MELONI PRENDA ATTO: IL GOVERNO ITALIANO NON PUÒ AGIRE “OLTRE” LA LEGGE
ANCHE UNO STUDENTE AL TERZO ANNO DI GIURISPRUDENZA AVREBBE CAPITO CHE IL MODELLO ALBANIA ERA ILLEGALE
La sentenza segna il fallimento del modello Albania, com’era stato concepito dal governo, e quindi la sottoposizione a procedura accelerata di frontiera e a trattenimento per i migranti che, provenendo da paesi “sicuri”, fossero trovati da navi militari italiane in acque internazionali. Il governo aveva puntato sul fatto che i giudici non potessero fare verifiche di legittimità sulla
sicurezza dei paesi. Così non è, e la Corte Ue l’ha scritto in modo chiaro, lineare e definitivo.
I giudici europei, dunque, hanno ribadito la «scelta del legislatore dell’Unione» di subordinare la designazione di un paese come sicuro alla condizione che lo sia «per tutta la sua popolazione e non solo per una parte di essa», in conformità a quanto previsto dalla direttiva Procedure (32/2013/UE). Questo è il presupposto per applicare la procedura accelerata di frontiera, che comporta un esame «rapido ed esaustivo» delle istanze di asilo.
La Corte ha chiarito che uno Stato membro può indicare i paesi sicuri mediante atto legislativo, a condizione che tale atto «possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo vertente sul rispetto dei criteri sostanziali stabiliti dal diritto dell’Unione». In Italia l’elenco dei paesi sicuri, allegato a un decreto del ministero degli Esteri nel 2019, era stato inserito in un decreto-legge nell’ottobre del 2024, a seguito della disapplicazione del decreto ministeriale da parte dei giudici, dopo i primi fermi in Albania.
Il ministro Nordio aveva sostenuto che l’inserimento della lista in un atto normativo ne avrebbe scongiurato la disapplicazione. Su queste pagine avevamo spiegato che essa sarebbe potuta comunque avvenire, per contrasto con la disciplina europea. La Corte Ue, in un passaggio della sentenza, conferma quanto avevamo scritto.
La Corte era chiamata anche a pronunciarsi sulla possibilità per il legislatore nazionale di designare un paese come sicuro «senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per
giustificare tale designazione».
La questione scaturiva dal fatto che, mentre il previgente decreto ministeriale recava in allegato le “schede paese”, ove si dava conto della situazione dei paesi di provenienza, tali schede erano sparite dal decreto-legge, e con esse le fonti usate dal legislatore per valutare la sicurezza del paese. Ciò privava il richiedente della possibilità, rispettivamente, di contestare e controllare la legittimità della designazione di un paese come sicuro, e pure questo l’avevamo scritto.
La Corte di Lussemburgo boccia l’opacità del governo: «Le fonti di informazione su cui si fonda tale designazione devono essere accessibili». Peraltro, il giudice nel controllare la designazione può usare informazioni da esso stesso raccolte, purché ne sia verificata l’affidabilità e garantita alle parti la possibilità di presentare osservazioni.
Con una nota, la presidenza del Consiglio si è detta stupita della decisione, affermando che «la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche».
In realtà, ciò che lascia stupiti è lo stupore di Palazzo Chigi. I giudici non intervengono sulla «politica migratoria» del governo, come dice la nota, ma verificano che tale politica sia conforme alle norme, e quelle europee prevalgono sulla disciplina nazionale. In altre parole, il governo non può agire al di sopra della legge. Giorgia Meloni ne prenda finalmente atto.
(da “Domani”)
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