LO IUS SCHOLAE E QUEI PARTITI SENZA CORAGGIO: TUTTI TEMONO L’IMPOPOLARITA’
IL CORTOCIRCUITO SUI MIGRANTI: I SOVRANISTI TEORIZZANO I RIMPATRI, POI APPROVANO IL DECRETO FLUSSI
Di immigrati anche legali siamo stufi, devono remigrare (convegno sulla remigrazione, sponsor Lega, un mese fa). Anzi no, ne vogliamo moltissimi, e infatti ne accoglieremo altri 500 mila nei prossimi due anni (ultimo decreto flussi del governo, tre giorni fa). Saranno benvenuti e ai loro figli daremo lo Ius Italiae, cioè la cittadinanza garantita, se fanno le elementari e le medie con profitto (Antonio Tajani, FI, ieri). Anzi no, e per di
più le loro figlie, se musulmane e dunque col fazzoletto in testa, a scuola non potranno nemmeno entrare (Silvia Sardone, Lega, sempre ieri).
Il corto circuito strisciante sull’immigrazione arriva al culmine all’inizio della giornata di ieri, ma dura appena qualche ora. A mezzogiorno Tajani adombra la possibilità di maggioranze d’aula trasversali per mandare in porto la riforma della cittadinanza, ed è subito fuoco e fiamme.
Nel primo pomeriggio è già il momento dei pompieri, perché il medesimo precisa che la legge «non è una priorità» e che comunque il suo partito non è disponibile a concordare il testo con l’opposizione. A sera resta solo cenere. Lega e FdI possono decretare: partita chiusa.
E tuttavia per mezza giornata ci si è lasciati andare a un sogno. Un dibattito vero, solido, senza maggioranze precostituite, che riscatti il Parlamento dal suo letargico tran tran. Un confronto di alto profilo che decida una volta per tutte che cosa sono questi novecentomila ragazzini figli di stranieri che crescono nelle nostre scuole, questi Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, compagni di banco dei nostri figli: una risorsa o un fastidio? Potenziali cittadini o gente sospetta, da tenere ai margini fin quando intorno ai ventidue, ventitrè anni – se insisteranno, se tutto va bene – lo Stato non sarà obbligato a dargli una carta di identità?Il centrodestra, come si è visto anche ieri, nuota nelle contraddizioni. Negli ultimi tre anni ha programmato flussi di immigrati legali per un totale di 949 mila unità, un milione di persone chiamate a lavorare e a vivere in Italia. La Lega ha sottoscritto senza imbarazzi i relativi decreti, anzi ne è stata fervente sostenitrice visto che arriva dagli imprenditori del Nord
la sollecitazione maggiore a cercare mano d’opera, ovunque sia disponibile. E tuttavia, mentre con una mano firmava quegli atti, con l’altra dettava comunicati di condivisione per il summit milanese sulla remigrazione, e cioè il rimpatrio nei Paesi d’origine pure degli immigrati regolari, da ottenere rendendo la vita difficile a chi viene da altre culture: «Una battaglia di libertà e civiltà, di sicurezza, che è il vero spartiacque tra destra e sinistra». Ovvia la domanda: se è vero che questi immigrati legali ci servono – come i decreti flussi dimostrano – perché non dirlo apertamente, perché affrontare il tema dell’integrazione loro e dei loro figli, perché continuare a trattarli come i baubau del discorso sull’Italia?
L’ultima pantomima sullo Ius Italiae, o Ius Scholae, o Ius Culturae – pure la sarabanda delle definizioni illumina sul caos, perché ognuno si è fatto il suo impervio titolo in latinorum – alla fine segnala soprattutto una paura delle destre: quella di perdere voti rinunciando alla retorica anti-immigrati che è da anni al centro della loro propaganda, e di ammettere che l’immigrazione è fenomeno irreversibile, da governare anziché da demonizzare.
Il passo indietro anche della sinistra
È un timore che ha un fondamento. La valanga di voti presa dal generalissimo Roberto Vannacci racconta che da noi sono ancora tanti a collegare l’idea di italianità al colore della pelle, e non bisogna deluderli anche se poi questi coloured ci sono indispensabili a mandare avanti il Paese e pure a pagare le pensioni “bianche”. Otto anni fa quella minoranza irriducibilmente razzista (si può dire?) spaventò pure la sinistra, che sulla soglia dell’ultima approvazione della riforma della cittadinanza si ritrasse all’improvviso e rinunciò al progetto: si
era alla vigilia di un voto politico difficile, meglio non rischiare. Il tema non fu mai più ripreso con la stessa serietà. Non lo fece Giuseppe Conte, che pure ieri invitava Tajani ad andare «subito in aula». Non lo vuol fare Giorgia Meloni, che pure non era ostile alla riforma quando sedeva ai banchi dell’opposizione.
Per fortuna Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, probabilmente non ne sapranno niente. Sono piccoli, convinti di essere italiani esattamente come i loro compagni di banco nati da famiglie venete o siciliane.
Di essere diversi lo scopriranno più avanti, a diciotto anni, ma speriamo per loro (e per tutti noi) che nel frattempo sia emerso in politica quel tipo di coraggio che serve per mandare avanti un Paese, non solo per coccolare minoranze irrimediabilmente reazionarie.
(da agenzie)
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