sul perchè, durante l’intervento al gommone, si siano dimenticati di raccogliere Josefa e i due cadaveri.
Il silenzio in mezzo al mare
Fatti come questi spiegano perfettamente perchè l’entrata in vigore della nuova zona Sar – con il trasferimento di tutti i poteri alle due Guardie Costiere libiche (una dipende dal ministero della Difesa, l’altra dall’Interno) – ha avuto come effetto collaterale quello di desertificare quel cruciale tratto di mare.
I mercantili e i pescherecci – spaventati dall’ipotesi di fare la fine del Triades e ritrovarsi nei guai – tendono a girare al largo. Dal giorno del conflitto con Open Arms, i libici hanno silenziato ogni strumento di comunicazione pubblico. Persino il canale radio pubblico riservato alle emergenze marine rimane praticamente sempre muto, salvo aggiornamenti meteo.
L’unica attività che si è registrata negli ultimi mesi nelle acque di Tripoli è la costante e continua caccia delle motovedette a gommoni e barconi. Che però tecnicamente non vengono soccorsi, ma “recuperati” (sul presupposto che, fuggendo, abbiano violato la normativa libica sull’immigrazione).
Perchè si possa parlare di reale capacità di gestione dei salvataggi in mare, occorre che la guardia costiera lanci tempestivamente il messaggio di distress via radio, fornendo tutti gli elementi a disposizione ai naviganti per la localizzazione, in modo da convogliare sul punto le barche più vicine.
Occorre poi che le persone tratte in salvo vengano portate in un place of safety nazionale stabilito dal Centro di coordinamento: un approdo sicuro dove queste non corrano rischi. Ecco, le operazioni dei libici non rispondono a nessuno di questi due requisiti.
Da mesi, le pur frequenti segnalazioni di barconi in avaria non vengono condivise ma lavorate “in house” in modo tale da non avere interferenze esterne o fastidiosi testimoni.
E così tutta la questione si riduce a un inseguimento privato, che può finire in qualsiasi modo: con l’ “arresto” dei fuggitivi e la riconsegna ai centri di detenzione; con il loro salvataggio fuori dalla Sar libica, a Lampedusa o a Malta; oppure nel modo peggiore, con una tragedia silenziosa, senza tracce nè testimoni.
Come in fondo sarebbe stata quella di Josefa se non ci fossero stati i volontari di Open Arms.
Quanto al place of safety, la Libia, visti i conflitti interni in corso e la condizione generale del Paese spaccata nei due governi contrapposti, non ne ha uno.
Lo ha detto chiaramente l’Onu, attraverso l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati. E recentemente lo ha ammesso anche l’attuale ministro degli Esteri del governo Conte, Enzo Moavero Milanesi.
I soldi e le motovedette dell’Italia
Un’ammissione pesante. L’Italia, come membro dell’Unione Europea, ha contribuito, e tuttora contribuisce, al sostegno materiale e al funzionamento della Sar libica e della guardia costiera. Durante il governo Gentiloni, Roma ha consegnato alla guardia costiera di Tripoli, guidata allora dal colonnello Massoud Abdelsamad, cinque motovedette militari per attività di Search and Rescue, ricerca e salvataggio.
Tre navi italiane, la Tremiti (agosto-dicembre 2017), la Capri (dicembre 2017-marzo 2018) e la Caprera (marzo-settembre 2018), si sono avvicendate davanti al porto di Tripoli per fornire assistenza logistica alla Sar.
Durante il mandato del ministro dell’Interno Marco Minniti, inoltre, tra i vari piani bilaterali ed europei vennero stanziati 41 milioni di euro (fondi Ue) per la costruzione di un vero Mrcc a Tripoli e per il monitoraggio delle frontiere, a nord e a sud.
Di quel nuovo Mrcc, però, non si hanno notizie ufficiali: l’ultima posizione conosciuta del Centro di soccorso libico era individuata in un ufficio nella sede dell’aeronautica presso l’aeroporto di Tripoli. Così appare nei registri dell’Imo, dove è stata iscritta la Sar.
Altre dodici motovedette sono state donate dal governo italiano lo scorso agosto, con un decreto di consegna alla Guardia costiera libica e due milioni di euro per la manutenzione. Si tratta di dieci unità Cp classe 500, in dotazione al Corpo delle capitanerie di porto, e di due navi classe Corrubia della Guardia di Finanza. “Il governo italiano intende aiutare Tripoli a presidiare meglio la propria area di mare Sar al fine di salvare più vite umane e scoraggiare la partenza dei barconi della morte”, recitava una nota ufficiale del governo Conte.
Per questo, quando lo scorso 8 ottobre, il titolare della Farnesina Moavero Milanesi ha spiegato alla collega norvegese che “in senso stretto e giuridico la Libia non può essere considerata porto sicuro, e come tale infatti viene trattata dalle varie navi che effettuano dei salvataggi” in molti hanno sgranato gli occhi, valutando quella frase qualcosa di simile a un autodenuncia.
Che, però, finora è caduta nel vuoto.
(da “La Repubblica”)
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